Non pensate anche voi possa esserci un qualcosa, negli animali dotati di un carapace o esoscheletro, che risulta capace di renderli istantaneamente affascinante? Forse l’aspetto lucido e scintillante, simile ad un’automobile appena uscita dal concessionario, oppure la complessa sovrapposizione di elementi articolati, capace di ricordare una sorta di giocattolo robotico, come un drone costruito da una scienza dimenticata. Specialmente quando le proporzioni sono giuste, sotto ogni punto di vista rilevante, per attirare l’attenzione di chi è in grado di apprezzare un cucciolo diverso dal tipico stereotipo canino o felino. Così quando prendiamo in mano un qualche tipo d’insetto, è istantaneamente meglio che sia grande almeno quanto un piccolo di coniglio, alla maniera dei coleotteri dell’ombrosa giungla sudamericana. Ma eccezioni possono esser fatte, nella costituzione di un’ideale lista di creature degne di essere ammirate, per tutti quei casi in cui qualcosa riesce ad essere piccino E grazioso, al punto da riuscire a guadagnarsi un qualche tipo di ammirevole soprannome: roly poly, doodle bug o porcellino di terra. Quale bambino potrebbe tendere a dimenticare d’altra parte, dopo il trascorrere di settimane o mesi, il suo primo incontro con il piccolo animale appartenente alla famiglia Armadillidiidae, pochi centimetri capaci di riuscire a arrotolarsi su se stessi, formando una sferetta in grado di resistere agli assalti dei predatori! E se vi dicessi che un simile aspetto dell’artropode, nelle giuste condizioni, può riuscire ad incontrare quello cui accennavo nel precedente periodo testuale della trattazione? Un qualcosa di corazzato e (relativamente) imponente al tempo stesso, per fino a 50 cm acclarati e forse ancor più di quelli, che parrebbe uscito direttamente da una linea d’action figures create per accompagnare l’uscita di un film di fantascienza. Misure raggiungibili, grazie all’evoluzione, soltanto grazie al sussistere di condizioni assai particolari, ovvero quelle vigenti in media verso i 310-2140 metri di profondità, dove un tempo si credeva nessun tipo di essere vivente potesse riuscire a sopravvivere in alcun modo. Almeno finché nel 1891, continuano l’opera del naturalista contemporaneo di Darwin, Charles Wyville Thomson, il francese Alphonse Milne-Edwards non ricevette e descrisse approfonditamente il primo esemplare raccolto di Bathynomus giganteus, quello che oggi viene comunemente definito come isopode gigante. Dimostrando non soltanto la possibilità per organismi complessi di resistere alla notevole pressione e relativa carenza di cibo di tali oscuri recessi; ma poter vantare nonostante tutto una morfologia direttamente riconducibile a specie ben più familiari e vicine alla nostra umana civilizzazione di superficie.
Il preciso aspetto dell’isopode, piuttosto uniforme all’interno di questo intero ordine d’animali, prevede un piano fisico innegabilmente funzionale, con sette paia d’arti, cinque appendici toraciche respiratorie, uno scheletro segmentato simile ad un’armatura vagamente medievaleggiante. Abbastanza da riuscire a costituire una costante istantaneamente riconoscibile all’interno dei rispettivi ambienti d’appartenenza, non rientrando almeno formalmente nella classe degli insetti, neanche quando si prende in considerazione il succitato abitante dei giardinetti. Una questione maggiormente applicabile nel caso sottomarino includendo come aspetto comparativo le rispettive categorie dei decapodi, ovvero granchi, gamberi e aragoste, con cui condivide talune caratteristiche senz’altro degne di essere notate. Prima tra tutte, la capacità di sollevarsi nella colonna marittima e iniziare a nuotare con una sorprendente agilità, grazie all’utilizzo dei larghi uropodi laterali situati sotto la propria coda, ogni qualvolta devono spostarsi rapidamente, come per fuggire ad un pericolo istantaneamente percepito. Benché la loro scorza coriacea, per non parlare della remota collocazione dell’habitat di appartenenza, basti a metterli al sicuro da molti potenziali nemici fatta eccezione per i pesci più intraprendenti, tra cui determinate specie di squalo. Non che una qualsiasi delle 20 specie di isopodi giganti successivamente scoperte e categorizzate possa in alcun modo definirsi come una preda particolarmente facile, vista la loro predisposizione assolutamente carnivora e il comportamento qualche volta eccezionalmente aggressivo, vedi la celebre sequenza trasmessa nel palinsesto della serie di documentari statunitensi Shark Week, durante cui un esemplare mordeva ed iniziava a divorare vivo uno squalo del fango (fam. Squalidae) rimasto suo malgrado bloccato all’interno di una trappola sottomarina. Qualcosa di fin troppo cupo, per tentare di descriverlo a parole…
Spesso classificati come spazzini opportunisti delle profondità, gli isopodi giganti sono d’altra parte equipaggiati perfettamente per assolvere ad un tale ruolo in maniera pressoché esclusiva, grazie alla capacità acclarata di resistere anche mesi, o persino anni senza introdurre la benché minima traccia di cibo all’interno del proprio organismo. Nella maniera accidentalmente esemplificata dall’esemplare Numero 1 dell’acquario giapponese di Toba, che smise per ragioni assolutamente non chiare di consumare i pasti che gli venivano portati, limitandosi a mimare i gesti del nutrimento per dare soddisfazione ai suoi guardiani umani. Scelta che non gli avrebbe d’altra parte impedito di continuare a godere di perfetta salute per ben cinque anni fino al 2013, quando passò a miglior vita forse per ragioni totalmente scollegate dal suo digiuno. Una prerogativa senz’altro utile per chi deve trarre giovamento pressoché esclusivo dalla caduta occasionale di grosse carcasse di pesci o cetacei, qualunque possa essere la loro effettiva provenienza e banchettando fino al punto di ridurre la propria mobilità o capacità di nuotare liberamente per svariati giorni o settimane a venire. Questione, quest’ultima, pienamente dimostrata da un singolare studio risalente al 2019, quando un gruppo di scienziati del Consorzio delle Università Marittime della Louisiana, guidato dal biologo Craig McClain, decise di affondare una serie di carcasse di coccodrillo all’interno del Golfo del Messico, riuscendo a dimostrare senza possibilità di equivoci la facilità con cui le operose mandibole degli isopodi riuscivano a penetrare la dura scorza scagliosa del grosso rettile anfibio. Abbastanza da riuscire a rivoluzionare la presunta percezione che un essere tanto specializzato dovesse trarre beneficio unicamente dal tipo di pietanze per cui la natura l’aveva preparato, attraverso i molti secoli pregressi d’evoluzione. Una versatilità altrettanto osservabile dal punto di vista del comparto sensoriale in dotazione, inclusivo di due occhi dotati di tapetum lucidum come quelli dei gatti (benché meno sofisticati) e due coppie d’antenne dalla lunghezza differente, rispettivamente riservate alla percezione di stimoli chimici e fisici durante le accurate perlustrazioni del fondale marino.
Dal punto di vista riproduttivo nel frattempo, per quanto è stato ampiamente possibile documentare nelle osservazioni pregresse, le diverse specie di isopodi giganti non presentano marcato dimorfismo tra i due sessi, fino al punto estremo in particolari casi dell’ermafroditismo. I maschi presentano due peni ed altrettanti pleopodi modificati, capaci di prelevarne lo sperma e depositarlo all’interno del gonoporo del/della ricevente. L’animale che dovrà quindi assumere il ruolo materno svilupperà un letterale marsupio per le uova particolarmente grosse rispetto a quelle degli altri crostacei in corrispondenza dell’apposita sacca toracica, che risulta presente ed incredibilmente ricolma d’acqua anche nelle più piccole specie terrestri. Anch’esse inclini a nascondersi sottoterra e smettere di mangiare fino alla nascita della propria preziosissima prole. Soltanto dopo il trascorrere di un tempo variabile in base alla specie, i piccoli verranno quindi al mondo in forma di mancae, un tipo di esemplare neonato che non ha le normali caratteristiche di una larva, assomigliando piuttosto alla versione sottodimensionata dei propri stessi genitori. Uno stadio, quello riproduttivo, per raggiungere il quale l’animale dovrà effettuare più volta la muta del proprio rigido esoscheletro esterno, mediante una metodologia scientificamente definita muta bifasica, consistente nell’eliminazione della corazza posteriore soltanto successivamente fatto seguire dalla parte frontale di quell’inflessibile vestimento. Questione maggiormente complicata da verificare per quanto concerne i grossi isopodi marini, la presunta capacità di chiudersi formando una sfera nel momento in cui dovessero sentirsi minacciati. Laddove le fotografie in natura di un tale comportamento scarseggiano prevedibilmente, benché alcune prove pratiche di tale dote siano state registrate presso il già citato acquario di Tosa, verso una guisa sferoidale non perfetta quanto quella dei più piccoli esemplari di terra. Non che ciò debba risultare necessariamente insufficiente per assolvere allo scopo difensivo di partenza!
Particolarmente apprezzati negli ambienti degli zoo e menagerie di variabile concezione, soprattutto dai bambini, gli isopodi vengono comunemente esposti all’interno di acquari facilmente osservabili da più lati. Grazie alla loro naturale mansuetudine e tranquillità, non essendo particolarmente inclini a subire conseguenze dallo stress, con soluzioni estreme fino a quella usata dall’istituzione zoologica Aquarium Encounters in Florida, dove l’inviato del canale Brave Wilderness (quello del celebre youtuber Coyote Peterson) rimuove un coperchio traforato per permettere il contatto diretto da parte dei visitatori con gli animali all’interno. Elogiando la presunta voracità e aggressività di tali esseri per qualche minuto senza tuttavia riuscire, con sua percepibile e evidente delusione, a farsi mordere il dito dall’isopode sollevato per la telecamera, che mostra piuttosto un’encomiabile passività visto il rumore prodotto e la costrizione prolungata al fine di spiegare estensivamente le caratteristiche della sua distintiva biologia marina.
Perché non esiste aspetto più affascinante e degno di un’approfondita descrizione, di quello prodotto niente affatto accidentalmente in migliaia di secoli, come l’unica risposta funzionale ad una serie di parametri fortemente distintivi. Gli stessi immaginati dagli originali designer del Pokémon Kabuto, oltre a innumerevoli altri giocattoli, nemici ed altri personaggi dei videogiochi. Non esiste lode maggiormente significativa, d’altra parte, che quella dell’imitazione. Soprattutto quando viene dall’applicazione della sofisticata fantasia umana, che sceglie oculatamente di affidarsi alle preziose fonti d’ispirazione offerte dalla natura stessa.