Poiché la triste verità, l’assoluta e imprescindibile realtà, è che nel 1989 uno dei più caratteristici e meno conosciuti animali d’Australia stava per scomparire molto prima di esser diventato un protagonista dei videogiochi. Percorrendo la stessa strada senza ritorno dei porcospini azzurri, gli idraulici del regno dei funghi, i vermi in tuta spaziale e le linci antropomorfe alla ricerca del filo di lana rubato dagli alieni, molti anni prima che la Playstation della Sony avesse anche soltanto iniziato a rappresentare una forma nel puro regno delle idee: niente joystick con doppio analogico, neanche l’ombra di un CD-ROM, “Crash” sarebbe stato un nome, ed un destino, tristemente simile a quello di tanti altri appartenenti al suo particolare genere animale. Poiché il colore a parte la mancanza delle strisce, le proporzioni e la forma del particolare personaggio a voler essere ambiziosi, lo identificano in realtà piuttosto chiaramente come un membro della specie Perameles gunnii, ovvero la versione di gran lunga maggiormente celebre (sebbene alquanto stranamente, meno comune) dei superstiti tra quelli che comunemente vengono chiamati per l’appunto i peramelemorfi o bandicoot, per analogia del tutto non scientifica col “topo-maiale” di provenienza indiana. Laddove questa creatura notturna di circa 35-40 cm dalle grandi orecchie e il naso conico, che ricorda vagamente quello di un formichiere, è in effetti un chiaro rappresentante dell’infraclasse dei marsupiali, riuscendo a partorire il proprio piccolo dopo un periodo di appena 12 giorni, per poi continuare a custodirlo al sicuro nell’alloggiamento apposito situato in posizione ventrale. Una soluzione evolutiva questa, come ben sappiamo, particolarmente distintiva del continente Australiano e zone limitrofe, strettamente interconnessa ad un particolare ambito ecologico e sistema d’interconnessione tra le prede e coloro che erano naturalmente abituati a temere. Ovvero essenzialmente gufi, quoll e dingo, con l’unica contromisura di restare totalmente immobili cercando di passare inosservati. Di sicuro un’ottima idea in linea teorica, rivelatosi tuttavia del tutto inefficiente successivamente all’arrivo di creature non native come volpi, gatti e cani ferali, perfettamente in grado di varcare il velo di una tanto labile illusione, per fagocitare lietamente il gradito spuntino che non tenta neanche di mettersi in fuga. Una situazione sopportabile per una, due, quattordici generazioni. Ma che infine aveva trascinato, assieme ad altri fattori come la riduzione dell’habitat, i frequenti incidenti e gli esemplari finiti sotto un’automobile, alla riduzione dell’intera specie a soli 150-200 esemplari tra isole e continente, con una particolare concentrazione all’interno di zone poco consone della Tasmania, come uno sfasciacarrozze. Il che aveva portato gli enti responsabili, non senza un significativo rammarico, a dichiararlo formalmente prossimo all’estinzione, un destino da cui l’esperienza insegna, l’intervento umano può riuscire a mantenere al sicuro per qualche tempo al massimo, senza riuscire tuttavia a cambiare fondamentalmente l’andamento delle cose. Se non che i miracoli possono ancora accadere, persino in questa seconda decade degli anni 2000, al punto che lo scorso settembre, senza che nessuno avesse il modo o la ragione di prevederlo, il P. gunnii è stato all’improvviso riportato nell’insieme delle creature vulnerabili, ovvero non più prossime allo stato critico di non ritorno. Questo grazie al coronamento degli sforzi compiuti dall’ente naturalistico Zoos Victoria per un periodo di oltre 30 anni, consistenti nell’allevamento in situazione controllata, il mantenimento della diversificazione genetica e soprattutto la reintroduzione in natura, all’interno di tre particolari siti nella parte sud-est del paese, mediante l’impiego di un sistema eccezionalmente creativo. Ed è qui che entra in gioco il gregge di pecore, assieme allo sguardo quieto ma severo del cane da pastore maremmano…
Egli, il migliore amico dell’uomo. L’animale che protegge, poiché anni di convivenza, stima reciproca ed attenta selezione genetica hanno reso tale attività del tutto intrinseca nella sua stessa natura. Facendone un importante ed altrettanto versatile aiuto, in tutta una vasta gamma di condizioni e circostanze. Vedi l’innovativa trovata, messa in atto a partire dal 2010, di far convivere i pinguini di un’isola situata a largo delle coste di Victoria, lungamente perseguitati dalle volpi locali, con una coppia di cani da pecora abruzzesi, sfruttando la loro inclinazione ad aggregarsi a un branco ed evitare che pericolosi intrusi possano tentare di nuocergli in alcuna maniera. Perciò per qualche anno, la soluzione ideale sembrò quella di fare lo stesso con il bandicoot, facendo familiarizzare all’interno di gabbie separate il topesco e indifeso essere con i candidi guardiani a quattro zampe, che non tardarono a comprendere il principio cardine della loro missione. Se non che il tipico comportamento solitario del marsupiale, unito alle sue abitudini notturne e l’innato mimetismo, si dimostrarono capaci di causare non pochi problemi ai maremmani, la punto che una soluzione alternativa avrebbe chiaramente potuto contribuire all’implementazione dell’idea. E fu così che, all’interno di tre fattorie rigorosamente recintate in quello che era stato per tanti secoli l’areale originario del bandicoot, fu messo in atto il terzo punto cardine di un così particolare piano: quello di far pascolare nella pertinenza rilevante altrettanti greggi di pecore, così da focalizzare l’attenzione e mantenere vivo l’interesse dei cani. Una soluzione destinata a funzionare ancor meglio delle più rosee proiezioni, se è vero che al conteggio attuale circa 1.500 piccoli Crash sopravvivono tranquillamente allo stato brado, i loro predatori mantenuti passivamente ben lontani dal territorio sorvegliato dagli instancabili bulli dal cuore d’oro. Situazione che non può fare a meno di ricordare, alla lontana, quella vissuta dalla triade di Tom, Jerry e il mastino Spike, avversario quasi per partito preso di chiunque possa essere inerentemente incline a perseguitare potenziali vittime della sua fame felina.
Fatto sta, come ebbe a dimostrare uno studio scientifico del 2013 del Prof. Andrew Weeks, che la natura non regala nulla ed un difetto di partenza fu a un certo punto prossimo a costituire un significativo pericolo per la buona riuscita del progetto: quando la popolazione di una specie animale scende sotto il migliaio di esemplari, anche per brevi periodi, qualcosa di particolarmente poco desiderabile inizia generalmente a verificarsi. Sto parlando della consanguineità e la carenza di diversificazione genetica, pericolosa non soltanto per la maggiore vulnerabilità ad eventuali malattie, ma anche e soprattutto per l’esacerbarsi di potenziali difetti genetici, come nel caso specifico una lunghezza insufficiente della mandibola nella parte inferiore dell’appuntito animaletto. Problema non non da poco, per creature che sono solite procacciarsi il cibo, principalmente costituito da vermi e larve d’insetto, ribaltando fino a 13 Kg di suolo nel corso di un singola notte d’inverno. A tale periodo risale dunque la saliente fase 2 della missione, consistente nell’andare a prendere una certa quantità della sottospecie tasmaniana del P. gunnii, ancora geneticamente quasi indistinguibile nonostante una separazione geografica databile ad almeno 15.000 anni a questa parte, con la scomparsa dell’antico ponte di terra capace di collegare le due terre emerse. Una soluzione destinata a sortire esattamente gli effetti desiderati, quando si considera il conteggio attuale degli esemplari assieme alla formale negazione dell’imminente pericolo di scomparsa, con conseguente chiusura del programma dedicato alla riproduzione in cattività. Qualcosa che in effetti, nella storia della conservazione australiana e non solo si verifica in maniera eccezionalmente rara, a ulteriore riconferma delle notevoli capacità dei naturalisti facenti parte della Zoos Victoria, assieme a quelle implicite di una creatura tanto prolifica ed incline alla prosperità, così come formata dal suo pregresso corso dell’evoluzione. Con fino a 3-4 cucciolate prodotte tra maggio e dicembre di ogni anno, di 1-4 piccoli ciascuna nella relativa sicurezza di di un nido costruito con l’erba del bush, dove i nuovi nati resteranno per un periodo di fino a 55 giorni. Prima di spostarsi e andare a stabilire il proprio territorio, generalmente individuabile in un’area piuttosto vasta, di fino a 100 acri per i maschi e 75 per le femmine.
Originariamente parte di un genere biologicamente vario, suddiviso in due famiglie ed oltre 30 specie, il bandicoot a strisce orientale rappresenta oggi una delle tre sole varietà ancora viventi, assieme a quello privo di strisce e dal naso lungo (Perameles nasuta) ed il più piccolo marl (P. bougainville) originario della parte occidentale del continente. Rendendo istantaneamente ed innegabilmente chiara l’importanza di un programma come quello condotto a suo esclusivo e imprescindibile beneficio, pena la triste scomparsa di qualcosa d’insostituibile e prezioso, al minimo utile per una quantità innumerevole di videogiochi futuri… Incluso quello, possibile soltanto nel mondo reale, consistente nel vedere con i propri occhi una creatura dalla grazia eclettica e uno spontaneo senso di meraviglia.
Caratteristiche forse non proprio al centro dell’iter creativo, per autori alla ricerca dell’ennesima mascotte nello stile classico dei cartoni animati? Chi può dirlo. Dopo tutto, se un porcospino riesce a correre più veloce di un treno a vapore, anche un bandicoot può conseguire il più remoto ed importante degli obiettivi. La sopravvivenza, che altro…