Cruciale nella dislocazione geografica delle grandi dinastie è il dualismo tra una capitale del potere temporale e una città sacra, spesso fortemente distintive per progettazione urbanistica e l’importanza data alle diverse tipologie d’edifici. Soltanto a volte, tuttavia, capita che i due diversi poli s’identifichino in un singolo luogo, in modo tale da riuscire a trasformarlo nel letterale punto di riferimento culturale, amministrativo e religioso della totalità delle persone pronte ad indentificarsi nella popolazione di un vasto impero. Questo è il caso senz’ombra di dubbio dei Pandya di Madurai, signori incontrastati di una buona parte dell’India meridionale per un periodo capace di estendersi fino alla metà del XVII secolo, per molte cause tra cui un conflitto dinastico tra i diversi rami della famiglia e le reiterate invasioni da parte dei sultanati musulmani situati a settentrione. Con una durata sufficientemente lunga tuttavia, al concretizzarsi del regno di Kadungon (r. 590–620) da cui avrebbe avuto inizio la loro iterazione dal maggior potere politico e territoriale, da riuscire nell’accumulo di significative risorse, manodopera e prestigio. Sufficienti a fare quello che tanti altri avevano tentato di fare in quel particolare contesto sincretistico: creare un tempio talmente grande, così magnifico, da costituire un punto d’arrivo per tutte le diverse modalità di venerazione dei molti dei ed altri esseri sovrannaturali dell’Induismo. Dedicandolo, in maniera niente affatto accidentale, alla splendente Meenakshi, avatar terreno di Parvati, che sposò nel corso della sua esistenza Sundareswarar il magnifico, niente meno che forma tangibile di Shiva, il distruttore predestinato al termine di ciascun ciclo dell’Universo. Incline a vivere, nel corso dei suoi periodi trascorsi nel regno degli umani, vite plurime di straordinaria ed encomiabile probità. Nonché degne di essere commemorate, ogni qualvolta le cronache e testimonianze letterarie riuscirono a conservarne la memoria.
Narra dunque la leggenda, messa per iscritto nel testo sacro Tiruvilaiyatarpuranam, di come gli antichi sovrani Malayadwaja Pandya e Kanchanamalai non riuscissero assolutamente ad avere figli. E delle conseguenze inaspettate della loro preghiera effettuata mediante l’utilizzo di uno Yajna o falò sacrificale, all’interno del quale avrebbe avuto modo di manifestarsi all’improvviso la figura già cresciuta di una bambina di tre anni, caratterizzata dall’inusuale caratteristica anatomica di possedere tre seni. Così che i meravigliati genitori non tardarono ad adottarla, sebbene inizialmente dubbiosi in merito alle sue potenzialità future di riuscire a trovare un marito. Se non che la voce roboante di Shiva stesso avrebbe loro spiegato di educare la nuova venuta come fosse un bambino di sesso maschile, confidando che quando il suo consorte fosse giunto, il terzo seno le sarebbe caduto naturalmente completando l’insolita profezia. La giovane Meenakshi, a partire da quel giorno, avendo ricevuto addestramento nella pratica di tutte le arti marziali, crebbe per diventare una sovrana illuminata e temibile, capace di espandere ulteriormente i territori ancestrali successivamente ereditati dai Pandya. Finché in un giorno in apparenza come tutti gli altri, innanzi a lei si palesò il predestinato e misterioso Sundareswarar. Fu questa l’origine, a quanto ci viene spiegato, dei primi due santuari costruiti in epoca incerta al centro della capitale, all’interno dei quali i futuri consorti si prepararono all’unione, per poi incontrarsi all’interno della più svettante torre dell’intera India meridionale. Abbastanza notevole, secondo le testimonianze coéve, da giungere a costituire una sorta di sfida per i successivi governanti, più che mai inclini a incrementare il proprio prestigio rendendo progressivamente ancora più magnifico, vasto e memorabile, il tempio unico al mondo di Madurai.
Perché e così che si presenta al giorno d’oggi, dopo l’intervento di tanti successivi governanti: un complesso dalle proporzioni titaniche finemente lavorato fin nei minimi dettagli, costruito e invero addirittura fortificato, all’interno di una serie di mura concentriche idealmente capaci di ricordare l’aspetto di un formale mandala del mondo tangibile, con un’estensione pari a ben 14 acri. Queste ultime intervallato da una serie di quattro impressionanti gopuram (torri-porte) la più alta delle quali in grado di raggiungere i 51,9 metri d’altezza. Ed altre sei più piccole, d’altronde non prive della stessa straordinaria e distintiva caratteristica: la presenza sulle loro mura esterne, configurate come quelle di una piramide a gradoni particolarmente scoscesa, di una quantità di statue riconducibili a 3.000 differenti storie e racconti, raffiguranti dei, demoni, santi e bramini, ciascuno mantenuto attentamente vivido mediante l’applicazione di una verniciatura policroma rinnovata ogni periodo di sette anni. Ed è in un certo senso proprio un simile dettaglio, a permetterci di dare un senso alla realtà dei fatti, che consiste di un utilizzo ininterrotto del complesso per un periodo stimato attorno ai 3-4.000 anni, sebbene le torri nella loro accezione attuale non avrebbero iniziato a fare la loro comparsa fino al regno di Kulasekara Pandya (1190–1216) sovrano poeta e fortemente devoto ai culti del suo popolo, abbastanza da costruire il primo dei gopuram e circondarlo di una serie di santuari più piccoli, ciascuno dedicato a un nume tutelare della dinastia dei Pandya. Ma mantenendo sempre al centro la figura di Meenakshi, colei che si diceva avere “gli splendidi occhi di un pesce” così come due di questi esseri acquatici sarebbero rimasti, per tanti secoli a venire, l’emblema della nazione. A quell’epoca, per quanto sappiamo, il tempio non aveva mura, e come luogo di pellegrinaggio si trovava ad accogliere i visitatori permettendogli di compiere le proprie abluzioni nel sacro Porthamarai Kulam, la piscina del loto d’oro. Nel corso del secolo successivo il tempio avrebbe continuato quindi a crescere, ed i gopuram ad aumentare di numero, fino ad un punto di svolta tristemente significativo nella storia di questo luogo. Sto parlando del saccheggio, e conseguente distruzione, subito nel 1311 ad opera del generale-schiavo Malik Kafur, incaricato dai suoi padroni di espandere il potere del sultanato settentrionale di Delhi e riportare indietro ogni sorta di ricchezze e tesori. La distruzione, per una struttura largamente costruita in legno, fu ragionevolmente completa e ben poche parti della struttura erano ancora integre, quando al viceré straniero Jalaluddin Ahsan Khan fu dato il compito di governare la città. Ciò pose fine, essenzialmente, all’integrazione pressoché perfetta di potere politico e religioso nel Tamil Nadu, rendendo molto difficile la creazione di un nuove strutture paragonabili a quelle del tempio di Meenakshi. Ma l’ammirazione per una perduta età dell’oro, e il desiderio di tornare ai fasti degli antichi predecessori, sono spinte in grado di operare straordinari miracoli ed unire l’intento collettivo dei popoli. Così che nel corso del XVI e XVII secolo, ormai scomparso da tempo l’ultimo re dei Pandya e mutato in qualche cosa di radicalmente diverso il precedente sultanato di Delhi, la nuova dinastia indù dei Nayaka avrebbe trovato terreno fertile per procedere alla ricostruzione, pressoché immutata, del perduto tempio dedicato alla consorte di Shiva.
La città sacra venne perciò ampliata e riorganizzata, in settori concentrici capaci di riprendere la forma stessa prospettata nella struttura che aveva sempre costituito il suo punto di maggiore importanza. La porta principale della nuova Madurai venne rivolta ad est, per dare il benvenuto ogni giorno al Dio del sole, Surya, mentre una lunga serie di processioni e rituali iniziarono a impiegare questa stessa configurazione urbanistica come un importante approccio alla venerazione. Il tempio propriamente detto, nel frattempo, prese ad assumere l’aspetto di una letterale fortezza, affinché la distruzione dell’epoca precedente non potesse compiersi di nuovo, o per lo meno con la stessa immediatezza e semplicità procedurale. Il contatto con la Compagnia delle Indie Orientali, sebbene accompagnata dal consueto proselitismo da parte delle istituzioni religiose provenienti dall’Europa, non avrebbe tuttavia minacciato direttamente la continuità di tali rituali, in un’impostazione di governo maggiormente permissiva rispetto a quella adottata in altri contesti imperialistici della stessa Era. Forse proprio perché nessuno avrebbe mai potuto immaginare di tentare anche soltanto di fermare qualcosa d’imponente, e fuori dal tempo, come il vasto tempio dedicato alla più importante figura femminile dell’intero pantheon induista. Capace di risorgere dalle sue stesse ceneri, per l’importanza posseduta nello schema religioso di etnie distinte ma congiunte dagli stessi obiettivi.
Che la Meenakshi terrena possa essere stata un’effettiva figura storica, in quel periodo antecedente alla nascita di Cristo che viene generalmente accoppiato ad un’arcaica e meno estesa dinastia dei Pandya, è una teoria che si trova alla base di numerose analisi storiografiche ed approfonditi studi degli eventi. Ciò che è certo, è che l’unità sostanziale d’intenti e istituzioni avrebbe iniziato a vacillare soltanto molti secoli dopo, con la morte di Maravarman Kulasekhara I (1310) quando i suoi due figli Vira Pandya IV e Sundara Pandya IV schierarono le armate dei propri fedeli per tentare rispettivamente di acquisire una posizione di preminenza. E fu senz’altro una sfortuna, che proprio in quegli anni le armate musulmane del sultanato di Delhi stessero vagando per il territorio del Tamil Nadu, portando il secondo ad allearsi con loro, una scelta che la storia avrebbe condannato ed il probabile inizio della fine, per un’entità nazionale tra le più potenti nel suo contesto geografico appena qualche generazione prima. Nel giro di appena 10 anni, quindi, il vasto impero iniziò a disgregarsi, con la dichiarazione d’indipendenza da parte del regno di Jaffna, alias Aryachakravarti.
La fine di un’epoca, ma non la fine di tutto quanto! E null’altro che un capitolo nella lunga e poetica storia, di un’amore in grado di attraversare integro le successive iterazioni del travagliato corso del tempo. Grazie alla più potente e indistruttibile di tutte le fortezze: quella situata nella mente indistruttibile delle persone… Ben oltre i limiti biologici, tipicamente apprezzabili, di una singola comunità religiosa.