All’improvviso incoronata dalla nebbia, la visione di uno spettro tra le montagne

Poggiando il bastone da passeggio sulle asperità rocciose dell’alto picco di Bracken, rivolsi un pensieroso sguardo verso l’orizzonte. Quattro, cinque speroni di roccia che sbucavano dall’oceano del nulla, come la candida ed evanescente superficie di Saturno, sovrastata da un sole debole e indistinto. All’orizzonte il frastagliato picco del Wurmberg, la più alta montagna della Sassonia. E tutto intorno, nascoste dalle nubi dell’alba, le molte dighe costruite nel corso dell’ultimo secolo, con la finalità di generare energia elettrica, il progresso e la prosperità del mondo. In quel giorno meditabondo, tuttavia, non pensavo affatto a tutto questo. Ma piuttosto valutando il punto a cui era giunta la mia vita, continuavo a interrogarmi sulle mie possibili opportunità future, ovvero quanto fosse vero che con il trascorrere degli anni, il nostro fato appaia sempre maggiormente simile alle catene di un condannato all’insostanziale schiavitù degli eventi. Un umore ormai purtroppo familiare, ed a cui l’unico antidoto sembrava essere spostarsi lungo irti e ripidi sentieri, camminando il più possibile lontano dalla civiltà. Dove i passi riecheggiavano, riecheggiavano nell’astruso silenzio… Strano, d’altra parte. Poiché non dovrebbe essere l’eco di questo, una mera conseguenza della gestualità umana? E non ero forse fermo, ormai da svariati minuti, nell’osservazione del mare di nebbia? Dunque, ci siamo… Pensai. L’ora è giunta, d’incontrarlo e rivolgergli le mie domande. Per tanti anni avevo sospettato l’esistenza, di costui! Mi voltai di scatto, verso quello che il popolo di Scozia definiva l’uomo grigio di Am Fear Liath Mòr. E lui, naturalmente, era lì a guardarmi fisso, dalle profondità del tragitto montano. Una sagoma di almeno quattro metri, le braccia e gambe impossibilmente lunghe, la testa piccolissima e circondata da uno strano alone circolare. Cinque, sei, sette colori, l’immane risultanza di un prisma completo, formato per un vezzo imprescindibile del mondo. Nella speranza di confermare un’importante teoria, alzai quindi il braccio destro, poi il sinistro. Ed obbediente, lui fece lo stesso, in posizione cruciforme al principiar di quella lunga marcia. “Ecce homo” scandii lentamente all’interno della mente. Il vero mistero è risolto; il vero mostro che si aggira tra i boschi era sempre stato parte di me. L’oscuro doppelgänger, fondamento della psicanalisi, posto innanzi a una visione più Romantica del mondo. Poiché indipendentemente dalle proprie aspirazioni, nessuno può sfuggire al progredire della fenomenologia ottica di tutte le cose. Oggettivamente imprescindibile, quanto la morte, le tasse, l’ultimo episodio di un’interminabile telenovela in Tv.
Egli esiste, d’altra parte, veramente. Pur non possedendo nessun tipo di sostanza; si dice infatti che chiunque fosse tanto folle o fortunato da riuscire ad avvicinarsi all’uomo grigio per toccarlo, non potrebbe fare altro che trovarsi ad attraversarlo con le proprie stesse mani. Percependo magari l’unica esperienza fisica di un tenue calore, proveniente dallo stesso astro che ci da la vita. E qualche volta neanche quello. Poiché un tale criptide, se così possiamo chiamarlo per analogia con lo Yeti, Bigfoot e altri individui solitari ricoperti da quel folto pelo primordiale, compare solamente fuori dallo spettro del tangibile e all’interno dello spazio percepibile coi propri stessi occhi, Ma c’è un’importantissima, niente meno che fondamentale differenza. La maniera in cui può essere immediatamente catturato con fotocamere o registrazioni video, non di un tipo impreciso, incomprensibile o sfocato. Bensì dettagliate ed apprezzabili, come il quadro di un maestro del Rinascimento. Quanto lo studio di fattibilità di un grattacielo o di un ponte. In questi termini, egli esiste e non esiste allo stesso tempo. Ma soprattutto può riuscire a mutare forma in base al proprio osservatore, un po’ come il personaggio fantastico del mago di Oz. Questo perché lo spettro di Bracken, in modo materiale e niente affatto filosofico, si trova potenzialmente all’interno di ciascuno di noi. Previo il raggiungimento del sito idoneo ad evocarlo, ovvero un’alta montagna tra le nubi del pianeta Terra, verso le ore della prima mattina quando il sole è sufficientemente basso. Da riuscire a proiettare la nostra ombra nello spazio iperboreo del vuoto. Eppure un’ombra non possiede aureole. Non raggiunge agevolmente il secondo piano di un edificio. Non parla alla coscienza più profonda e irraggiungibile del suo padrone, mettendo in dubbio, rimescolando ogni certezza precedentemente acquisita nel corso della propria esistenza…

Divina presenza che m’illumini il cammino già percorso, dovrei forse fare un balzo per tornare al plinto da cui emergi con tal mirabile magnificenza? Ma non sai che sei al di là di un vasto baratro senza fondo?

La mera considerazione logica degli eventi, dovrebbe permetterci di sospettare che il cosiddetto spettro di Bracken (per la frequenza con cui si verifica presso la montagna omonima nel territorio teutonico di Harz) debba verificarsi piuttosto spesso, avendo una cadenza ricorrente e prevedibile al verificarsi di particolari condizioni ambientali. Eppure le persone in grado di osservarlo, e registrarlo a massimo vantaggio della posterità, sono abbastanza poche da giustificare la sua trattazione ripetuta in multiple testate in giro per il mondo, dall’Europa fino al continente americano, per non parlare del tetto di quest’ultimo in Nepal, dove si diceva che potesse costituire il chiaro segno del raggiungimento da parte di qualcuno del sublime attimo dell’illuminazione. Concetto non poi così diverso da quello perpetuato in Occidente, in cui un termine alternativo per il fenomeno è sempre stato quello di “gloria”, con riferimento all’aura luminosa dei santi. Insostanziale ed aleatorio, non sempre ripetibile, eppure tanto chiaramente osservabile nel suo più minimo e riconoscibile dettaglio. Ciò in quanto possiede, dal punto di vista analitico, un sentiero di provenienza ormai chiaramente acclarato; lo stesso, con alcuni importanti adattamenti, dell’assai più familiare arcobaleno, sollievo al termine di un lungo pomeriggio di pioggia. Essendo anche il misterioso “spettro” un’effettiva conseguenza della rifrazione solare nei confronti di un nugolo di particelle umide sospese in aria, capaci d’intrappolare ed instradare la luce in particolari configurazioni multicolori. L’antica teoria dunque, che l’aureola dello spettro simile a un arcobaleno avesse origine dall’incompleta oscurità della penombra, è oggi stata superata grazie allo studio approfondito dei progressi fotografici e l’effettiva trasformazione delle immagini sulla base del punto focale scelto di volta in volta. Così che nel modello corrente l’osservatore, letterale Alfa ed Omega di tutto questo, finisce piuttosto per trovarsi al culmine di una fenomenologia di tipo circolare, mediante la quale ogni singolo raggio di luce viene scorporato e rimandato al mittente (effetto delle goccioline sferoidali) in una letterale cascata iridata, con lo stesso angolo relativo rispetto al punto di partenza. Così che l’occhio percepisce, allo stesso tempo, ciascun singolo colore a noi noto, e probabilmente diversi altri per cui purtroppo non possediamo neppure un appellativo.
Lo spettro di Bracken, tanto incomprensibile fino all’applicazione del metodo scientifico e carico di apparenti significati metaforici, ha perciò costituito a lungo un importante punto di riferimento filosofico e letterario. Ciononostante, forse per la sua rara osservabilità, la maggior parte delle testimonianze iniziano a trovarsi verso l’inizio dell’epoca moderna. A partire dalla breve poesia del XVIII secolo di S.T. Coleridge “Costanza nei Confronti di un Oggetto Ideale”, in cui il grande autore inglese descrive chiaramente l’aspetto del fenomeno e l’effetto che questo può avere sui “rustici abitanti” della montagna, inclini a identificarlo come una manifestazione prossima al divino delle sue forme. Ricorrente come immagine del fantastico, esso compare nuovamente come termine di paragone nel componimento di Lewis Carroll Phantasmagoria, discussione tra una mente razionale ed il suo spettro e persecutore attraverso le progressive tribolazioni dell’esistenza. Forse la visione maggiormente pregna, ed inquietante, resta tuttavia quella offerta dal “secondo” padre della psicanalisi Carl Jung, che nel suo “Ricordi, sogni, riflessioni” (1961) racconta di aver sognato almeno una volta il gigante oscuro che lo seguiva tra le nebbie turbinanti ed oscure, mentre l’ultima fonte di luce minacciava di spegnersi tra le sue tremanti mani. Nient’altro che lo stesso tipo di metafora che tende a interpretare le nostre immagini riflesse come provenienti da una qualche realtà parallela, rispondente a leggi non deterministiche di provenienza incerta ed inimmaginabile. Non-recessi di una non-realtà al compiersi di un non-ciclo dell’eterna ruota degli Eventi.

Forse la più inflazionata argomentazione per sfatare presunte testimonianze di creature o misteriosi oggetti volanti: “Non è vero, si capisce dai riflessi.” Ma che dire quando è la luce stessa, a costituire il cuore più profondo dell’intera faccenda?

Visione arcana e dunque tanto spesso memorabile, persino per coloro che già conoscevano la sua esistenza, questa proiezione della propria immagine a distanze straordinariamente significative appare relativamente familiare almeno a una categoria di questo mondo; quella dei piloti, per cui sovrastare il mare di nebbia non è tanto un’esperienza trasformativa tra i momenti della propria vita, quanto l’effettiva quotidianità mentre procedono nel compiere la propria professionalità terrena. Naturalmente, ciò che loro vedono riflesso quando il sole è situato ad un’angolazione corretta per la creazione di un cerchio di gloria, non è la forma di un gigante o yeti delle tenebre della coscienza iscritta all’interno di questo, bensì la sagoma immediatamente riconoscibile del proprio stesso aereo. Molto meno sconvolgente, perché divinità mistiche o creature mitologiche, per quanto ci è dato di comprendere non hanno alcun accesso al mondo fin troppo deterministico della tecnologia contemporanea. Giusto? Oppure no?
Bisognerebbe rivolgere una simile questione all’uomo razzo col suo jetpack; unico ad aver potuto incontrare un doppelgänger intento a compiere la stessa trasvolata ai margini antropomorfi della co(no)scienza. E che ha udito provenire delle intercapedini tra arzigogolata scia della condensa, la solenne voce della Bestia, intenta a trasmettere le importanti parole della risposta: “Vroom, pfoom, brrr!” Peccato l’uomo, di suo conto, non avesse ancora iniziato a porre la sua domanda.

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