Perché sapere che qualcosa esiste non è mai la stessa cosa, a conti fatti, che poterne apprezzare la presenza tramite l’applicazione diretta di uno sguardo. Voltandosi di scatto, mentre un qualcosa di leggiadro sfiora la parte finale della nostra gamba, per scorgerne la forma vagamente indistinta nelle tenebre di quella che viene chiamata “zona di mezzanotte”. Tra i 1.000 e 4.000 metri sotto il livello del mare, dove ogni regola data per scontata viene sovvertita da un profondo e sostanziale mutamento delle regole, finché le cose rigide diventano del tutto vulnerabile, mentre ciò che è liscio, molliccio e semi-trasparente, può trovarsi ai vertici della catena alimentare. Pur sembrando, e in molti modi assomigliando, a un semplice oggetto inanimato. In un mondo possibile, all’altro capo della progressione quantistica degli eventi, nelle vaste steppe eurasiatiche cavalcava un tipo differente di guerriero: sopra un cavallo a pelo ruvido di un’epoca glaciale che non è mai davvero finita, egli impugna l’arco e alcune frecce, mentre un lungo mantello fluisce alle sue spalle ondeggiando nel vento. E sopra la sua testa, il simbolo inscindibile dalla sua casta: un copricapo dalla forma circolare e bombata. Con lunghi e festosi nastri a strascico, di una tonalità tendente al rosa scuro. In taluni circoli, si pensa ancora che la terra sia stata un tempo abitata dai giganti. E in questa versione alternativa della storia, ciò dev’essere stato vero, visto come quel cappello avrebbe in seguito guadagnato la sacra scintilla della vita. Per potersi presentare, nelle vaste profondità marittime, con l’ampiezza complessiva di un intero metro. La lunghezza? Circa 10, ma dipende…
Stygiomedusa gigantea, monotipica all’interno del suo genere, Il più grande invertebrato predatore al mondo. Il più alieno nuotatore degli abissi. Non tramite l’agitazione di una pinna, arti o coda, bensì la vera e propria pulsazione ritmica della membrana che costituisce il suo stesso corpo. Alla maniera tipica delle “vere” meduse o scifozoi, una soluzione all’opposto di quella del velum o velarium, rispettivamente appartenente a idrozoi e cubozoi, organo finalizzato a generare un flusso d’acqua che sospinge l’animale nella direzione desiderata. Ecco una creatura che potrebbe aver costituito la base per tante impressionanti leggende marinaresche, se soltanto non fosse stata osservata, dall’epoca della sua scoperta nel 1910, poco più di un centinaio di volte e quasi tutte concentrate nelle ultime generazioni. Questo per la pessima abitudine, implicita nella sua stessa essenza, a disgregarsi pressoché istantaneamente non appena intrappolata in una rete a strascico, il principale (perché unico) strumento scientifico impiegato all’epoca per catturare esemplari oceanici da fare oggetto di studio. Così che persino oggi, l’occasione di vederne una viva e vegeta è un qualcosa di notevolmente raro, degno di occupare una breve pagina all’interno della storia della biologia marina. Alla maniera garantita, ancora da una volta, dagli agili ricercatori dello MBARI (Monterey Bay Aquarium Research Institute) californiano, il più produttivo centro di ricerca situato in prossimità di un profondissimo recesso marittimo. Ove illogiche creature vagano, senza un pensiero o alcuna valida preoccupazione su questa Terra. Fatta eccezione per il grande parallelepipedo motorizzato con 10 luci al LED da 17.700 e 10.000 lumen ciascuna, più ulteriori 4 lampadine incandescenti da 250 watt ciascuna. Per cui può essere soltanto una fortuna, che il senso della vista nella medusa in questione sia complessivamente distribuito in una catena di organi piuttosto semplici e non particolarmente proni a rimanere abbagliati, data l’abilità d’individuare al massimo le forme generali del fondale. Ma non le minuscole e ondeggianti prede che si trovano a oscillare all’interno della colonna acquatica. Perché mai inseguirle, d’altronde, quando per queste ultime risulta totalmente impossibile sfuggire alla vorace passività di una simile divoratrice delle moltitudini indivise?
Aspetto assai particolare nell’intera famiglia delle Ulmaridi, meduse cosmopolite diffuse in tutti i continenti fatta eccezione per l’Artico, è a tal proposito l’assenza di cnidociti, nematocisti o altre tipologie di cellule capaci di paralizzare e avvelenare le prede. Questo in luogo della dote, non pienamente sottoposta ad alcun tipo di approfondimento scientifico, di riuscire a intrappolare il proprio cibo tramite l’ingombrante e particolare forma dei suddetti tentacoli, più simili a strisce di stoffa che i normali arti parzialmente attorcigliati di una medusa, in qualche modo capaci di guidare il cibo verso l’apertura boccale e l’ampio stomaco situato subito dietro ad essa. Così da dare incidentalmente alla creatura un aspetto ancor più surreale e impressionante, del tipo posseduto da visioni oniriche ai confini meno conoscibili dell’esistenza. Per quanto concerne l’effettivo ciclo vitale di questa creatura, la cui longevità resta comprensibilmente ignota, possiamo dunque fare affidamento sulle nozioni di tipo generalista che possediamo in merito alla sua vasta nonché variegata genìa. Le quali prevedono, successivamente al rilascio tra i flussi planktonici di cellule o gameti appartenenti ai due sessi distinti, la formazione di piccole larve definite planulae, capaci di orientarsi e pilotare almeno in parte il proprio moto ondeggiante nel grande flusso sommerso della natura. Finché non riusciranno a individuare il punto ideale da chiamare casa, ancorandosi al fondale tramite l’impiego di efficace disco pedale, sviluppando il corpo a forma di quadrifoglio e la corona di tentacoli che identifica uno scifistoma, simile a un polipo (degli cnidaria) o anemone adulto. Ma le sue trasformazioni non sono certo finite, come esemplificato dall’inizio del processo che prende il nome di strobilazione, consistente nella riproduzione tramite segmentazione trasversale della piccola creatura. È in questo modo, dunque, che la risultanza della commistione tra i materiali genetici dei suoi due genitori viene replicata un certo numero di volte, massimizzandone la resa a vantaggio della generazione incipiente. Ed è soltanto al termine di un simile processo, che da ciascun polipo potrà staccarsi la versione sottodimensionata della medusa adulta chiamata epyra, già libera di muoversi e nuotare liberamente, cercare la prosperità ed a tempo debito, l’occasione di congiungersi a una controparte riproduttiva.
In questo modo le meduse hanno continuato ad occupare una nicchia importante nell’ecosistema marino, indipendentemente dalla profondità oggetto di analisi. E con un’impatto recentemente rivalutato fino a una collocazione di primaria importanza, persino paragonabile a quello delle balene ed altri cetacei dei vagheggianti oceani di questo pianeta. Il tutto all’insaputa e sostanziale indifferenza degli umani, per la semplice ragione che non è possibile catturare uno scifozoa di queste dimensioni, senza distruggerne completamente la conformazione fisica di partenza. Ed è qui che entrano in gioco le moderne tecnologie impiegate dallo MBARI ed altri centri all’avanguardia, tra cui le sofisticate tipologie di ROV (veicoli a controllo remoto) come il Doc Ricketts usato nel nuovo video della Stygiomedusa, varato nel 2009 e che entro il 2017 ha avuto modo di festeggiare la sua millesima immersione, ancora una volta a largo della coste della California. Un veicolo senza equipaggio dalle dimensioni di 182 centimetri x 365 e 213 di altezza, del peso non indifferente di 4,7 tonnellate, senza dubbio alla base della sua capacità d’immergersi fino alla profondità di 4.000 metri senza riportare alcun tipo di malfunzionamento. Recentemente aggiornato con una connessione cablata a banda larga e telecamere con risoluzione 4k, del tipo utilizzato per riuscire a catturare le immagini di questo eccezionale nuotatore degli abissi terrestri. Un investimento che sarebbe assai difficile considerare poco valido, dei considerevoli fondi concessi alla ricerca scientifica dai molti investitori, pubblici e privati, secondo le metodologie più tipicamente rappresentative del più facoltoso paese nordamericano.
Che la biodiversità del pianeta Terra sia qualcosa d’incredibile, per lo meno volendo usare le semplici norme della logica del tutto priva d’informazioni specifiche, è ormai un assunto largamente parte della coscienza comune. Per l’enorme e impressionante varietà di creature, nelle più diverse fogge e forme, che percorrono i recessi dei diversi ambienti che circondano i nostri più ingombranti agglomerati urbani. Perciò non può che essere un miracolo, se la specie umana che oggi domina gli spazi vitali ancora disponibili non ha del tutto sovrascritto gli altri passeggeri di quel viaggio cosmico che continuamente connota e supporta l’evoluzione progressiva dei nostri giorni.
E così dovrebbe continuare ad essere… Per sicurezza. Poiché chi veramente potrebbe affermare, in anticipo, quale aspetto e forma dovessero avere le prime specie senzienti che incontreremo? Ed a contatto con quale genìa, insetto, pesce, uccello o altro animale, esse potranno provare il più acuto e spontaneo senso d’empatia? Magari, un giorno, meduse come queste avranno il ruolo di ambasciatori. Non per la loro specie, ma la nostra. Al cospetto d’imponenti troni interstellari! Le logiche dell’Universo sono vaste, molto più del mare.