Perché alla fine un grande governante non può fare altro che piantare i semi. Saranno i suoi remoti discendenti, a ritrovarsi a cogliere i frutti, positivi e negativi, delle sue scelte. Il sommo Kanmu, cinquantesimo discendente terrestre della Dea del Sole Amaterasu, rivolse il suo sguardo verso il distante ingresso della Grande sala delle Udienze recentemente ultimata dopo molti mesi di lavoro, tra le schiere di funzionari, guardie di palazzo e nobili di corte chiamati a presenziare uno dei momenti più importanti del suo regno. Lentamente, seguendo un complicato cerimoniale, il guerriero dalla pelle scura Sakanoue no Tamuramaro avanzava verso il trono, genuflettendosi ogni quattro passi nonostante il peso non indifferente dei suoi abiti cerimoniali, il grande elmo, la faretra vuota che rappresentava il proprio ruolo all’interno della tradizionale società del clan Yamato. Raggiunta la infine la piattaforma rialzata dove si trovava il suo sovrano, sollevò per qualche attimo il capo, le mani protese raccolte sul ginocchio destro, mentre pronunciava le parole di rito: “Il figlio del Cielo ha richiesto la mia umile presenza. Cosa posso fare per soddisfare i terreni requisiti della sua saggezza?” Kammu-tennō, con ai lati attendenti che tenevano le sacre insegne che a quell’epoca dovevano accompagnare la sua carica in qualsiasi momento, guardò lo specchio della saggezza Yata no Kagami, un tempo usato per restituire la luce dell’astro vitale a un Giappone reso cupo dall’arroganza del fraterno Dio delle tempeste, Susanoo. “Abbiamo sopportato le scorribande del popolo degli Emishi abbastanza a lungo. Il nostro inviato nei territori settentrionali e tuo predecessore, Ōtomo no Otomaro, si è dimostrato indegno della fiducia che avevamo riposto in lui. Per questa ragione, nel nono giorno dell’ottavo mese…” Qui trascorsero alcuni momenti di silenzio ad effetto, mentre il cancelliere della Capitale della Grande Pace (Heian) si avvicinava alla piattaforma con in mano la preziosa Shichishitō, spada a sette punte normalmente custodita nel tempio di Isonokami. “Noi ti nominiamo Taishōgun, grande generale che sottomette i barbari. Ora va, mio suddito onorato. Cavalca verso i confini dell’Impero e vedi che la nostra volontà sia del tutto esaudita.”
Circa un secolo dopo, durante il regno del 66° Imperatore, Ichijō-tennō (980-1011), è un sito del potere molto differente, quello che sorge al centro della grande città che governa l’arcipelago più a Oriente del mondo antico. Già parzialmente abbandonato nelle sue più vaste sale meridionali, costruite sulla base di un cerimoniale particolarmente grandioso ed importato direttamente dalla Cina, tale interpretazione nipponica della Città Proibita vede tutta l’attività concentrata nella parte centrale del Dairi, 182×226 metri di complesso dove si trovavano le residenze propriamente dette della famiglia reale. In quest’epoca di pace e cultura, in cui le donne si occupavano di questioni colte e scrivevano opere letterarie tra le più importanti del paese, un particolare edificio assume un’importanza di prim’ordine: si tratta del cosiddetto Tokaden, dove risiedeva la somma consorte, assieme al resto delle concubine e le loro onorevoli attendenti, incaricate di mantenere uno stile di vita che potesse costituire un modello da seguire per il resto dei nobili di corte. In questo luogo, menzionato più volte come termine di paragone nelle celebri Note del guanciale, raccolta di poesia dell’autrice coéva Sei Shōnagon, il principe splendente Genji della sua collega e rivale Murasaki Shikibu, prima scrittrice di romanzi della storia umana, s’incontrava clandestinamente con le sue molte amanti delle grandi famiglie, totalmente all’oscuro del comportamento disinibito delle loro figlie. Ma nel frattempo, gli edifici abbandonati circostanti nella cittadella murata del Chōdō-in diventano secondo l’ideale shintoista luoghi di perdizione, residenze di fantasmi e spiriti malevoli, per questo privi di guardiani e frequentati da effettivi criminali ai margini della società civile. Più volte colpito da incendi e ricostruito fino al 1177, mentre i sovrani si trasferivano temporanemente nei grandi palazzi appartenenti all’influente famiglia dei Fujiwara, il mitico palazzo di Heian-kyu venne infine abbandonato e distrutto del tutto nel 1227, mentre il tentativo successivo di ricostruirlo, da parte dell’imperatore Go-Daigo nel 1334, non sarebbe mai stato realizzato a causa della difficoltà nel reperire i fondi necessari.
Gli anni trascorrono, la ruota gira e persino i ricordi delle cose più fantastiche e meravigliose, svaniscono come se si trattasse di neve sotto lo sguardo della fiammeggiante Dea dei cieli. Così il grande palazzo fortemente voluto dal sommo Kanmu, un tempo simbolo dell’illimitato potere imperiale, come tante altre strutture costruite in legno scomparì del tutto. Almeno fino all’inizio del 2015, quando un team di archeologi inviati a svolgere indagini nel quartiere di Kamigyo a Kyoto, l’antica Capitale della Pace Heian, non riuscirono a trovare un qualcosa di tanto a lungo desiderato. Nient’altro che una serie di fori paralleli nel terreno del cortile di una casa di cura…
Pubblicati formalmente in questo novembre del 2021 sulla gazzetta accademica cittadina, assieme ad accurate note filologiche e un catalogo fotografico del sito, i loro ritrovamenti gettano luce su uno dei misteri più importanti della storiografia nipponica: dov’era situato esattamente il Dairi, residenza di Kanmu, Ichijō e tanti altri eredi della loro somma carica, e quali erano le sue effettive proporzioni? Ciò che gli addetti dell’Istituto di Ricerca Archeologica di Kyoto hanno scoperto, dunque, include parte delle fondamenta e alcuni elementi infrastrutturali di uno degli edifici più famosi appartenuti al vasto complesso, proprio quel Tokaden occupato dalle donne dal lungo corridoio d’ingresso con vista sulle montagne, scenario ricorrente per tanti anni di letteratura più o meno romantica della tradizione giapponese (vedi anche il romanzo Namamiko di Fumiko Enchi del 1965, dedicato alla consorte Teishi dell’Imperatore Ichijō). Il tutto come desumibile dalla consultazione di un testo di epoca Edo (1603-1868) ed la coerente individuazione di una serie di fori scavati nel sottosuolo, perfettamente coerenti con la tipica tecnica utilizzata per la costruzione di edifici all’epoca di Kanmu-tennō, secondo modalità importate direttamente dalla Cina continentale. Altrettanto significativa, in tal senso, l’assenza di pietre piatte sopra cui poggiare i suddetti e ormai scomparsi tronchi, usate normalmente nel Regno di Mezzo ma ritenute superflue per gli hotatebashira, tipici pilastri della tradizione locale. Sotto i quali si diceva, in taluni ambienti, che venissero sacrificate con scopo apotropaico al loro posto delle effettive vite umane, probabile ragione per cui era considerato estremamente imprudente visitare i luoghi ormai privi di frequentazione, dove i loro spiriti vendicativi si aggiravano in cerca di una giusta soddisfazione. Altrettanto importante nello schema architettonico del sito riportato alla luce, con una misura di 12×27 metri di lato, una serie di pietre probabilmente facenti parte di un originale canale di scolo, da cui l’acqua piovana raccolta dal tetto potesse venire deviata ed incanalata lontano dagli edifici. Una soluzione di epoca successiva e probabilmente risalente ad una delle interpretazioni successive del palazzo, rinate dalla sue ceneri più volte nel corso del decimo secolo e quello immediatamente successivo.
È perciò particolarmente interessante notare come proprio in quell’epoca, considerata all’apice nella storia dell’arte e della letteratura per quanto concerne l’intero periodo Heian (794-1185) buona parte del complesso imperiale fosse già in disuso, mentre l’intera ed assai ridotta corte veniva continuamente “ospitata” presso le maestose regge e residenze dei suoi membri più facoltosi. Disegnando chiaramente le caratteristiche di un mondo primariamente crepuscolare, in attesa del grande cambiamento che più o meno tutti, a loro modo, si sarebbero ben presto aspettati. Le prime avvisaglie di una simile trasformazione, come sappiamo molto bene, si ebbero con l’inizio della guerra Genpei, una catasfrofica guerra civile combattuta tra il 1180 e il 1185, ma già combattuta a colpi di terribili oltraggi tra i clan guerrieri fedeli a due diversi rami dell’influente famiglia dei Fujiwara: i Taira, visti come gli usurpatori, e i fedeli Minamoto. Tale punto di svolta fondamentale nella storia giapponese, così efficientemente narrato nel romanzo epico del XIV secolo dell’Heike Monogatari (di un autore questa volta sconosciuto, ed assai probabilmente maschile) avrebbe portato alla deposizione del legittimo Imperatore Go-Shirakawa, per porre sul trono del crisantemo la figura del monarca bambino Antoku nipote di Taira no Kiyomori, che aveva soli due anni all’inizio del suo regno con l’apertura delle ostilità. In un’epoca in cui non soltanto i sovrani del Giappone si sarebbero trovati privi di una reggia o sacra residenza, ma avrebbero dovuto vagabondare per il paesi accompagnati dalle loro corti, talvolta accontentandosi di accampamenti militari o vecchi e polverosi palazzi frequentati dagli spiriti dei morti. Fino al sommo sacrilegio della battaglia navale di Dannoura (25 aprile 1185) durante cui lo stesso Antoku cadde in mare annegando assieme alla nonna, poco prima che la sua imbarcazione venisse catturata dai Minamoto. Un epilogo drammatico della vicenda, che avrebbe condotto alla serie di eventi capaci di condurre all’istituzione del primo shogunato come organo fondamentale di governo del paese, con collocazione a Kamakura sotto l’autorità di Minamoto no Yoritomo, ben lontano dalle raffinate corti e palazzi della vecchia capitale Heian-kyo (Kyoto).
E all’inizio ed alla fine di una simile vicenda, non si può che ricordare quanto già menzionato: che un sovrano non potrà mai cogliere i frutti degli alberi pluri-secolari da lui piantati. E così come i due arbusti d’arancio e di ciliegio che sorgevano di fronte alla Shishinden, sala delle incoronazioni del vecchio Heian-kyu, avrebbero fornito i rispettivi doni negli augusti recessi del cortile del Dairi, sarebbe stati i successivi riceventi della carica militare di Sakanoue no Tamuramaro, il primo conquistatore degli Hemishi, che una certa tradizione storiografica vorrebbe essere un guerriero immigrato di provenienza africana, a portare alla sostanziale disgregazione di un’Era. Perché forse aveva ormai fatto il suo tempo, perché non c’era più modo, né ragione, che gli antichi dinasti potessero tenere in mano le redini del vasto Impero.
O forse perché nessuno aveva mai ascoltato la saggezza delle donne, nei recessi retrostanti della misteriosa sala del Tokaden. Il cui sito esatto, finalmente ritrovato dopo tanti anni di ricerche, è già stato coperto nuovamente dalla terra del quartiere di Kamigyo per volere della commissione incaricata. Per proteggerlo, senz’altro, ma anche affinché non possa arrecare alcun tipo di disturbo alla perennemente auspicabile epoca della Grande Pace di coloro che risedono all’interno della circostante casa di cura. Il cui vero scopo, adesso come allora, appare assai difficile da percepire nella naturale progressione caotica delle vicende umane.