In una delle più famose leggende nipponiche inerenti al mondo degli Yokai, mostri o fantasmi che condividono occasionalmente il mondo degli umani, l’attuale stretto di Shimonoseki, tra le isole di Honshu e Kyushu, risulterebbe popolato da una specie assai particolare di granchi. Chiamati Heikegani, dal nome di un antico clan guerriero, essi porterebbero sopra le loro schiene il volto intrappolato e rianimato dei samurai che morirono annegati, nel corso della grande battaglia di Dan-no-ura, che si svolse presso questo luogo al culmine della guerra Genpei (1180-1185). Marchio effettivamente visibile, nella particolare forma del carapace posseduto dalla specie Heikeopsis japonica, e reso ancor più chiaro ed evidente attraverso i secoli, a causa di un possibile fenomeno di selezione antropogenica, da parte dei pescatori superstiziosi che gettavano in mare gli esemplari più somiglianti. Poiché non è insolito che cose ripescate dalle ignote profondità degli abissi riescano a portare alle mente gli antichi ricordi guerreschi, subordinati nel trascorrere del tempo alla situazione storica di partenza e quella d’arrivo; quasi come se il sacrificio delle molte migliaia di uomini e donne, dolorosamente preteso dall’altare del conflitto, fosse ormai svanito dalle pagine sbiadite degli eventi. In un libro che ancora una volta, verso la metà del mese scorso, sembrerebbe essersi spalancato con una visibilità niente meno che globale, mentre il popolo di Internet tentava di reinterpretare, per quanto possibile, una serie d’immagini decisamente impressionanti. La scena si svolge presso una delle coste sabbiose dell’isola di Iō Tō, più famosa in Occidente con il nome che gli fu assegnato durante il corso dell’ultimo conflitto mondiale, Iwo Jima. E per la battaglia orribilmente sanguinosa, combattuta tra 20.000 truppe giapponesi e 110.000 soldati statunitensi, fermamente intenzionati a catturare le batterie antiaeree che impedivano il bombardamento dei propri nemici all’altro lato del Pacifico, proprietari di un impero destinato all’annientamento. Protagonista un elicottero, inviato dall’importante testata d’informazione nazionale Asahi Shinbun, ad osservare lo stato delle cose a qualche mese di distanza dalla roboante eruzione del vulcano sommerso Fukutoku-Okanoba, il più attivo e (normalmente) invisibile, inaudibile dei rilievi facenti parte dell’arcipelago meridionale delle isole Ogasawara, almeno fino alla comparsa improvvisa lo scorso agosto di un anomalo pennacchio di fumo in grado di raggiungere la stratosfera terrestre. E nel susseguirsi delle settimane, il verificarsi di una serie di prodigi paesaggistici, tra cui la nascita spontanea di un isolotto a forma di mezzaluna, formato dall’accumulo di materiale magmatico sgorgato a una profondità marittima di appena 29 metri. Nonché lo spontaneo ampliamento ed emersione di regioni costiere delle isole più vicine, inclusa la vicina Iō Tō, portando in evidenza un qualche cosa d’assolutamente notevole. Poiché nessuno sembrava aspettarsi, nel panorama ripreso dal suddetto apparecchio televisivo, la colossale serie di forme fin troppo riconoscibili, capaci di gettare la loro ombra sopra la compatta distesa di sassi, sabbia e pomice: nient’altro che un totale di nove scafi, o parti di scafo superstiti, appartenenti a un numero non facilmente identificabile di vascelli, molto evidentemente risalenti al periodo di un’ottantina di anni a questa parte, quando una gremita moltitudine combatté con le unghie e con i denti, oltre alle più terribili armi prodotte nella prima metà del Novecento, per il controllo di una sottile striscia di terra dal valore strategico assolutamente spropositato. Da qui l’immediata teoria, ripetuta più o meno ovunque presso i social d’ordinanza, che le navi in questione dovessero rappresentare “corazzate ed incrociatori imperiali” che erano state “coraggiosamente affondate” nel corso dello strenuo conflitto che stravolse il volto socio-politico della sua Era. Come nei migliori esempi di racconti spaventosi di Yokai e fantasmi normalmente recitate per la festa di Obon (13-15 agosto) sorprendentemente simile alla ricorrenza di Halloween entro il paese dello Zio Sam, le apparenze potrebbero generare un giustificato sospetto di essere stati tratti in inganno, ulteriormente amplificato dal bisogno di “far notizia” chiaramente attribuito ad una simile forma di comunicazione. Come Yoshitsune del clan dei Minamoto che sconfisse i Taira a Dan-no-ura, guerriero noto per l’abilità di dirimere la nebbia che si frapponeva tra i due mondi, sarà dunque il caso d’inoltrarsi nell’approfondire l’intera questione…
La prima problematica nel comprendere l’effettiva portata di una simile scoperta è la presa di coscienza relativa a un fatto pienamente annotato sulle cronache coéve: che il conflitto combattuto ad Iwo Jima, isola vulcanica di appena 21 Km quadrati, non fu in effetti una battaglia navale, data la presenza di appena qualche vascello di supporto giapponese contro gli oltre 500 scafi americani, che sottoposero la limitata terra emersa ad un bombardamento pesantissimo per un periodo di oltre 10 giorni. Destinato a rivelarsi totalmente insufficiente a concludere l’assedio, tuttavia, data la profondità e resistenza dei bunker preventivamente scavati dal nemico nella resistente roccia vulcanica dell’isola, portando alla costosa invasione di terra di cui ben sappiamo. L’effettiva provenienza delle “navi fantasma”, dunque non soltanto esula dall’effettivo fervore di uno scontro armato, ma le vede caratterizzate da una significativa disparità di provenienze, con soltanto un paio che battevano all’origine bandiera nipponica, un certo numero provenienti dall’Unione Sovietica e la maggior parte, in effetti, di evidente manifattura statunitense. Con un’effettiva provenienza che si è rivelata del tutto chiara, anche ai non iniziati, successivamente a una dichiarazione contestualizzata della vicina base militare americana dell’isola di Kadena. Che non ha certo tardate a riconoscerle, potendo disporre dei diari risalenti all’epoca del conflitto, in cui è annotato chiaramente chi fu a piazzarle in tale luogo, e perché. Niente meno che i genieri appartenenti al gruppo di marina dei Seabees (alias C.B, ovvero Construction Battallions) incaricati dopo la cattura dell’isola nel 1945 di metterla in sicurezza e prepararla alle operazioni marittime ed aeronautiche del loro schieramento. Una missione che avrebbe finito per richiedere, in un tale luogo totalmente esposto agli elementi, la costruzione di un punto d’approdo pienamente funzionale, ed in funzione di ciò dotato di una barriera sufficientemente solida contro i feroci marosi del Pacifico settentrionale. Fortuna che la soluzione, in quel caso specifico, sarebbe risultata tutt’altro che difficile da trovare. Dovete considerare a tal proposito, come verso la fine della seconda guerra mondiale una larga percentuale delle flotte nazionali fosse ormai composta da navi da trasporto di recupero, costruite con i materiali ancora disponibili dopo l’esaurimento pressoché completo dell’acciaio ed altri metalli di più alto valore. Il che aveva portato al varo, da entrambi i lati della barricata, di un certo numero d’imbarcazioni oceaniche costruite con qualcosa di raramente associato al concetto di galleggiamento: il cemento, cos’altro? Una nave costruita nella più tipica sostanza usata nella costruzione dei grattacieli, può in effetti galleggiare senza particolari problemi (ciò diceva lo stesso Archimede) sebbene risulti afflitta da una pesantezza molto superiore alle soluzioni d’altro tipo, e conseguente limitata maneggevolezza da parte del suo equipaggio. Ma anche un significativo, impareggiabile vantaggio: la capacità di trasformarsi in un letterale edificio, una volta che ha esaurito la propria vita utile, e rimosso il materiale e la tecnologia di valore all’interno, viene fatta inabissare dove maggiormente si è riusciti ad individuarne l’utilità. Così questa fu la fine alquanto ingloriosa, di un intero squadrone composto secondo il diario di guerra COMSERRON 12 – 2/1-28/45 (liberamente consultabile presso il sito degli Archivi Nazionali) da un totale di 15 navi dotate di nomi evocativi come la Caliche, la Gilliak, la Oregon, la Krablov (chiara provenienza russa) la Toyotu Maru (catturata direttamente dal nemico) la LST-278 (?) ed ulteriori nove di cui non viene fornito l’appellativo, forse perché non furono mai considerate degne di riceverne uno. Questo tipo di soluzione quindi, benché non fosse in grado di costituire una protezione costiera di approdo pari a quella di una struttura realizzata ad hoc, avrebbe potuto continuare a resistere per molte decadi a venire, anche successivamente alla disgregazione delle (poche) parti metalliche possedute da ciascun vascello, lasciando lo “scheletro” di cemento che possiamo ammirare tutt’ora. A parte la nozione romantica che fossero effettive vittime di guerra, dov’è quindi la bufala della notizia fatta circolare online in abbinamento al video dell’Asahi? Beh, non è difficile da immaginare: che i relitti delle navi, in effetti, presso un tale luogo ci sono sempre stati. E che anche col significativo ritrarsi delle acque sulle coste di Iwo Jima, a dire il vero, non è “misteriosamente riemerso” alcunché…
Ecco a tal proposito una foto satellitare risalente al 2005, in cui le navi usate dagli americani come barriera frangionde risultano chiaramente visibili al di sopra del livello delle acque, anche se chiaramente distaccate dalla linea costiera dell’isola. D’altra parte, come avrebbe mai potuto essere diversamente? Se il livello dell’acqua fosse stato più profondo 80 anni fa, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di affondarle in quel luogo. Il che non toglie, d’altra parte, alcun tipo di fascino ulteriore alla visione spettrale della loro attuale collocazione oltre il limite della risacca, quasi come fossero state portate in tale luogo dall’effetto di un colossale tsunami o vortice spazio-temporale. Un punto di confine prototipico, attraverso le culture ed i paesi di una buona parte del mondo, tra il mondo tangibile e quello che nessuno può affermare, a pieno titolo, di aver compreso nelle sue più inusitate implicazioni e misteri.
Come dimenticare, a tal proposito, la reazione memetica e presa in giro per un’intera generazione tecnologica della conferenza alla fiera dell’E3 videoludica del 2013, in cui il CEO della Sony Kazuo Hirai presentava al pubblico il titolo per PS3 Genji: Days of the Blade, dalla presunta “Narrazione storica e precisione delle situazioni culturali rappresentate” per poi trovarsi a gridare pochi minuti dopo: “Giant Enemy Crab!” alla comparsa di un simile crostaceo gigante sulle spiagge della baia di Dan-no-ura. Il che è sostanzialmente ironico, poiché la comparsa di quel mostro in tal contesto ha in effetti una radice storica e culturale niente meno che fondamentale. Almeno se si osserva la faccenda da un punto di vista folkloristico giapponese, che non è esattamente quello posseduto dall’intero popolo dei videogiocatori privi di conoscenze in materie. Ed è proprio questo in ultima analisi lo spirito della cultura post-moderna. Che non dovrebbe, tuttavia, filtrare nella fornitura d’informazioni sugli eventi mondiali, soprattutto in merito ad un’eruzione che si sta ancora svolgendo nel momento in cui si pubblica la titolare imprecisione. Ma il diavolo, si sa, non fa i coperchi e neanche il Tengu sull’alta montagna. Che varia il ciclo delle stagioni, con un singolo imperioso gesto del suo ventaglio.