Irraggiungibile potrebbe rivelarsi, col procedere e con l’inasprirsi delle condizioni presenti, l’agognato azzeramento dell’impronta di carbonio di una società prettamente industriale come la nostra, per cui il consumo di risorse, d’acqua e l’emissione di sostanze innaturali nell’atmosfera rappresentano effettive conseguenze inevitabili, così come la produzione di anidride carbonica lo è dell’atto stesso di respirare. Ma c’è un qualcosa, nella lenta progressione del pianeta verso l’auto-annientamento, che potrebbe avere conseguenze irrimediabili in un tempo ancor più breve: e questa è la saturazione dell’ambiente con il tipo di prodotto “collaterale” che frequentemente incontra la definizione di spazzatura. È stato stimato ad esempio, dalla Ellen MacArthur Foundation in collaborazione con il World Economic Forum, che gli oceani della Terra conterranno 937 milioni di tonnellate di spazzatura contro 895 m.d.t. di pesce, confermando e definendo un capovolgimento che potrà soltanto continuare a peggiorare. Questo in forza di quel materiale, più di ogni altro, nato da macromolecole e additivi frutto della scienza chimica, assolutamente non biodegradabile e per questo in grado di durare ancor più a lungo di un reperto preistorico di pietra d’ossidiana. Eppure se osservando la storia nel suo complesso, potremo ragionevolmente osservare la sopravvivenza della specie umana per molti millenni potendo contare su sostanze forse non altrettanto impermeabili o indistruttibili, ma comunque funzionali ai suoi bisogni primari: la ceramica, il legno, il cemento… Fino alla creazione, in epoca moderna, di una ricca serie di contesti in cui è proprio la plastica, con la sua notevole praticità e versatilità d’impiego, a giustificare la sua stessa imprescindibile essenza. Al punto che sarebbe sembrato totalmente impensabile, al principio degli anni 2000, immaginare un mondo che si sposta in avanti, sostituendo tale pilastro con un qualcosa che sia meno problematico nei confronti del nostro singolo ambiente. Poi è arrivata la Evocative di Green Island, NY, e le cose hanno iniziato a prendere una piega del tutto inaspettata.
Dev’essere d’altronde stata un’esperienza notevole, quella vissuta all’epoca degli studi dal futuro laureando in botanica e futuro CEO Eben Bayer, in occasione della presentazione al suo professore dell’Università della California di un progetto teorico per la coltivazione con finalità industriali di diverse specie di funghi, durante un forum accademico per le invenzioni e l’innovazione da parte delle nuove generazioni. Occasione nella quale, non soltanto l’accademico in cattedra si dimostrò entusiasta dell’idea, ma consigliò caldamente al giovane di percorrere un tale sentiero fino alle sue estreme conseguenze, poiché avrebbe rappresentato un letterale barlume di speranza per tutti coloro che avessero finito per supportarlo. Così incontrandosi col suo collega scienziato Gavin McIntyre, Eben decise di lasciare il mondo del lavoro da dipendente in cui era entrato subito dopo la conclusione del suo percorso di studi e fondare assieme a lui nel 2007 la spesso rischiosa impresa di una start-up, chiamata in un primo momento Greensulate. Un’iniziativa destinata a confermare la sua correttezza con il primo conseguimento di un premio da 16.000 dollari entro lo stesso anno e soprattutto un finanziamento in quello successivo di 700.000, ricevuti a seguito della vittoria nella Picnic Green Challenge, evento europeo tra le più grandi riunioni comparative di nuove invenzioni tecnologiche nel campo dell’imprenditoria sostenibile. Abbastanza da stabilire i confini entro cui l’azienda avrebbe operato con l’assunzione di un certo numero di dipendenti e la costituzione del primo stabilimento operativo, presso Green Island, progressivamente riempito da contenitori dall’umidità controllata, ed un misterioso cubo gigante al centro esatto del suo cavernoso ambiente di lavoro. Forma nella quale, con laborioso e continuativo impegno, i suddetti avrebbero inserito mero materiale di scarto dell’industria agricola, assieme all’ingrediente segreto, per dar forma all’evidente aspetto candido di un materiale del nostro domani…
La Greensulate d’altra parte, ben presto ribattezzata con l’attuale nome di Ecovative Design, non è stata certo la prima compagnia interessata alla trasformazione in materiale della nostra vita quotidiana del micelio, il corpo sotterraneo di filamenti intrecciati tra di loro (le ife) da cui scaturiscono i funghi tanto comuni sulle nostre tavole, e non solo. Ma osservando la sua serie di successi, lo stile di marketing e l’alta penetrazione del mercato anche a livello internazionale della loro interpretazione di questa vera e propria “colla” naturale, è innegabile che sia stata quella dimostratasi capace di ottenere i risultati migliori, e perciò maggiormente utili a preparare una potenziale deviazione del nostro itinerario dritto verso la bocca dell’ecologica e precedentemente descritta fornace. Operando in una serie di campi tra cui spicca, primo tra tutti, quello della creazione di un materiale da pacchi per la protezione dei prodotti spediti a distanza, in una potenziale sostituzione a tutto tondo dell’indistruttibile polistirolo. Ed a dire il vero la loro proposta in tal senso, di un materiale definito commercialmente MycoComposite, sembrerebbe aver convinto alcune aziende di primo piano nel mercato attuale, come Dell e Puma e Steelcase, oltre ad un’ampia gamma di realtà locali statunitensi, interessate a far notare dal cliente finale la propria programmatica attenzione nei confronti della situazione ambientale corrente. Una condizione assai desiderabile del tipo fondato su dati oggettivamente validi, tra cui la producibilità di un ordine completo a tutti gli effetti nel giro di circa tre settimane a partire da trucioli di legno e segatura posti negli ambienti climaticamente controllati, a patto di avere disponibile uno spazio sufficiente e stampi preventivamente preparati in materiale plastico. Così come la matrice intagliata nel legno rappresentava all’origine della stampa il punto di partenza d’innumerevoli xilografie, e con le stesse ramificazioni a più livelli della presente società umana: stiamo parlando infatti di un materiale del tutto inerte una volta fatto essiccare o soggetto a temporaneo congelamento, capace di mantenersi integro in attesa del suo impiego per un tempo indeterminato, eppure incline ad auto-disgregarsi una volta immesso nell’ambiente o in una discarica, in un periodo di appena un paio di settimane. Difficile perciò immaginare un sistema di confezionamento migliore sotto ogni punto di vista rilevante, tranne quello (non del tutto trascurabile) del costo unitario di produzione. Qualche dubbio è stato anche avanzato sulla scalabilità di una simile industria, che se mai dovesse diventare uno standard del settore dovrà necessariamente richiedere stabilimenti dalle proporzioni spropositate, al fine di far crescere una quantità abbastanza elevata di funghi con il loro imprescindibile strato di versatile micelio. Tanto adattabile alle diverse circostanze che, nei fatti, si è dimostrato in questa ultima decade adattabile a numerosi contesti alternativi tra cui quello dell’edilizia, previa creazione di un vero e proprio tipo di mattone, in fungo pressato e senza l’uso di additivi chimici, abbastanza solido ed ignifugo da poter essere impiegato nella costruzione di un potenziale nuovo tipo d’edifici. Come ampiamente dimostrato dall’architetto David Benjamin con il suo padiglione a torre dalle linee organicamente sinuose per il MOMA di New York, chiamato nel 2017 Hy-Fi e creato integralmente mediante l’impiego di una così inusitata sostanza. Per non parlare delle ulteriori applicazioni scoperte più recentemente nel campo delle materie tessili, grazie all’implementazione di un tessuto in grado di sostituire il cuoio grazie alla coriacea resistenza delle sue fibre. E l’ultima avventura, in ordine di tempo, della Ecovative con il suo prodotto Atlast, una “piattaforma alimentare” insapore ed inodore, totalmente conforme ai precetti del veganismo, capace di assumere le caratteristiche gastronomiche di una vasta gamma di pietanze, tra cui ad esempio il bacon. Un mercato economicamente di peso, che continua a crescere col proseguire degli anni e potrebbe costituire il sistema per far ingrandire e potenziare i mezzi a disposizione dell’azienda, verso l’implementazione di processi produttivi su scala superiore.
Che il coriaceo micelio prodotto da specie fungine che sbucano dal terreno come la sbrisa (Pleurotus ostreatus) o il grande cappello delle varietà che crescono sui tronchi (gen. Ganoderma) possa rappresentare il futuro dei materiali monouso è ormai una certezza più che una probabilità, mentre la produzione della plastica e il polistirolo dimostrano l’implicazione di un costo sempre più elevato nei confronti dell’ambiente da cui traiamo il sostentamento e gli spazi necessari alla nostra sopravvivenza. Soprattutto quando si considera la facilità con cui tale forme di vita possono essere manipolate, massimizzando la produzione di ife rispetto ai funghi propriamente detti, in realtà meri organi sporiferi dell’organismo nel suo complesso. Un fine ancor più semplice da perseguire, di quello impiegato per i campi dell’agricoltura nei confronti delle forme di vita vegetative a noi maggiormente affini… Fino alle ragioni del sospetto. Eppure qualsiasi possano essere i nostri pregiudizi per quanto riguarda il misterioso, ignoto e qualche volta velenoso mondo dei funghi, appare sempre più difficile negare non soltanto l’utilità, ma l’effettiva necessità di poter disporre di una soluzione capace di sostituirsi a quelle attualmente strutturali per la stessa sopravvivenza del mondo contemporaneo. Una vera ragnatela di bisogni e necessità, ancor più complessa e stratificata del suolo stesso della foresta! Che tuttavia non hai avuto nessun tipo di problema a mantenersi compatto, proprio grazie alle fibrose espressioni sotterranee del cibo magico preferito dalla cacciatrice di conigli Alice e l’unico idraulico italiano ad essere un nemico giurato delle tartarughe.