Il fatto che una forma di vita vegetale possa essere utilizzata, per associazione diretta, come punto di riferimento al fine di procedere allo sfruttamento di una specifica risorsa terrestre ha sempre costituito una cognizione controintuitiva, ma non totalmente limitata al mondo metafisico della prospezione alchemica e la presunta veggenza dei minatori. Così come ampiamente dimostrato, fin dal tardo Medioevo, dai cercatori di metalli utili in Svezia, che erano soliti attivarsi unicamente in presenza di macchie violacee di Lychnis alpina, pianta perenne anche nota come “fiore del rame”. Una correlazione di tipo popolare che soltanto avrebbe molti anni dopo trovato la conferma, grazie all’applicazione del metodo scientifico, grazie alla capacità del suddetto vegetale nel riuscire a tollerare ingenti quantità di un simile metallo, generalmente tossico per qualunque arbusto incline a mettere radici o far sbocciare la propria chioma. Che oggi questo approccio alla questione possa risultare utile, nell’applicazione della scienza poco nota della geobotanica, resta tuttavia opinabile, data la relativa facilità nell’individuare simili depositi mediante l’impiego dei mezzi tecnologici contemporanei: magnetico, gravimetrico, radiometrico, sismico… Considerate ora, di contro, l’ipotetica identificazione di un marker vivente utile al ritrovamento di una pietra minerale assai più rara, e interconnessa ad una fitta rete di misticismo economico al punto di essere considerata favolosamente (e non del tutto giustificatamente) preziosa. Sto parlando del diamante, ovviamente, nient’altro che un cristallo trasparente di carbonio i cui atomi, sotto pressioni straordinariamente significative, hanno assunto una disposizione del reticolo a struttura tetraedrica, agevolando la trasformazione in uno dei più significativi simboli materialistici del Vero Amore. O almeno questo ci hanno insegnato a pensare alla De Beers e altre aziende del settore, attraverso una campagna di marketing che dura ormai da più di un secolo, fondata sul controllo ferreo del mercato e delle fonti geograficamente limitate di una così inaccessibile, e relativamente rara risorsa terrestre. Miniere per le quali sono state combattute vere e proprie guerre, paesi disagiati hanno schiavizzato la loro stessa popolazione e interi racket internazionali hanno continuato a sfruttare il segreto di una delle pulsioni più antiche e imprescindibili della razza umana: l’avidità. Possibile che in questo intero mondo, assoggettato a regole fisiche e biologiche ormai largamente acclarate, non esista un tipo d’approccio migliore?
Questa domanda sembrerebbe essersi posto a priori Stephen Haggerty, ricercatore di Scienze della Terra presso l’Università Internazionale della Florida, fino alla pubblicazione di uno studio 6 anni fa che avrebbe potuto anche rivoluzionare i metodi di prospezione diamantifera impiegati nell’intera Africa Occidentale, se non ci fossero stati fortissimi interessi nel mantenimento di un redditizio status quo procedurale. E il tutto a partire da una mera osservazione effettuata nel corso di una collaborazione mineraria in Liberia, durante cui ebbe modo di registrare la presenza di una strana pianta in corrispondenza di quello che viene geologicamente definito come un tubo di kimberlite, ovvero il residuo stratigrafico di un antico condotto magmatico, dalle distanti viscere della Terra fin quasi alla superficie. Per un’associazione poi riconfermata in un secondo ritrovamento, situato ad oltre 50 Km di distanza.
Di un tipo di formazione, spesso considerata difficile da individuare, formalmente associata ad una buona percentuale di depositi diamantiferi economicamente redditizi, stabilendo siti utili all’inaugurazione di un nuovo impianto di scavo. Ma sarebbe ancora davvero opportuno considerare tali luoghi un segreto, dal momento in cui un arbusto alto 25-30 metri diventasse il punto di riferimento estremamente chiaro, nonché visibile sulla distanza, della potenziale cornucopia di un tesoro in pietre preziose? Il tutto previa identificazione non propriamente facilissima, s’intende, del perché e del cosa…
Ricevendo così l’unica identificazione da parte dei locali del nome comune polispecifico di Pamaya, associato ad una varietà di piante usate come materia prima per la realizzazione di stuoie, accessori e abbigliamento in foglie intrecciate, Haggerty ha iniziato a mettere a confronto l’albero miracoloso con le sue non scarse conoscenze in materia. Fino all’inserimento corretto, poi riconfermato dalla consulenza di uno specialista, nel genere per lo più asiatico delle cosiddette viti ad albero o Pandanus, piante monocotiledoni che vantano la maggiore biodiversità nelle terre di Madagascar e Malesia. Ma presentano una speciazione sufficientemente imprevedibile, nelle oltre 750 varietà acclarate, da permettere l’occasionale scoperta in territori precedentemente inusitati. Così che il ritrovamento del buon professore, in un tempo ragionevolmente breve, fu associato alla specie relativamente rara del Pandanus candelabrum, albero denominato in base alla forma ed il raggruppamento delle lunghe foglie a nastro lanceolare, con aggressive spine ai bordi e nella loro parte mediana. Ipotesi ulteriormente confermata dalla presenza di una grande quantità di semi triangolari secchi in terra sotto i rami, facilmente associabili al tipico frutto (non ancora osservato nel contesto Liberiano) simile a una giaca dalla forma vagamente sferoidale, oltre alla presenza sulla pianta d’infiorescenze sia maschili che femminili, piuttosto rara nei pandani. Altra caratteristica primaria per l’identificazione, l’evidente forma delle radici al di sopra del livello del terreno, ragionevolmente simili a quelle di una mangrovia, nonostante l’assenza di terreno paludoso per molti chilometri in qualsivoglia direzione. In merito all’identificazione dell’effettiva ragione, poi, per cui una simile forma di vita vegetale dovrebbe risultare inerentemente attratta dalle formazioni geologiche di kimberlite, l’autore dello studio ha scelto di prodigarsi in una serie di analisi chimiche, dei campioni prelevati in-situ e contestualmente all’elaborazione dell’ambiziosa ipotesi di partenza. Un processo tale da riuscire a rivelare, nella composizione della linfa posseduta dagli alberi, una quantità superiore alla media locale di potassio, fosforo e magnesio, tutte sostanze notoriamente associate alla composizione dei tubi magmatici, frequentemente utilizzate al fine di confermare la possibile presenza delle agognate pietre brillanti. Sebbene occorra specificare come tale equivalenza dei depositi kimberlitici con l’effettivo ritrovamento di giacimenti sfruttabili in maniera economicamente proficua sia tutt’altro che sicura, pur rappresentando uno dei punti di riferimento più continuativi nella storia pregressa della prospezione diamantifera moderna.
Eppure, non si tratta forse di un’ipotesi capace di lanciare le proverbiali centinaia di navi? Così come il rapimento della splendida Elena di Troia, punto poetico di partenza per uno dei cambiamenti maggiormente significativi nella storia bellica dell’uomo: il passaggio dall’uso della mera forza bruta alla furbizia di metodi sofisticati, come l’occultamento di un gruppo di guerrieri all’interno di un cavallo di legno. Ma caso vuole, a quanto pare, che non basti più soltanto l’ingegno di un Ulisse dei nostri tempi, per riuscire ad alterare i metodi di un’industria capace di guadagnare lungo ciascun punto della sua filiera, inclusi quelli strettamente interconnessi all’uso della più efficiente spada dei nostri tempi: la gestione mutualmente esclusiva di un sostanziale monopolio. Laddove il pianeta stessa, nel suo implicito e innegabile funzionamento, offrirebbe vie possibili per una distribuzione maggiormente equa delle sue più valide (o soltanto desiderabili?) risorse.
Il concetto stesso che una pianta possa ricercare o crescere soltanto in prossimità dei diamanti, come in una sostanziale sovversione di uno dei più famosi versi del cantautore Fabrizio De André, avrebbe tuttavia riscosso un immediato successo di pubblico a partire dalla pubblicazione sulla rivista scientifica Economic Geology a partire da settembre del 2015, con vasta risonanza sui social e siti d’informazione di Internet, al punto da giustificare alcuni video di trattazione virale da parte dei fin troppo creativi autori del Web. Vedi l’insolita e bizzarra iniziativa, da parte di uno YouTuber indonesiano, di mettersi a distruggere letteralmente un malcapitato pandano locale e scavare freneticamente tra le sue radici assieme ai suoi compagni cercatori, nella remota speranza di trovare in mezzo ad esse il tiepido lucore di una qualche preziosissima pietra. Mancando non soltanto di notare la differenza tra una specie rara ed africana con l’esemplare ritrovato nel suo paese, ma anche il mero fatto logico che qualsivoglia deposito kimberlitico possa trovarsi a profondità tali da essere raggiunte con qualche zappa, vanga e un’evidente mancanza di rispetto nei confronti delle cose vegetali.
Episodi questi, s’intende, totalmente ininfluenti ai fini di un’adozione su scala industriale del concetto delineato da Haggerty, probabilmente in forza di una diffidenza imprescindibile nei confronti di una simile magia. Perché forse ormai l’umanità ha del tutto perso quella fondamentale fiducia nei confronti della natura, che veniva messa a frutto dagli antichi consulenti ed alchimisti al servizio dei potenti, in una serie di proficue collaborazioni attraverso i paesi e gli imperi di tutto il mondo (fin dal V secolo a.C. si parlava, in Cina, delle associazioni tra piante e minerali!) Ma nessun caso pregresso in grado di raggiungere lo stesso livello di potenza mentale, vantata dal controllo economico e comunicativo di un conglomerato multinazionale. E forse proprio questo, in ultima analisi, rappresenta il cambiamento maggiormente significativo della nostra società globalizzata. Impregnata dei metalli chimici acquisiti grazie alle radici di soltanto un singolo, implacabile ed enorme, albero di pandano.