I soccorsi non arrivano? Cinque minuti per montare l’elicottero e decollo da me

Il problema: coraggiosi piloti d’aerei da combattimento vengono talvolta, sfortunatamente, colpiti dal nemico in territorio ostile. l molti fondi investiti nei sistemi di eiezione o la resilienza dei motori costruiti dalle compagnie statunitensi, quindi, permettono a costoro di toccare terra sani e salvi, qualche volta senza riportare nessun tipo di conseguenza alla persona. Nell’immediato. Perché a quel punto, se c’è un qualche tipo di conflitto in atto (e non può certo essere altrimenti, giusto?) ciò che tende a capitare è che truppe di terra sufficientemente astiose accorrano sul luogo del disastro. Per catturare tali uomini, portarli presso il proprio campo base, farli propri prigionieri ad libitum. Pure leggi della guerra, si potrebbe anche affermare, intese come implicazioni inevitabili per chi si arma e affronta gli avversari politici della sua nazione. Accettando, se vogliamo, il pericolo assieme alle speranze di gloria. Eppure verso il concludersi del sanguinoso conflitto coreano, con ancora nella mente ben impressi i ricordi della seconda guerra mondiale, l’aviazione statunitense elaborò un particolare processo mentale; per cui tale sconveniente piega degli eventi si era ripetuta fin troppe volte. Lasciando il posto, per chi avesse avuto l’intenzione d’imboccarla, all’invitante tracciato di una possibile strada alternativa.
L’idea: era la seconda metà degli anni ’50, dunque, quando i vertici dell’Arma stabilirono una serie di parametri, applicando i quali sarebbero stati proprio tali falchi appiedati, per la prima volta, a mettere in salvo loro stessi dal pericolo, mediante l’attuazione di un progetto alternativo. Quello per la costruzioni di particolari mezzi volanti, che potessero essere tenuti a bordo dei velivoli più grandi come letterali scialuppe di salvataggio, oppure paracadutati sul bersaglio pronti ad essere sfruttati per tentare il tutto per tutto. Qualcuno ricorderà, a tal proposito, l’argomento precedentemente trattato su queste pagine del Goodyear Inflatoplane, un letterale aereo gonfiabile conforme ad una simile ambizione, rimasto allo stato di prototipo sebbene costruito in ben 12 esemplari. Un destino simile a quello toccato, pochi anni prima, ad un diverso approccio nei confronti della stessa identica questione: quello offerto al volo ad ala rotante, grazie al contributo di uno dei maggiori pionieri di questo ramo. La Hiller Helicopters, come si chiamava in quegli anni, era la compagnia californiana fondata da Stanley Hiller, personaggio di caratura paragonabile a quella del più celebre Igor Sikorsky, altrettanto strumentale per validazione negli anni ’30 e ’40 del concetto quasi-folle di volare a bordo di un marchingegno diabolico come un’aerodina a sostentazione dinamica, vibrante ed instabile per sua stessa concezione. Con abbastanza convinzione ed attenzione ai dettagli da permettergli di vincere, entro il 1953, il concorso indetto a tal proposito, grazie all’elaborazione preventiva di quello che sarebbe diventato uno dei primi e meglio riusciti elicotteri ultraleggeri della storia: il ROE Rotorcycle, destinato ad essere soprannominato dai cinegiornali come una sorta di “bicicletta dell’aria”. Ed osservandone caratteristiche, ingombro e configurazione, non è affatto difficile comprenderne la ragione: con un peso complessivo di appena 140 Kg, il singolo sedile sovrastato dal rotore principale e quello di coda al termine di un palo in grado di raggiungere i 3,84 metri dallo schienale inclusivo d’impianto di propulsione, l’oggetto volante parzialmente identificato ricorda molto da vicino il tipico gadget sfoderato nel momento culmine da un personaggio come James Bond, con la significativa differenza di esistere davvero, ed avere per lo più uno scopo pratico definito in maniera estremamente chiara. Quello di entrare all’interno di un cilindro standard di trasporto grazie a un’ingegnosa serie di piegature e paletti di fissaggio, tali da renderlo perfetto da sfoderare e montare in tempi estremamente brevi nel giro di appena 5 minuti. O almeno, questo è quello che si pensava all’epoca della sua preventiva approvazione…

Il Rotorcycle, semplicissimo da montare anche senza l’impiego di alcun attrezzo, presentava alcune vulnerabilità inerenti. Prima tra tutte quella del rotore di coda, che tendeva a rovinarsi e dover essere sostituito dopo appena 10 ore di volo.

L’ordine iniziale prevedeva, successivamente al completamento dei primi due prototipi che si staccarono da terra con successo entro il 1956, una prima tiratura di ulteriori 10 apparecchi, da utilizzare per una serie di prove estensive di fattibilità ed addestramento. Quello che successe, a questo punto, fu letteralmente privo di precedenti: la Hiller Helicopters statunitense, già oberata da ordini di gran lunga superiori alle proprie capacità produttive, contattò la compagnia affiliata francese della Helicop-Air, la quale prese a sua volta accordi per il subappalto dell’intero ordine presso la Saunders Roe nel Regno Unito. Facendo seguito all’immediata spedizione dei componenti e consulenti tecnici nei loro stabilimenti, gli inglesi assolsero al proprio compito con la massima rapidità e competenza, ponendo in essere cinque esemplari dell’YROE-1 Rotorcycle, pesato per l’uso in patria, e cinque denominati ROE-1s, ottimizzati piuttosto per vendita all’estero. Questo perché la notevole risonanza mediatica e l’interesse del pubblico nei confronti dello strano dispositivo si erano dimostrati fin da subito decisamente superiori alle aspettative, complice anche il coinvolgimento di multiple compagnie straniere. Nei due anni successivi, gli elicotteri costruiti fecero letteralmente il giro d’Europa, in una serie di dimostrazioni negli show aeronautici di maggior richiamo e alcuni tentativi di stabilire nuovi record su scala globale. Nel 1958, addirittura, un Rotorcycle si librò sopra le Alpi Francesi, impresa certo non da poco per quella che si presentava nei fatti come una vera e propria sedia da ufficio volante. Entro la fine di quell’anno, alcuni dei prototipi avevano fino a 60 ore di volo, abbastanza da permettere ai piloti sperimentali della Hiller di farsi un’idea piuttosto chiara dei pro e i contro di un simile marchingegno. E il quadro generale, purtroppo, non era esattamente dei migliori.
Ragionevolmente stabile considerata la sua atipica configurazione, la “bicicletta dei cieli” si affidava ad un singolo motore compatto Nelson H-63 a 4 cilindri, raffreddato ad aria, dalla potenza di 40 cavalli. Abbastanza da riuscire a sollevare un pilota di circa 70-80 Kg e trasportarlo a una velocità massima di 110 Km/h, almeno finché fossero durati gli appena 39 litri di carburante. Il che si traduceva in un’autonomia di ottimistica di circa 260 Km, abbastanza per tentare di raggiungere una radura o specchio d’acqua, affinché il comando alleato potesse tentare d’inviare un mezzo di soccorso dotato di potenzialità maggiori. Il che presumeva, ovviamente, un contatto radio ininterrotto nonostante le ragioni della stessa emergenza (essere precipitati dietro le linee nemiche) e soprattutto che nessuno avvistasse, puntasse il dito ed iniziasse a sparare all’indirizzo del povero malcapitato a bordo. La singola caratteristica maggiormente in grado di definire il Rotorcycle, infatti, era proprio la più totale ed assoluta assenza di un abitacolo, ponendo l’occupante in una situazione di vulnerabilità pressoché assoluta, a bordo di un rumoroso, visibile e non velocissimo attrezzo volante. Un po’ come i bersagli semoventi del luna park, ma con conseguenze decisamente più deleterie. Ulteriore questione, assolutamente non da poco, era come pilotare una tale ambiziosa… Cosa, priva di punti di riferimento stabili rispetto all’orizzonte e mediante una singola barra verticale protesa di fronte alla spalla destra, tendesse a richiedere avanzate competenze ed esperienza in materia di volo ad ala rotante, del tipo posseduto da piloti con un lungo percorso di addestramento e prove tecniche alle spalle. Non propriamente dei pregressi compatibili, con la già complicata agenda del tipico pilota di un moderno caccia o bombardiere da combattimento a reazione.

A quanto si racconta mettersi alla guida di un elicottero privo di cabina poteva offrire un punto di vista simile a quello di un uccello, totalmente privo di strutture intermediarie tra se stessi e il vuoto. Il che tendeva, molto spesso, a dare un senso di nausea piuttosto significativo.

Entro il 1961, inevitabilmente, l’attrattiva del progetto iniziò a perdere il suo mordente. Non soltanto per gli ostacoli fin qui citati, ma soprattutto per la dolorosa presa di coscienza che nessun tipo di gadget cinematografico avrebbe potuto realmente risolvere i problemi del mondo reale, in forza delle questioni imprescindibili di un effettivo piano di fattibilità. “Dopo tutto, i mezzi di salvataggio e le opportunità di soccorso sono state massimizzate dal miglioramento prestazionale degli elicotteri di tipo convenzionale.” Si cominciò ad affermare. E quella fu la fine della nostra storia: proprio mentre si giungeva alla progettazione di una seconda versione del mini-apparecchio con motore Porsche da 62 cavalli, il progetto venne accantonato assieme a quello dell’Inflatoplane ed altri simili voli pindarici dell’immaginazione militare umana.
Epilogo particolare della storia, è la sopravvivenza pressoché totale ed inventario pienamente acclarato dei 12 mezzi prodotti, custoditi fino all’ultimo in varie collezioni private e musei statunitensi, tra cui l’Hiller Aviation Museum di San Carlos, Steven F. Udvar-Hazy Center di Washington DC e l’Evergreen Aviation & Space Museum di McMinnville, Oregon. Mentre gira voce che uno di essi sia stato addirittura restaurato e modificato con l’installazione di un motore migliore, risultando perfettamente in grado di staccarsi da terra, esattamente come avrebbe fatto oltre mezzo secolo fa. Il che costituisce, se vogliamo, un lieto epilogo della questione: poiché volare a bordo di elicotteri compatti resta sempre possibile, per chi davvero ne ha il desiderio e l’opportunità. A patto di accettare una serie di effettivi compromessi, in materia di pace mentale, sicurezza e conseguente probabilità di assistere al sorgere di un’ulteriore alba nella prevedibile progressione dei giorni a venire.

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