Era il 1973 quando l’ornitologo dell’Università del Wisconsin, Stanley Temple notò un gruppo d’alberi molto particolari durante un’escursione nell’entroterra delle isole Mauritius. Alti e contorti, dal tronco fibroso formato da una serie di steli attaccati l’uno all’altro in maniera non dissimile dal banano, quasi come fosse un’amalgama di piante differenti. Confrontando un tale vista memorabile coi resoconti degli abitanti locali e la documentazione di cui poteva disporre, quindi, non ci mise molto ad attribuire un nome alle 13, stranissime piante: doveva trattarsi di un raro gruppo di tambalocoque o albero calvaria (Sideroxylon grandiflorum) un rappresentante della famiglia delle sapotacee tenuto un tempo in alta considerazione per la durezza del suo legno. Nonché legato a uno stereotipo secondo il quale, essendo diventato progressivamente più raro attraverso i secoli, il suo ciclo vitale traesse fondamentale beneficio dall’assistenza di un particolare uccello, noto alle cronache come il dodo o dronte. Figura particolarmente nota nel senso comune, col suo poderoso becco e le piccolissime ali, il cui primario ruolo ecologico avrebbe potuto fare ben poco per salvarlo dai marinai dell’epoca delle grandi esplorazioni, che ben presto diventarono soliti ucciderlo per farne un banchetto degno del giorno del Ringraziamento, oppure catturarlo e mantenerlo in vita sulle navi per qualche tempo, per diversificare occasionalmente la ripetitiva dieta dell’equipaggio. Effettuando una stima soltanto approssimativa sulla durata della vita di tali alberi, data l’assenza di cerchi da contare all’interno del loro fusto plurimo, Temple si convinse quindi che dovessero avere un’età superiore ai 300 anni, antecedente all’inevitabile estinzione del grande e compianto uccello. Dal che fu soltanto naturale, per lui, ipotizzare un qualche tipo di relazione mutualistica tra la specie animale e quella vegetale, come dal soprannome indigeno della pianta utilizzato localmente di “albero del dodo” dal cui derivava la problematica situazione che si capace di dipanarsi nel proseguire dei tempi odierni. Poiché girando pedissequamente l’intero arcipelago, l’ornitologo non avrebbe purtroppo trovato altri esempi di alberi del tambalocoque, giungendo a convincersi che il gruppo precedentemente oggetto delle sue annotazioni fosse l’unico rimasto su questa Terra. E che non avrebbe mai più potuto continuare ad esistere, senza l’assistenza del suo non-volatile e compianto alleato!
Egli aveva infatti una teoria ben precisa su quale potesse essere, nella realtà dei fatti, la principale origine del contrattempo: possibile che la durissima scorza del frutto di questa pianta, fino a 10 volte più resistente del guscio di un anacardio, fosse in effetti la ragione del suo basso grado di successo riproduttivo? Dal che deriverebbe come fondamentale condizione sine-qua-non, nella propagazione riuscita dell’albero, un passaggio all’interno del sistema digerente di un grande uccello ed in particolare il ventriglio, la parte pilorica dello stomaco in cui tali esseri sono soliti tenere una certa quantità di sassolini, utili a massimizzare la triturazione dei bocconi preventivamente ingeriti, non importa quale potesse essere la loro coriacea resistenza. E nel corso di un tale processo, scorticare tra le altre cose quelle impenetrabili noci, creando una situazione paragonabile a quella del cosiddetto frutto dell’elefante africano (Omphalocarpum elatum) che diventa maggiormente propenso a germogliare se fa il suo ritorno alla terra assieme alle feci dell’eponimo animale. Un appartenente anch’esso, non a caso, della stessa famiglia delle sapotacee, gruppo di alberi particolarmente inclini a trarre beneficio da una tale tipologia di mutualismo. Dopo un primo attimo di smarrimento, dunque, il convinto seguace del metodo scientifico pensò di fare un esperimento…
L’idea di Temple non era in effetti del tutto campata in aria, così come il suo intento risultava estremamente benevolo in quanto finalizzato a preservare qualcosa che stava rischiando di scomparire dal mondo naturale, così come in precedenza era successo al pennuto volatile cui si trovava per la prima volta formalmente associato. In molti nel mondo accademico e non solo, tuttavia, si sarebbero trovati fin da subito a dubitare delle prove raccolte e soprattutto della metodologia impiegata nella sua ricerca, destinata ad essere pubblicata a pochi mesi di distanza sulla rivista scientifica Science. Procuratosi dunque una certa quantità dei durissimi semi del tambalocoque, dunque, lo scienziato si recò presso il più vicino allevamento di tacchini. Non senza una probabile difficoltà procedurale, convinse allora il proprietario a far trangugiare forzosamente i ruvidi oggetti uno per uno, a questi uccelli non propriamente inclini ad apprezzarne l’aspetto, il gusto e l’odore. Ciò in quanto, secondo la sua teoria, il ventriglio posseduto dal moderno Meleagris gallopavo avrebbe potuto assolvere a una funzione del tutto paragonabile a quella del compianto dodo, provvedendo a massimizzare la probabilità di riproduzione degli ultimi alberi rimasti, giungendo a costituire l’epilogo di un drammatico quanto lungo periodo d’inutile attesa, per quel duro e affidabile becco che non avrebbe mai più potuto giungere ad aiutarli. I risultati ottenuti mediante il singolare studio, nel giro di poco tempo, convinsero Temple di aver avuto ragione fin dall’inizio: dei 10 semi defecati dai tacchini ancora integri, infatti, ben tre germogliarono con successo, costituendo nelle sue stesse parole “I primi alberi di questa specie nati al mondo in un periodo trascorso di almeno 300 anni.”
La stampa generalista degli anni ’70 a quel punto, come tanto spesso avviene ancora adesso, non tardò a celebrare una storia tanto curiosa e memorabile, concedendo al suo principale protagonista un certo livello di fama anche fuori dai suoi ambienti accademici d’appartenenza, nonché i fondi necessari a continuare l’applicazione del suo metodo ad una lenta ma necessaria ripopolazione del tambalocoque. Mentre gli articoli si moltiplicavano, tuttavia, assieme ad essi aumentavano le obiezioni sollevate dagli esimi colleghi: come aveva fatto Temple, esattamente, a misurare l’età supposta delle sue 13 piante di partenza? In che maniera il campione tanto limitato di uno studio, relativo a soli 3 successi su un campione di 10, avrebbe dovuto costituire una statistica rilevante? E soprattutto, perché l’ornitologo aveva trascurato di piantare una quantità equivalente di semi NON fatti trangugiare preventivamente ai tacchini, al fine di disporre una prova di controllo rispetto cui comparare il risultato ottenuto mediante applicazione della sua teoria? Ma il principale ostacolo ad un’accettazione su larga scala della teoria sarebbe giunto dalla risposta allo studio pubblicata dall’ufficiale del Dipartimento Forestale delle Mauritius, A.W. Owadally che nel 1979 pubblicò un editoriale in cui citava un rapporto di appena 38 anni prima, durante cui gli incaricati riportavano una significativa quantità di esemplari dell’albero calvaria diffusi attraverso il territorio dell’arcipelago, dalle dimensioni tali da lasciar sospettare un’età tra i 75 ed i 100 anni, quindi assai inferiore al tempo trascorso dall’estinzione del pennuto trituratore della foresta. Soltanto in seguito e nei reiterati processi d’indagine sulla biodiversità dell’arcipelago avrebbe effettivamente dimostrato la continuativa esistenza degli eredi di questi alberi, comunque senz’altro rari e spesso difficili da individuare nei punti più remoti e meno accessibili del territorio. Non solo, a questo punto, il cosiddetto albero del dodo era perfettamente in grado di riprodursi anche senza l’aiuto del suo partner così enfaticamente attribuito, ma la sua effettiva popolazione non era nei fatti mai stata in numero così ridotto come Temple aveva dato ad intendere all’interno del suo studio. Che avrebbe finito per diventare, negli anni successivi, un esempio tanto spesso citato di applicazione impropria dei propri preconcetti soltanto per confermare un’ipotesi, le cui prove pratiche mancavano in effetti all’interno del novero degli eventi.
Ciò detto, in ogni caso, è ragionevole pensare che l’idea di Temple avesse dei ragionevoli punti di contatto con la verità. L’effettiva dispersione di un seme tanto ingombrante ad opera d’animali, d’altronde, poteva essere effettuata soltanto da creature di dimensioni sufficienti, tra cui testuggini di terra e la lucertola scinco maggiore (Leiolopisma mauritiana) per non parlare appunto del comparabilmente grande e possente, per quanto indifeso dodo. Nessuno potrebbe negare in considerazione di tutto questo che l’effettiva sopravvivenza dell’uccello avrebbe avuto un effetto positivo sulla propagazione di quest’albero diventato ad oggi raro, offrendo un’ulteriore possibilità di successo nella mansione non sempre semplice di raggiungere un terreno fertile dove mettere radici. Simili tipologie di mutualismo sono d’altronde piuttosto diffuse nella famiglia delle sapotacee, non soltanto nel caso del sopracitato frutto dell’elefante ma anche la Madhuca longifolia, costituente il cibo primario delle larve della falena Antheraea paphia, un baco da seta economicamente rilevante in tutto il subcontinente indiano. Meno probabile, invece, resta la necessità imprescindibile dell’abrasione ad opera di un vetriglio, quando si considera il risultato di studi pregressi relativi ad altri frutti dalla scorza particolarmente dura, dimostratisi assolutamente capaci di aprirsi spontaneamente lungo il punto mediano al momento necessario, lasciando così scaturire la piccola pianta all’interno. Le piante, dopo tutto, sono depositarie di un antico tipo di saggezza. E difficilmente avrebbero potuto accontentarsi di mettere tutte le loro opportunità di sopravvivenza all’interno di un singolo metaforico paniere.
Ma in fondo, a chi vuoi che importi davvero? Inclini ad apprezzare le cose simili, piuttosto che diverse, siamo oggi propensi a piangere di tanto in tanto l’esistenza pregressa di specie vivaci e carismatiche, prive di controparti odierne realmente in grado d’ereditare la loro biologica magnificenza. Ma un albero… È soltanto un albero. A meno di attribuirgli, per valida e proficua apposizione, il nome istantaneamente riconoscibile di un animale beneamato. E forse era proprio questo, sotto sotto, lo scopo non dichiarato di Stanley Temple. Che soltanto in funzione di una svista altamente probabile, sarebbe giunto ad acquisire fama imperitura. Ma chi può realmente definire che cosa sia un errore, e cosa invece la pura ed ineffabile scintilla di un colpo di genio…