Era il 1911 in Kazakistan quando il topo delle betulle discese nuovamente dalle propaggini della catena montuosa Tian Shan, ormai ricoperta di un impenetrabile strato di candida neve. Come ogni stagione invernale, preoccupato di spostarsi presso regioni forse più affollate dai predatori, ma proprio per questo capaci di offrire una maggiore quantità di fonti di cibo ed opportunità di sopravvivenza. Mentre innanzi a lui poteva udire, quindi, il familiare suono del fiume, notò qualcosa all’orizzonte che pareva capovolgere le sue consuete aspettative di roditore: il cielo che sembrava estendersi, in maniera anomala, fin sotto il livello dei suoi piccoli piedi prensili. Permettendo in questo modo agli alberi, senza nessuna soluzione di continuità apparente, d’interrompere la progressione naturale di chioma e radici, chioma e radici in senso prospettico basato sulle più assolute logiche dell’universo. Ma comparire soltanto come una serie di punte aguzze in ordine discontinuo, simili ad altrettanti arpioni conficcati nel corpo di una balena. Non che il piccolo visitatore, preoccupato a questo punto sul corso delle sue prossime azioni, avesse mai visto quella megattera azzurra (B. musculus) cui qualcuno aveva dato ironicamente il suo nome (musculus=topolino) né del resto fosse pronto a riconoscere istintivamente l’aspetto di un’intero schieramento di una flotta in battaglia, improvvisamente fatta inabissare da un possente vortice della natura. In una voragine di appena 400 metri di lunghezza per 30 di profondità, nel suo punto centrale. E tutto questo in grado di manifestarsi all’improvviso per un mero concatenarsi di causa ed effetto, tale da modificare ciò che era possibile, o persino probabile, in questa terra di confine priva d’interferenze dettate dall’ostinata e imprescindibile presenza degli umani. Poiché i mutamenti paesaggistici possono avvenire attraverso il lento trascorrere d’intere Ere geologiche, grazie all’effetto degli agenti atmosferici o l’erosione chimica di rocce lungo il corso di un fiume. Oppure nel giro di pochissimo tempo, generalmente grazie all’intervento più o meno appropriato di coloro che pretendono di controllare il corso della natura… Salvo casi eccezionali, come quello del relativamente insolito e di certo memorabile lago di Kaindy.
Immaginate dunque un improvviso rombo di tuono, seguito dal più orribile e continuativo dei tremori: “Terremoto, allarme, terremoto!” Grida qualcuno. Siete parte di una tribù seminomade delle steppe, accampatosi come ogni inverno presso le verdeggianti valli del fiume Chon-Kemin. Con repentino senso d’autoconservazione, lasciate immediatamente la vostra yurta, per correre nel centro dell’insediamento privo di strutture in grado di cadere sopra la vostra testa. Per lanciare un gran sospiro di sollievo, proprio mentre qualcosa di nero, ed enorme, inizia a profilarsi minacciosamente all’orizzonte. Sto parlando, per la cronaca, dell’intero fronte di una frana in grado di spazzare via tutto quello che avete di più caro al mondo. La massa imponente di pietre s’ingrandisce, vi sovrasta, quindi continua verso la sua strada. Essa non può e non deve fermarsi, finché avrà pagato il suo tributo imprescindibile alla gravità. Siete ancora vivi? Se così fosse, oltre a ringraziare il Grande Spirito delle steppe, c’è soltanto una cosa che potete fare. Scrutare in basso, per apprendere lo stato inusitato della situazione. Poiché la sotto, non c’è più un corso d’acqua che prosegue ininterrotto fino al lago di Balkhash, uno dei più vasti di tutta l’Asia. Bensì una diga, alta e invalicabile, nata nel giro di pochi attimi ma destinata a durare un grande numero di generazioni. Circa 452 persone, nel complesso, erano morte nel corso di quei pochi attimi di puro ed assoluto terrore. Mentre qualcosa di nuovo, avrebbe preso forma dalle tenebre quantistiche dell’esistenza. Quando al cadere delle piogge, l’acqua avrebbe iniziato progressivamente a straripare da quei precisi argini che in tanto tempo, era riuscita a tratteggiare…
Il parco naturale di Kolsay si trova ad appena 120 Km a sud-est di Almaty, città più grande e popolosa di tutto il Kazakistan. Esso è celebre, tra le altre cose, per i tre specchi d’acqua di Kolsay, laghi distribuiti tra 1800 e i 2800 metri lungo le pendici della principale barriera montana tra il paese e la Cina, simili ad altrettante perle di una mistica collana distribuita tra i recessi serpentini di una grande serie di fiumi e torrenti. Eppure nell’ultimo secolo, molti dei visitatori accorsi da ogni parte del mondo l’hanno fatto principalmente per l’immancabile quarto incomodo di questo paesaggistico gruppo di moschettieri, caratterizzato da una serie di circostanze pratiche tutt’altro che usuali. Ciò che caratterizza infatti le acque azzurre del Kaindy è la sua letterale compenetrazione con la foresta di pecci (Picea schrenkiana) antistanti, al punto che una certa quantità di alberi continua a crescere fino al punto esatto delle sue rive ed al di là di esso, lasciando emergere soltanto le punte spoglie delle proprie cime, simili ad altrettanti abeti di Natale rimasti inspiegabilmente privi dell’essenziale stella decorativa. Chiunque dovesse avvicinarsi alla scena stranamente spettrale, potrà d’altra parte scorgere attraverso le acque diventate all’improvviso trasparenti qualcosa di notevole: la maniera in cui al di sotto della superficie, i rami di tali alberi continuino nonostante tutto a crescere e moltiplicarsi, pur essendo giunti a ricordare maggiormente da vicino l’aspetto di un salice piangente. Pur essendo priva di scoiattoli, di cervi o topi di foresta, l’antica vegetazione della valle del Chon-Kemin continuava dunque a vivere, all’interno di un mondo totalmente capovolto nelle sue più imprescindibili implicazioni.
Che sia questo un modo apprezzabile di vivere, per gli alberi coinvolti, è d’altra parte largamente soggetto a dubbi e valide disquisizioni. Poiché privati della quantità d’ossigeno necessaria a sostentare la propria naturale crescita in direzione del cielo, è altrettanto possibile affermare che i pecci del Kaindy (il cui nome significa in lingua kazaka, erroneamente, “lago delle betulle”) siano stati più che altro mantenuti in uno stato di sospensione criogenica per l’effetto delle gelide temperature di queste acque, tale da rallentare ulteriormente il loro già flemmatico metabolismo di vegetali. Sopravvivere per inerzia, in fondo, è pur sempre preferibile all’alternativa, per lo meno in base alle precise leggi e preferenze di natura che ci accomunano tutti quanti. Ad incrementare ulteriormente l’aspetto improbabile di questo lago, ci avrebbe quindi pensato il contenuto geologico delle rocce stesse facenti parte della frana da cui aveva preso forma, costituite in buona parte da quel tipo di pietra calcarea, ricca di carbonato di calcio, incline a frammentarsi e mescolarsi al fluido divenire degli eventi. Così da giungere a riflettere, in maniera facilmente percepibile da parte dell’occhio umano, quella parte blu dello spettro che tanto notevolmente caratterizza il lago in questione, più simile ad una bibita gassata che alle limpide acque di sorgente che avevano caratterizzato il precedente corso del fiume. Per lo meno in particolari periodi dell’anno, quando nel periodo delle piogge l’acqua cresce di quantità e smuove con maggiore possenza il quieto fondale lacustre, prima di disperdersi attraverso il corso del fiume anch’esso rinominato con l’appellativo di Kaindy. Mentre nei periodi di quiete, quando l’acqua ridiventa trasparente, la variegata fauna di natura non più forestale, ma acquatica, può essere facilmente osservata attraverso gli strati superiori delle fronde. Creature come la tipica trota marrone (Salmo trutta) considerata ingrediente di base per una vasta serie di pietanze locali. Come potrete facilmente immaginare, a questo punto, molti sono i visitatori annuali portati a giungere fin quaggiù dalla vicina Almaty, con finalità di esplorazione, pesca o semplicemente per girare un video memorabile da pubblicare sui propri profili social e raccogliere consensi tra gli sconosciuti. Senza contare l’occasionale sommozzatore, del tutto noncurante delle gelide temperature del lago. E il popolo degli abitanti naturali, antecedenti al palesarsi di quel tellurico disastro pregresso…
Topo o non topo, fu chiaro fin da subito che il mondo aveva preso una bizzarra piega. Il principale personaggio baffuto di quel particolare recesso kazako si spinse dunque fino alla base dell’albero più vicino, posizionato in modo tale da specchiarsi nell’imprevisto specchio d’acqua, per scrutare la sua immagine riflessa. Orecchie sulla testa ed una coda ritta, come a percepire il segnale di una distante e per lui inutile antenna per le telecomunicazioni umane. Fu proprio mentre pensava questo, che la vide: un’aquila dorata in cerca di facili prede, che tanto a lungo aveva atteso il suo ritorno. Senza neanche un attimo per iniziare a prendere atto delle circostanze, istintivamente, il topo si tuffò. In fondo è meglio sopravvivere, che non vivere affatto, perché le cose possono pur sempre… Migliorare.
“Buongiorno e benvenuto” disse allora l’unico luccio della foresta sommersa. “Benvenuto nel mio regno. Sono qui per porti il saluto, ed assieme ad esso l’addio, del popolo pinnuto.” Entrambe le loro bocche del mammifero e del pesce, a quel punto, erano totalmente spalancate. Semplicemente troppo aperte, perché potessero annunciare un lieto epilogo di questa intera faccenda.