Una delle più importanti caratteristiche della storia cinese è la sua natura fondamentalmente ciclica, costituita da periodi di potere centralizzato presso la corte dell’una o l’altra dinastia, cui fanno seguito conflitti e divisioni, tra i diversi regni in cui tendeva a frammentarsi il popoloso e vasto Regno di Mezzo. Eppure lungi dal costituire degenerazione verso un sostanziale stato di barbarie, tali periodi e circostanze offrivano ai diversi gruppi etnici l’occasione di riunirsi sotto l’egida di più piccoli regni, dove l’unità d’intenti permetteva di raggiungere obiettivi particolarmente elevati. Così come accaduto durante l’epoca dei Liang Settentrionali, lo stato dinastico situato nelle moderne regioni di Wuwei e Turpan tra il 397 e il 460 d.C, oggi considerato il principale responsabile dell’introduzione del buddhismo in Cina. Una religione proveniente da lontano e con caratteristiche profondamente diverse dalle dottrine precedentemente praticate, in cui era per la prima volta la figura di un singolo a garantire un insegnamento capace di condurre alla salvezza. Costituendo la più naturale base di partenza per un nuovo culto delle immagini, in cui il volto dell’Illuminato sarebbe diventato una figura costante di arte venerativa, pittura e statuaria molto spesso di massicce dimensioni, potenzialmente ispirata ai grandi stupa visti dai viaggiatori che si erano spinti oltre i confini del Tibet e presso le propaggini settentrionali del subcontinente indiano. Sorsero così numerosi luoghi di culto, nessuno dei quali più fantastico dei monasteri costruiti sulla cima o le pendici delle montagne, dove gruppi di sant’uomini sognavano di percepire momentaneamente a grandezza dell’Universo, meditando sufficientemente a lungo mentre si trovavano sospesi tra cielo e terra. Eppure persino tra questi, le grotte situate a 80 metri di altezza presso il colle di Maijishan (麦积山 – La montagna del covone di fieno) nella parte Nord-Occidentale dell’odierna Cina spiccarono fin da subito per estensione e fama, grazie all’opera di esteso proselitismo dei due possibili fondatori Tanhung e/o Xuangao, ma soprattutto per la loro collocazione strategica in un crocevia tra le città di Xi’an e Lanzhou in senso orizzontale, e Chengdu e Sichuan spostandosi verticalmente su di una mappa ideale della regione. Il che avrebbe permesso ai suoi occupanti di ricevere visite e rifornimenti da ciascuno di questi importanti centri ma anche le terre ad essi confinanti, lungo l’estendersi della Via della Seta ed oltre la catena montuosa più alta del mondo. E c’è in effetti una vaga somiglianza nell’aspetto successivo del sito con le molte grotte usate con finalità paragonabili dalle genti del Gandhara, sebbene il Maijishan avrebbe trovato un ulteriore arricchimento e connotazione dalle molte dinastie politiche che si sarebbero trovate ad estendere il proprio dominio in quest’area, sentendo successivamente l’istintivo bisogno di estinguere o riuscire a equilibrare il proprio karma che impediva di raggiungere uno stato di pace interiore. Così all’interno delle fino a 191 aperture laboriosamente scavate e dipinte con immagini sacre nella malleabile arenaria del colle, nel giro di poche generazioni cominciarono a comparire molti esempi di scultura in terracotta databile al successivo periodo degli Wei del Nord (fino al 535) e poi degli Zhou Settentrionali (557-581) ciascuna databile in base alle proporzioni, la posa del soggetto e il tipo d’armonia ricercato nella composizione. Ma quasi tutte riconducibili a un particolare gruppo di personaggi, fondamentale nella vasta setta buddhista delle Terre Pure: Amitābha, il Buddha che conduce alla salvezza, affiancato dai suoi due bodhisattva Mahasthamaprapta ed Avalokitesvara, il secondo dei quali destinato a mutare nei secoli a venire nella Dea della Misericordia, Guanyin. Come nel caso del colossale bassorilievo alto 17 metri che campeggia in mezzo ai numerosi camminamenti capaci di collegare i diversi spazi vitali ricavati nella roccia, molti dei quali grandi abbastanza per strisciare all’interno camminando e poi sedersi al cospetto di trittici più piccoli, dinnanzi a cui fermarsi nella più assoluta solitudine e svuotare la propria mente. Benché studi archeologici condotti presso questo dedalo, a partire dagli anni ’50 dello scorso secolo, abbiano dimostrato come esso dovesse esser stato ancor più grande ed esteso in precedenza, prima che una serie di disastri sismici inficiassero la sua originaria magnificenza…
Ben nota è d’altra parte la natura geologicamente attiva di questa particolare area geografica, come esemplificato da una serie di terremoti che colpirono il Maijishan a partire dall’inizio della dinastia Tang (618 d.C.) con il più forte databile all’anno 734, ritenuto dagli archeologi cinesi ed internazionali come possibile momento in cui i due gruppi di grotte nella parte est ed ovest della collina subirono un crollo parziale, finendo per costituire i due blocchi non più interconnessi che possiamo visitare tutt’ora. Il che non avrebbe inficiato, d’altra parte, la continuità di un sito ormai impiegato da quasi tre secoli come narrato dal poeta coévo Du Fu, che visitando il luogo sacro esattamente 25 anni dopo, lo descrisse in chiari termini come una significativa meraviglia della sua epoca, dove i monaci praticavano la propria disciplina mezzo agli animali e un panorama degno di lasciare letteralmente senza fiato. Fu questo il periodo in cui gli occupanti del tempio costruirono alcune delle loro opere più grandiose ed impressionanti, tra cui l’imponente dvarapala guardiano che fa la guardia alla Sala dei Sette Buddha, grotta situata nella parte occidentale della montagna. Negli spazi creati durante il corso delle dinastie successive dei Song, Ming e Qing il Buddha appare invece accompagnato dai suoi due discepoli terreni Kashyapa ed Ananda, riveriti saggi vedici, immediatamente riconoscibili per l’atteggiamento di solenne ascolto nei confronti del loro saggio maestro. Tali statue, a differenza di quelle precedenti, sono quindi ricavate dalla pietra, ma non quella della stessa montagna del covone bensì un tipo d’arenaria differente, importata da una località che resta tutt’ora misteriosa. Così come altrettanto, o ancor più notevole risulta il tipo di soluzione immaginabile per trasportare il materiale fin quassù, in un’Era tecnologica in cui soltanto l’energia muscolare degli uomini stessi, con l’aiuto di qualche sistema di funi e pulegge, avrebbe potuto permettere l’ottenimento di un simile risultato. Menzione a parte merita la tomba dell’Imperatrice consorte Yifu (510-540 d.C.) del primo e più importante sovrano dei Wei Occidentali, l’Imperatore Wen (regno: 535-551) dislocata possibilmente tra le caverne 43 e 44 così come contrassegnata da una grande statua femminile che si ritiene possa raffigurare la sovrana stessa, un esempio spesso citato di moralità fuori dagli schemi della sua epoca, per la pratica del vegetarianesimo, lo stile di vita sobrio e un’inclinazione alla preghiera, finché il marito non scelse di ripudiarla inaspettatamente per sposare la principessa Rouran, figlia di un suo generale prossimo alla ribellione. Destino che lei scelse di accettare di buon grado, al fine di evitare guerre o spargimenti di sangue, ritirandosi a vita di solitudine e raccoglimento all’interno di uno sconosciuto monastero buddhista. Dipinte e restaurate più e più volte nel corso dei secoli, le statue del Maijishan si mantengono oggi in uno stato di notevole conservazione nonostante la loro antichità, così come è ancora possibile scorgere almeno in parte le sofisticate pitture murarie che ornano alcune delle grotte più importanti. Con il suo contenuto approssimativo di oltre 7.000 statue di terracotta, il sito è stato quindi dichiarato patrimonio dell’UNESCO nel 2014, nonché informalmente il più grande museo scultoreo di tutta la Cina. Il periodo dei Wei Occidentali (535-557) nonostante la sua brevità ebbe inoltre una forte influenza nello stile artistico impiegato al Maijishan, segnando il passaggio dall’impostazione rigida e inflessibile dell’era arcaica alle statue più naturalistiche e movimentate degli anni successivi, fino all’impiego da parte dei personaggi della caratteristica posa di derivazione indiana del tribhanga, con i piedi in una direzione, le ginocchia in quella opposta, e la testa girata di nuovo dalla parte dei piedi. Un semplice accorgimento capace di donare alle opere un aspetto più dinamico e quasi catturato durante l’esecuzione di una danza, stranamente appropriata al fine di esemplificare la superna grazia e saggezza dei massimi custodi e iniziatori del Dharma.
Oggi relativamente poco conosciuto fuori dalla Cina, principalmente a causa di una collocazione abbastanza remota da renderne complicata la visita da parte dei turisti, il Maijishan continua nondimeno ad essere una meta di numerosi pellegrinaggi, risultando abbastanza affollato in determinati periodi dell’anno (per lo meno, nell’epoca pre-pandemia) da lasciar temere che i suoi alti camminamenti possano piegarsi o crollare sotto il peso dei visitatori. Il che rappresenta d’altra parte la migliore metafora possibile, del laborioso percorso necessario ad elevarsi dai bisogni e le preoccupazioni della vita, per raggiungere uno stato di coscienza e introspezione necessari ad acquisire le fondamentali verità dell’Universo. Uno stato difficile, a cui non tutti riescono ad accedere nel corso della propria breve esistenza, venendo dominati dalle umane e imprescindibili pulsioni della carne.
Sebbene sia possibile, nell’ultimo capitolo, tentare di fare ammenda, così come l’Imperatore Wen che fece formale richiesta, nell’anno stesso della sua morte, di essere ricongiunto a colei che aveva più di ogni altra amato. Ragion per cui la tomba dell’Imperatrice presso il Maijishan, da quel momento, sarebbe stata solamente un memoriale, mentre le sue spoglie mortali facevano ritorno presso la capitale, Chang’an. Sarebbe quindi occorso fino al 581 perché una nuova, singola dinastia potesse unificare la vastità geografica di “tutta” la Cina: quella dei Sui, da cui avrebbe avuto seguito nel 618 l’era di unità e massima estensione dei Tang. Finché di nuovo e inevitabilmente, il Regno di Mezzo sarebbe stato frammentato nel 907 in una miriade di fazioni in guerra inevitabilmente sanguinaria. Mentre Buddha con i suoi discepoli, in paziente e dolorosa attesa, osservava silenziosamente dal fianco della montagna. “Prima o poi, prima o poi lo capirete… Ed io sarò ancora lì. Adesso e negli incalcolabili secoli a venire.”