Una letterale muraglia a pochi chilometri dalla più importante città dell’Africa trasformata in “colonia” italiana, nell’ormai distante epoca dei totalitarismi moderni. Non composta dei migliori materiali da costruzione, come gli edifici futuribili creati dal gotha dell’architettura fascista, lo svettante Cinema Impero, o la surreale stazione di servizio “Fiat Tagliero” con le sue ali di cemento simili a quelle di un aeroplano. Bensì metallo e fichi d’India, intrecciati in un ammasso indistinguibile ed invalicabile ai bambini locali, i cani randagi e le occasionali guardianìe inviate a sorvegliare i dintorni. Ma che nondimeno continua, insistentemente, ad attirare i più curiosi tra i turisti che dimostrano il coraggio necessario a fare un esperienza di viaggio in uno dei paesi più chiusi e riservati d’Africa, al punto da essere stato chiamato una piccola Corea del Nord. E come biasimarli, in fondo? C’è del fascino in questi vetusti e malridotti rottami. Gusci fin troppo riconoscibili di carri armati T-55 e T-62, circondati da trasporti anfibi BMP-1 e la carrozzeria dismessa di una pletora di camion militari. Qui un Gvodizka, l’antico cannone di grosso calibro usato come nido per gli uccelli locali. Là una scala mobile aeronautica, coperta di agguerriti rampicanti. Davvero il massimo del divertimento! Manca soltanto l’ampio e letterale lago di sangue, risultante da un conflitto interminabile che potrebbe essere costato la vita ad una stima assai conservativa di circa 200.000 persone…
Era una mattina in apparenza simile a ogni altra, quella del 17 marzo 1988 nella regione africana del Tigrè. Un indefinito gruppo di persone proveniente dalla capitale d’Eritrea, Asmara, varcò tranquillamente i confini della valle di Hedai, scendendo per pendii sabbiosi mentre si coordinava a distanza con due gruppi distanti, tramite l’impiego di una serie di ricetrasmittenti a distanza. Giovani, adulti, qualche anziano dall’aspetto indurito dalle molte difficoltà della vita. Facendosi scudo dal sole con il palmo della mano, quindi, l’esperto perlustratore incaricato inviò il segnale necessario per aprire gli zaini e tirare fuori l’equipaggiamento. L’85° divisione meccanizzata dell’EPLF aveva finalmente circondato le guarnigioni armate dell’Esercito Etiope. Al segnale concordato, il vociare diffuso si trasformò in un glaciale ed assoluto silenzio, mentre gli AK47, gli antichi lanciarazzi e le bombe a mano iniziavano a risplendere sotto la luce dell’alba. Era l’ora di tentare il tutto per tutto. Era tempo di guadagnarsi la libertà, o morire nel tentativo di farlo.
Questo particolare capitolo di un conflitto lungo trent’anni, destinato a passare alla storia con il nome di battaglia di Afabet, avrebbe costituito un importante punto di svolta nella lunga disputa belligerante per l’indipendenza politica di un paese di appena tre milioni e mezzo di persone, illegalmente annesso da una nazione che ne contava circa un centinaio sotto l’egida dell’ormai deposto imperatore Hailé Selassié, ormai detronizzato dal remoto 1974 ad opera di una giunta militare socialista guidata dall’uomo forte Mengistu Haile Mariam. Le cui truppe pesantemente armate, grazie a un contributo significativo dell’Unione Sovietica, avrebbero nondimeno incontrato la già dura resistenza proveniente da una tradizione di guerriglia, che aveva radici profonde nella storia di questo popolo e dei suoi eroi. “Per Hamid Idris Awate, uomini, all’attacco!” Gridò un caporale, ricordando l’eroico condottiero che con soli 11 compagni, un anno dopo l’occupazione del 1960, aveva teso un imboscata e disperso le forze della polizia segreta nella regione montuosa di Adal, per poi morire a causa delle sue ferite. Dieci nemici per ciascuno dei loro, così si raccontava, eppure la giustizia prevalse allora. Come avrebbe fatto in quel fatidico giorno, sotto i colpi di una serie di cannoni anticarro catturati e trasportati segretamente in posizione, sufficienti a immobilizzare una colonna di veicoli sulla stretta e tortuosa strada necessaria a lasciare la valle. Così che gli ufficiali etiopi, intravedendo la realistica possibilità che i loro stessi armamenti potessero cadere in mano al fronte di liberazione, diedero l’unico ordine che avrebbe potuto conservarli in sani e salvi dinnanzi all’autorità di Mengistu: bombardare i loro stessi uomini, con un generoso ed entusiasta aiuto da parte dell’aviazione. Fu l’inizio di un disastro senza precedenti, nonché l’accumulo di un quantità eccezionalmente spropositata di rottami. Cadaveri d’acciaio assieme a quelli fatti di carne e sangue, che tuttavia presentavano un problema logistico di un tipo niente affatto trascurabile. Tanto da richiedere il trasporto in un luogo ormai tristemente (nonché, gloriosamente) noto…
C’è un bizzarro e notevole monumento nella piazza di Shida in centro ad Asmara, dedicato ai guerriglieri dell’EPLF (Eritrean People’s Liberation Front) creato per raffigurare in forma gigantesca un semplice paio di sandali ricavati artigianalmente da uno pneumatico d’auto. Un richiamo diretto al tipo di calzatura che i suddetti soldati erano soliti indossare, nello stato di pressoché assoluta privazione civile in cui fu relegato l’intero popolo per l’intero trentennio trascorso a combattere le forze etiopi. Non tale da impedire, ad ogni modo, che alle rispettive famiglie fossero riconsegnate le calzature dei caduti in battaglia, secondo una tradizione risalente a prima dell’epoca coloniale di questo paese dalla storia indubbiamente difficoltosa. Amministrato dagli italiani prima ed in seguito dagli inglesi dopo il secondo conflitto mondiale, per una decina d’anni e fino alla costituzione di un governo indipendente confederato alla confinante Etiopia. Il che sarebbe stato l’inizio dei problemi, piuttosto che la loro fine, come testimoniato tra le molte altre cose dall’ingombrante controparte dell’ornata opera d’arte, una letterale discarica di armi, ricordi e tempi particolarmente oscuri. Composta primariamente nel corso degli anni di guerra stessa, e soprattutto nel primo periodo del lunghissimo conflitto, ad opera di un comando d’occupazione che si preoccupava di come i carri armati ed altri veicoli diventati inutilizzabili al termine di ciascuna battaglia potessero diventare dei simboli capaci d’incrementare il morale dei loro agguerriti avversari. Inducendo ad un dispendio non trascurabile di risorse e manodopera, al fine di radunare tutto il materiale in un singolo luogo, che crescendo progressivamente col trascorrere degli anni, sarebbe quindi diventato il cimitero dei carri armati di Asmara.
Visioni di un mondo derelitto, dove apparenti secoli parrebbero trascorsi da un effettivo medioevo dei bisogni effettivi o meramente percepiti. E non sarebbe perciò particolarmente difficile trarre da questo cumulo di attrezzi d’uccisione ormai dismessi un qualche tipo di messaggio positivo, relativo alla rinascita di un paese che si è ormai lasciato alle spalle il bisogno di combattere per allontanare le autorità di un governo straniero, grazie ad una serie di vittorie come quella di Afabet e la successiva battaglia di Massawa (1990) e fino alla conferenza di pace mediata dal presidente USA Jimmy Carter, che avrebbe condotto al referendum per ufficializzare la creazione di un nuovo governo. Vinto con un prevedibile 99,83% di votanti a favore e che avrebbe tuttavia portato a un singolare tipo di status politico: la salita al potere del presidente Isaias Afewerki, il tipo di governante che non è solito dimettersi al termine del suo mandato. E che in effetti governa tutt’ora, con pugno di ferro e alquanto nebulose decisioni in materia di diritti umani, essendosi recentemente alleato a sorpresa con il vecchio nemico etiope, per sedare assieme all’attuale primo ministro Abiy Ahmed le forze ribelli e separatiste nella regione del Tigrè. Ancora colpi di fucile, dunque, assieme al rombo imperturbabile dei corazzati dunque, mentre una nuova generazione di combattenti si ritrova ad affrontare le stesse condizioni tattiche e disparità operativa dei loro celebrati predecessori. Ma con posizioni totalmente all’inverso. Mentre le ideologie continuano a mutare ed in assenza di alcun tipo di pretesa finalizzata a guadagnare condizioni di vita migliori per i loro partecipanti, trovano il sostegno inaspettato dei bisogni economici e produttivi della nuova classe mercantile al comando. Perché ora e sempre, qui come nella remota Africa Orientale e il Medio Oriente che si trova oltre la stretta e labile barriera del Mar Rosso, più le cose cambiano e più restano le stesse. Incluso il florido moltiplicarsi di quell’Opuntia dai piccoli e dolci frutti aguzzi, totalmente indifferente alle alterne vicende militari della vita. Ma capace d’apprezzare l’ombra offerta da un pesante cingolato dismesso.
Il cimitero dei carri armati con tutto il suo bagaglio di cruenti ricordi, come ampiamente desumibile dall’ampia quantità di articoli, reportage fotografici e video di YouTube, ha perciò acquisito in epoca contemporanea tutte le caratteristiche di un vero museo informale a cielo aperto, benché almeno uno dei visitatori riporti dei problemi intercorsi con un gruppo di polizia militare, che avrebbe allontanato la sua comitiva noncurante degli pneumatici forati della corriera. Permettendo loro, ad ogni modo, di far ritorno il giorno successivo con un apposito permesso richiesto (ed assai probabilmente, pagato) localmente.
Detto questo, recarsi in visita all’antica “piccola Roma”, riconosciuta come patrimonio dell’UNESCO nel 2017 per la sua caratteristica architettura modernista non è di per se meno sconsigliabile (ma forse più gradevole) che avventurarsi presso questo mucchio di metallo e rottami, ormai del tutto privo di funzioni pratiche apparenti. Se non quella di agire come monito solenne, nei confronti di tutti coloro che ancora credono nella gloria ed il fervore della battaglia, dinnanzi alle realtà di ciò che resta da smaltire al termine di simili e spietate circostanze. A patto, s’intende, di riuscire ad associare gli uomini alle loro cose perdute, assieme alle speranze residue di un futuro privo d’imposizioni anti-storiche, scaturite da una mancanza d’equilibrio politico a causa dei trascorsi di una Nazione. Poco più di un sogno evanescente, allo stato dei fatti attuali, per il popolo dell’infuocata terra d’Eritrea. Ed a questo punto cosa potrebbe restarci da chiedere dinnanzi ad una simile rovina, se non: “Avanti il prossimo?” Gli entusiastici fautori della Pace Universale, di sicuro, non mancheranno…