Taglia, recidi, rimuovi. Apri, squarta, preleva. Un piccolo morso alla volta, adesso con cautela. Tra le acque tenebrose di un rigagnolo, l’incaricato disseziona la sua vittima di un altro giorno di onesto lavoro predatorio. Con supremo senso d’ordine, infila le sue zanne oltre i confini della cosa morta. Tirandone fuori due bocconi particolarmente ricercati: il fegato ed il cuore. Nulla di diverso, o più di questo. “Nell’ora del più tragico bisogno, quando il futuro apparirà incerto, dalle acque di palude sorgerà un eroe.” Questa l’iscrizione nella lingua degli aborigeni, sulle scoscese pendici di Uluru, la formazione paesaggistica che gli europei avevano iniziato a chiamare Ayer’s Rock. “Dalle alte e rigide orecchie, le orgogliose vibrisse, il folto manto grigio ed una coda lunga e pronta ad arricciarsi, coronata dalla punta candida come la neve sopra Melbourne caduta lo scorso inverno, rakali, rakali, il topo d’acqua fuoriuscito dal suo elemento.” Il salvatore che ci meritiamo e non esattamente quello che vorremmo, forse, sebbene a differenza del crociato col cappuccio di pipistrello, qui si stia parlando di qualcuno che non ha problemi a uccidere, secondo il modus operandi che gli è stato dato in concessione dalla natura. O per meglio dire molti “qualcuno” caratterizzati dallo stesso senso di abnegazione e sprezzo del pericolo, assolutamente necessari ad affrontare senza nessun tipo di timore la prova più terribile di fronte alle alterne vie del fato: una realistica possibilità, senz’alcuna strada di salvezza alternativa, per andare incontro all’avvelenamento. Morte della bestia e tutto ciò che questa rappresenta. Ed allora chi più sorgerà, dalle nebbie sovrapposte delle epoche, a salvaguardare il penultimo dei continenti che sia ancora in grado di mantenere un qualche tipo di contatto con la Preistoria? Ma non c’è topo nell’Antartico, non c’è alcun tipo di rospo, e soprattutto mancano i fondamentali presupposti perché una specie “non-nativa” possa sopravvivere e far danni. Moltiplicarsi e divorare fino all’ultima risorsa di cibo, mentre essa stessa viene fagocitata a sua volta, in un ciclo dal feedback negativo simile al destino dei dannati nelle profondità ctonie dell’Inferno dantesco. Poiché nessuno può riuscire ad assaggiare il gusto del Rhinella marina della Colombia, l’odiato-odiato rospo delle canne, senza subirne immediatamente le conseguenze: schiuma dalla bocca, tremori, convulsioni, dispnea e morte. Fatta eccezione per tutti coloro che hanno appreso, tramite una serie d’episodi pregressi, lo specifico segreto per riuscire a farlo.
Quanto visto nel video in allegato che potrebbe anche aver offeso la vostra sensibilità (ed allora perché mai cliccarlo? C’è un rattone che sventra un batrace!) rappresenta in effetti la chiave di volta di una nuova possibile strategia capace di sradicare ed annientare gli orribili peccati dei predecessori. Commessi accidentalmente quando attorno alla terza decade del secolo scorso, speranzosi agricoltori credettero di aver trovato il modo di annientare una volta per tutto l’odiato curculionide Dermolepida albohirtum, divoratore di canna da zucchero come se non ci fosse stato un domani. Finendo per scoprire, in maniera drammatica e irrecuperabile, quanto sciocco fosse pensare d’intromettersi nel naturale funzionamento dell’ecosistema terrestre, almeno senza rinunciare ad alcuna pretesa di controllo sul conseguente dipanarsi degli eventi. Il che avrebbe rappresentato, dopo tutto, un’ottima cosa. Per il rospo. Ed una cosa terribile per tutti gli altri, visto l’effetto di una tale specie dalle straordinarie difese biologiche, e l’ancor più terrificante capacità di proliferazione, non soltanto sulle pur sempre limitate risorse di cibo di un bioma ma sulla sopravvivenza dei carnivori stessi, tra cui quoll, varani, serpenti e coccodrilli locali; purtroppo incapaci d’associare il pericolo ad un letterale panino gracidante con le zampe, totalmente incapace di sfuggire alla loro fame. Tutti ad eccezione di alcuni gruppi di corvi e i variopinti pappagalli noti come lorichetti di Swainson (anch’essi tutt’altro che nativi) che furono osservati praticare una particolare metodologia per poter trasformare la pericolosa preda in un gradito pasto privo di alcun tipo di conseguenza. Dagli occhi spalancati degli umani stessi, e quelli stranamente attenti, per non dire colmi d’ammirazione, della cosa più simile che esista al concetto universale di una nutria, che sia però nata e cresciuta in Australia…
Lo Hydromys chrysogaster è un grosso roditore del peso approssimativo di un 1 Kg, appartenente alla famiglia dei muridi che contiene anche i ratti e topi delle circostanze a noi più note. Benché possieda caratteristiche sostanzialmente differenti ed un tipo d’intelligenza più simile a quella della lontra, con cui condivide l’innata grazia nel muoversi fuori e dentro dall’acqua, come concesso dalle zampe posteriori palmate e quelle anteriori più adatte ad afferrare ed artigliare le cose. Pur essendo chiamato per antonomasia un “topo d’acqua”, appellativo al quale si è recentemente affiancata la più rispettosa parola in lingua aborigena di rakali, tale mammifero sembra quindi vantare una maggiore facilità alla locomozione sulla terra ferma, dove impiega una quantità di calorie meno importante, riuscendo a spostarsi con un ritmo e una velocità superiori. Tali da permettergli, ogni qualvolta se ne presenti l’opportunità, di balzare all’improvviso dietro al rospo e catturarlo senza nessun tipo di problema procedurale. Un evento scellerato, a seguito del quali il suo destino dovrebbe apparire già breve ed orribile, fino a una caritatevole quanto repentina dipartita dall’universo dei viventi. Se non che l’effettiva procedura di consumazione adottata dal nostro amico, per possibile inferenza dall’osservazione pregressa dei volatili, trae l’origine da un essenziale gesto preventivo: voltare sulla schiena il rospo trucidato, affinché la sua ghiandola parotide, fonte della mefitica bufotossina, si trovi il più lontano possibile dal punto dell’incisione. Procedura postuma mediante cui il ratto d’acqua ha recentemente iniziato a tirare fuori con la massima attenzione quei precisi organi che sa bene non possedere alcun tipo di effetto letale, per poi lasciare il rospo a marcire sotto il sole impietoso dell’emisfero terrestre meridionale. Conveniente, nevvero? La stessa fauna locale che non soltanto si adatta, ma insegna a se stessa un metodo effettivo per eliminare il pericoloso alieno colombiano. Se non che, s’intende, allo stato attuale delle cose il numero medio di rospi rispetto ai rakali si aggiri tra i 27 ad 1, il che lascia intendere un percorso ancora lungo perché possa verificarsi un effettivo cambiamento in meglio. Ma è un’inizio, per lo meno, l’alba imprevista ed insperata di un nuovo tipo di speranza.
A scoprirlo, all’apice dell’estate scorsa, un gruppo di studiosi d’importanti istituzioni zoologiche degli stati di Victoria e Nuovo Galles del Sud presso un ruscello situato a Kimberley, nell’Australia Occidentale, dove ogni mattina continuavano a comparire nuovi cadaveri di rospo, tutti caratterizzati da identiche ferite in corrispondenza del petto e dell’addome. Lesioni analizzate le quali, fu possibile individuare l’unico possibile colpevole nel ratto d’acqua, come in seguito confermato anche tramite le riprese notturne realizzate mediante l’impiego di una telecamera a infrarossi. Il che avrebbe condotto alla rapida pubblicazione di uno studio in materia (purtroppo offuscato dietro il classico paywall) tale da individuare il nuovo possibile paradigma e vettore di cambiamento nell’indesiderabile propagazione futura del rospo. Un’effettiva strada possibile negli anni a venire, considerata l’abilità nella caccia notturna e innata territorialità di questi animali, già individuati in precedenza come nemici naturali del ratto nero (R. rattus) ulteriore creatura introdotta, stavolta dall’Europa, e dimostratasi capace d’arrecare non pochi danni al prezioso ed insostituibile patrimonio faunistico d’Australia. Nonché il lungo periodo di apprendimento e convivenza tra la madre e i suoi piccoli, capace di raggiungere anche i tre mesi dopo gli appena 35 giorni di gestazione, ideale perché la particolare metodologia anti-rospo possa essere tramandata alla prossima generazione. A patto, s’intende, che la popolazione complessiva del rakali possa continuare a crescere attraverso le prossime decadi, dopo il baratro dell’estinzione presso cui ebbe modo di trovarsi all’inizio del Novecento, causa la continuativa caccia che ne era stata fatta precedentemente per l’ottima pelliccia impermeabile e la sua pessima reputazione. Dal che l’implementazione di un’ordine di protezione nazionale a partire dal 1938 e la scelta del nuovo nome comune “ufficiale”, nella speranza di distanziare il rakali da quei topi con cui ha comunque ben poco da spartire. Mentre continua, giorno dopo giorno, a praticare la sua arte ostile…
Così a partire dall’estate del 1888, il quartiere disagiato londinese di Whitechapel iniziò ad essere sconvolto da una serie di spaventosi omicidi. Il cui colpevole, incline soprattutto a eliminare giovani prostitute, non soltanto separava la loro anima dal corpo, ma effettivi organi contenuti in esso dai rispettivi alloggiamenti, mettendo a frutto tecniche chirurgiche di una certa brutale e orribile efficienza. Diventato un simbolo di orrore affine alla figura mitologica dei vampiri, Jack lo Squartatore divenne nella mente collettiva della City molte cose allo stesso tempo; si diceva, ad esempio, che potesse essere segretamente un membro della famiglia reale. Un catalizzatore del cambiamento alla fine di un’epoca e l’inizio di quella successiva, egli credeva forse di operare per il bene collettivo, mettendo in evidenza l’incapacità della polizia operante nel mondo moderno. Nel regolare, e in qualche modo controllare, l’imprescindibile deriva decadente degli enormi agglomerati urbani. Guidare, attraverso lo strumento inusitato della violenza, questa gracchiante e saltellante umanità indistinta.
Ma non è possibile deviare il corso del ruscello, senza arrecare danni ai pesci e girini contenuti al suo interno… Per non parlare degli anuri già graziati dalla scintilla dello scibile di Prometeo. Per cui servirebbe, di volta in volta, valutare i pro ed i contro di ogni gesto efferato… Non snudare le zanne topesche, almeno che sia l’ultimo tentativo rimasto nell’ampio novero delle possibilità squittenti. In quel mare di veleno senza fine, né alcun tipo di pietà residua.