Tra le cronache e i diari risalenti all’anno 1603, figura un particolare racconto attribuito al capitano di marina inglese, gentiluomo e vero uomo del Rinascimento Sir Kenelm Dibgy, che racconta di un suo problematico incontro con un gruppo di ribaldi nelle strade di Madrid, a seguito di una cena presso casa di suo zio, conte di Bristol, da cui tornava con suo cugino ed un amico. Frammento in cui si narra di come i tre, identificati soltanto con nomi di fantasia data la natura e l’esito violento dell’inaspettato incontro, avrebbero finito per decimare in un feroce combattimento di scherma i propri avversari, costringendoli alla ritirata. Nonostante la maniera in cui il protagonista della vicenda, già trionfatore di svariati celebri duelli tra cui uno per difendere l’onore del suo re Carlo I, si fosse trovato ad un certo punto in un vicolo cieco, impossibilitato a ritirarsi e abbagliato dalla luce proiettata di molteplici lanterne. Il che, nonostante l’assenza di un esplicito riferimento alla questione, viene considerato da taluni storici come il singolo esempio scritto dell’effettivo impiego di una singolare arma, o implemento di difesa che dir si voglia, che si ritiene aver raggiunto l’apice della propria diffusione proprio in quel particolare periodo storico: un apparato che poteva al tempo stesso deviare il colpo di un nemico, e proiettare dritto nei suoi occhi un fascio di luce potente quanto inaspettato. In pratica, un funzionale esempio di scudo lanterna.
Oggetti di cui possediamo ben pochi esempio ed il cui più celebre rappresentante può essere ammirato oggi tra le sale del Kunsthistorisches Museum di Vienna, pur comparendo innumerevoli volte nelle trattazioni e disquisizioni storiche degli appassionati, come se fosse la cosa più naturale ed utile del mondo. Mentre almeno questo specifico oggetto, dalle dimensioni approssimative di un targe (45-55 cm) presenta tutte le caratteristiche necessarie ad esulare da ogni possibile tentativo di classificazione, impiego logico o tecnica di combattimento documentata. Tondo arnese metallico integrato con un guanto d’arme, con un brocco (chiodo centrale) visibilmente serrato al fine d’intrappolare e spezzare la lama del nemico, esso presenta infatti non soltanto l’essenziale finestrella apribile con sistema d’illuminazione integrato, ma anche un’ulteriore dotazione d’offesa, per così dire, integrata: due aculei collocati sopra il polso dell’utilizzatore, puntati in avanti. Ed una singolare quanto impressionante lama scorrevole, presumibilmente fatta estendere in origine mediante l’uso di un meccanismo ad incastro gravitazionale, se non addirittura un qualche tipo di molla. Completa la dotazione una pratica manopola angolare, da tenere stretta in pugno per meglio manovrare e mantenere in posizione questo pesante orpello durante le fasi più concitate dell’ipotetico combattimento. Ora il reperto in questione, di una provenienza non largamente discussa ma datato al 1540 circa ed attribuito a un costruttore italiano ed associato alla figura del cavaliere Broma Venschwitz, potrebbe anche essere stato un qualche tipo di stravagante decorazione da parata. O ancor più probabilmente, l’iniziativa volta a soddisfare le specifiche richieste di un nobile con più risorse finanziarie che esperienze di combattimento, intenzionato ad impressionare gli amici un po’ come gli odierni seguaci statunitensi della corrente di pensiero tacticool, tuttti pantaloni mimetici, bandoliere tattiche, coltelli a serramanico e dozzine di mirini inutili sopra le proprie irrinunciabili armi da fuoco. Tuttavia è acclarato da diverse indagini, nonché provabile mediante alcuni altri esempi di fattura lievemente meno stravagante, che svariate versioni dello scudo lanterna ebbero modo di diffondersi nell’Europa del Rinascimento, quando l’affermarsi delle armi da fuoco compatte stava iniziando a far passare l’epoca della spada da fianco, sebbene in molti tardassero a liberarsi delle proprie vecchie abitudini e sicurezze, incluso il trasporto inseparabile di qualche doppia spanna d’affilato acciaio. Sono questi gli anni, d’altra parte, in cui le molte scuole di scherma pre-esistenti approdarono verso quello che potremmo definire una sorta di Manierismo dell’uccisione ritualizzata in duello o fuori da esso, riconducibile in maniera estremamente diretta al contesto letterario, nonché pratico, del trattato del 1410 del Flos Duellatorum o Fior di Battaglia, del grande insegnante di scherma di Cividale del Friuli, Fiore dei Liberi. Che nella sua progressione di capitoli affronta a turno il combattimento con una e due spade, con spada e pugnale, con spada e cappa e soprattutto l’utilizzo del cosiddetto brocchiero, uno scudo tanto piccolo da essere considerato un pezzo “d’armatura mobile” da manovrare ed anteporre all’arma dell’avversario, al suo braccio, al volto tanto spesso privo di protezioni. Strumento particolarmente temibile, molto spesso aculeato, e che lo stesso Machiavelli, oltre un secolo dopo avrebbe ancora associato all’agile fanteria spagnola, capace d’impiegarlo al fine di deviare i colpi dei lanceri ed attaccarli dal basso, scardinando istantaneamente la formazione difensiva delle controparti…
Nota: lo scudo lanterna mostrato in apertura, fedele ricostruzione di quello del Kunsthistorisches, viene qui mostrato in azione dal capace armaiolo e musicista ucraino del canale YouTube ArmorSmith. Lui stesso specifica nel video in questione, ad ogni modo, come si tratti in questo caso dell’opera creativa di alcuni amici e colleghi.
Non è perciò difficile immaginare l’utilità di un simile attrezzo nel combattimento individuale, in un’epoca in cui la minima offesa rivolta a un proprio amico, parente, re o nazione poteva scatenare la necessità di difendere il proprio onore, dinnanzi a qualcuno fermamente intenzionato a rafforzare il proprio insulto col sangue. E c’era un momento, assai specifico, in cui tali tenzoni tendevano ad essere combattute: le prime ore dell’alba, lontano da occhi indiscreti o il possibile intervento delle autorità civili. Così che diventò soltanto naturale, in determinati ambienti, anticipare un po’ le cose, andando all’attacco nei momenti in cui un fascio di luce poteva fare tutta la differenza tra il brancolare nel buio e colpire dritti il centro del bersaglio, passandolo da parte a parte prima ancora che potesse reagire. Ora la lanterna stessa, nelle notazioni della scherma rinascimentale, diventò nei fatti uno strumento della scherma formale, potendo essere impiegata per deviare o bloccare i colpi del nemico ed essendo tenuta normalmente dietro la schiena con la mano libera, in una posizione che viene ritenuta la possibile origine della moderna posa di chi tira di spada. Ma il problema fondamentale restava di dover per forza scegliere, di volta in volta, tra l’utilità di un targe, un brocchiero o una pura e semplice fonte di luce, che diminuiva sensibilmente le opportunità di trasformare un gesto di difesa in capovolgimento dei rapporti di forza, con conseguente annientamento del fellone di turno.
Eravamo tra il XV e XVI secolo, inoltre, negli anni di molti e significativi avanzamenti tecnologici e metallurgici, tali da favorire la progressiva diffusione delle cosiddette armi combinate, attrezzi d’uccisione in cui una lama convenzionale trovava l’attributo addizionale di una guardia in grado di fungere come martello, o una pesante mazza si trovava dotata all’altro capo di un piccone utile a perforare l’impenetrabile armatura di un corazziere. Per non parlare della sempre più frequente integrazione di moschetti con le armi inastate, in una sorta di anticipazione rudimentale del concetto di pesanti, ma temibili baionette. Dal che derivava praticamente spontanea la domanda di quale altra funzione addizionale, in effetti, potesse accompagnare l’utilizzo in battaglia di un “piccolo” scudo. Un esempio più ragionevole del concetto di lanterna difensiva può essere per questo individuata oggi nell’armeria della Torre di Londra, con un esempio coévo riccamente decorato di protezione circolare, dotata di un singolo compartimento per sistema d’illuminazione ad olio, potenzialmente modellato su un pezzo d’utilizzo occasionale da parte delle ronde notturne inglesi. L’utilità, in tale contesto, sarebbe infatti risultata palese ed altresì conforme alla tradizionale abitudine di origine medievale, da parte di chiunque abitasse un insediamento di qualsiasi dimensione, ad andare in giro di notte soltanto con una torcia accesa, al fine di essere più facilmente individuabile ed al tempo stesso scorgere eventuali malintenzionati da lontano. Questa idea di occupare una mano con qualcosa che potesse assolvere a compiti disparati può trovare quindi la sua espressione maggiormente appariscente con un ulteriore modello di scudo oggi presente in diversi musei del mondo, ma il cui esemplare più famoso è stranamente collocato nel Walters Museum di Baltimora, negli Stati Uniti. Originariamente commissionato all’armaiolo Giovanni Battista di Ravenna per volere di Enrico VIII d’Inghilterra nel 1544, che ne fece costruire ben 100 per le sue guardie del corpo: un altro targe di forma circolare, ma questa volta dotato di una singola canna centrale al posto del brocco, a cui corrispondeva all’altro lato l’impugnatura di una pericolosa pistola. Attrezzo nuovamente poco pratico, a quanto pare troppo pesante e poco maneggevole per poter sparare senza un qualche tipo di sostegno, benché potesse certamente vantare un qualche tipo d’effetto psicologico una volta schierato in ipotetiche battaglie.
Spostando quindi al nostra attenzione più ad Oriente, è possibile individuare un’alternativa versione della stessa epoca dello scudo “da offesa” nella targa russa o tarch, implemento bellico comunemente associato al Gran Ducato di Moscovia, sebbene non si abbiano specifiche narrazioni del suo uso in battaglia. Un’ulteriore associazione, come il pezzo italiano del Kunsthistorisches, di strumento difensivo propriamente detto e guanto d’arme, con l’ausilio addizionale di un pericoloso puntale atto ad impedire l’avanzata dell’aggressore di turno. Il tutto in una configurazione stranamente rigida, che avrebbe comportato una riduzione significativa delle opportunità di movimento, lasciando non pochi dubbi sull’effettiva storicità della faccenda. Una protezione tecnologicamente simile esisteva anche in India con il nome di pata, benché fosse priva dello scudo e quindi più che altro un guanto dotato di una o più lame d’offesa, risultando decisamente più logica e funzionale.
Non che lo stravagante istrice d’acciaio normalmente considerato l’antonomasia di questa insolita tipologia d’armi potesse funzionare molto meglio, quando se ne considera non soltanto il peso, ma soprattutto le lunghe e rigide protrusioni che si sarebbero spostate di concerto, minacciando ad ogni istante d’intrecciarsi con gli affondi di spada, finendo per impacciare, o persino ferire il suo stesso utilizzatore. Dal che è possibile desumere che questo presunto committente, il cavaliere Venschwitz, dovesse possedere uno stile di combattimento straordinariamente personale ed efficacie, avendo probabilmente collaborato da vicino ad ogni singola fase costruttiva dell’implemento.
Ciò detto, ammesso e non concesso che una persona per così dire “comune” fosse tanto intraprendente da portarsi dietro lo strano oggetto, quale brigante avrebbe mai pensato di tentare di aggredirlo? In un mondo in cui il combattimento di spada senza protezioni era sostanzialmente regolato da specifiche mosse e contromosse, in una sorta di perverso galateo d’uccisione. Così come gli aculei del succitato animale, o l’arma segreta della puzzola in un contesto evolutivo dettato dalle semplici leggi della natura, il predatore avrebbe preferito rivolgere la propria cupidigia verso bersagli più facilmente comprensibili o intuitivi da sopraffare. Sempre che non avesse semplicemente l’opportunità di sfoderare una pistola e fare fuoco. La vera grande livella, quest’ultima iniziativa, di qualsiasi connotazione cavalleresca ereditata dalle epoche precedenti. E di fronte a cui qualsiasi scudo sarebbe diventato poco più che una formalità, almeno fino all’invenzione della trincea.