Poiché ogni popolo è sostanzialmente, almeno in parte, il prodotto culturale del suo ambiente d’appartenenza e ciò è tanto maggiormente vero, quanto più quest’ultimo è dotato di caratteristiche che variano dalle comuni aspettative situazionali. E perciò in quale altro luogo, piuttosto che il letterale tetto geografico del mondo, avrebbe potuto svilupparsi e prendere piede un simile sistema filosofico, lo schema di valori in grado di dare un significato all’esistenza dell’uomo, alle tribolazioni della vita ed il destino che ci aspetta successivamente alla morte? Tra gli svettanti altopiani e le verdi valli del Tibet, circondate da scoscesi picchi montani, contro i quali riecheggiavano da tempo immemore i sutra delle preghiere, ed il suono roboante delle campane buddhiste. Ma se tutto questo è pienamente apprezzabile dal punto di vista filosofico e religioso, altrettanto facilmente possiamo ritrovare simili correlazioni tra gli schemi tecnologici di una particolare civiltà ed il tipo di risorse minerarie su cui gli è concesso fare affidamento, dagli imprescindibili schemi del sistema naturale. Materiali come gli utili metalli, capaci di costituire il fondamento stesso di molti dei processi industriali e militari della storia stessa. Ed è attraverso un chiaro riferimento a tutto questo, che possiamo ritrovare uno degli elementi stessi alla base del mito delle origini del regno montano di Tubo, in cui si narra del divino governante Nyatri Tsenpo, disceso dal cielo stesso mediante l’utilizzo della scala di corda dmu thag, descritta come una sorta di arcobaleno. Così come l’essenziale aspetto di quel particolare fenomeno atmosferico appariva chiaramente sulla lama dell’attrezzo usato per fabbricarla, il cosiddetto coltello di gus. Così all’interno delle cronache, la narrazione procede con i saggi discendenti di quel personaggio che governando le genti del Nepal, avrebbero insegnato loro una serie di utili segreti: la fabbricazione di arco e frecce, di asce e trappole per gli animali. Dei vasi di ceramica. Di scudi ed attrezzi di ferro. Ed infine, il segreto più grande di tutti, quello necessario ad emulare e mettere a frutto lo stesso tipo di potenza posseduto dall’antico capostipite dell’intera dinastia. La prima versione terrestre del coltello si sarebbe quindi concretizzata durante il regno di Zhigung Tsampo, ottavo governante del paese destinato, come i suoi predecessori, a far ritorno nei cieli al momento della sua morte attraverso una corda di luce, il che non avrebbe d’altra parte impedito alle sue spoglie mortali di trovare posto tra i sacri tumuli della valle di Chongye, importante lascito della sua tangibile dinastia, conclusasi secondo gli storici attorno al XIII secolo d.C. Ma non prima che, o almeno così si narra, un gruppo di nove fratelli “dagli occhi piccoli”, che abitavano presso l’irraggiungibile picco montano di Sidor, potessero imparare i segreti della forgiatura celeste, in modo tale da costruire il primo esempio di lama divina, tra i tangibili recessi dell’esistenza. Per poi trasmettere il loro segreto al leggendario fabbro Mitotago della foresta di Gyiyulhozha, capace di costruire un tipo di spada capace di tagliare nove alberi allo stesso tempo.
Tutto ciò benché storicamente parlando e per ovvie ragioni, il coltello tibetano non potesse possedere una simile potenza, pur rappresentando un importante possedimento, dai molti tipi di utilizzo, per coloro che ne resero famosa l’affidabilità e resistenza. Sfruttandone l’affilata lama per un vasto ventaglio di necessità tipiche del vivere rurale, tra cui la caccia, la preparazione della carne, la lavorazione del legno, l’autodifesa. Mentre la spada da guerra, anche un importante simbolo religioso in quanto fondamentale attributo del bodhisattva Manjushri, diventava un oggetto irrinunciabile all’interno della casa dei potenti. Giacché tradizionalmente sia uomini che donne di questo paese erano abituati a muoversi attraverso i giorni armati di un simile implemento di taglio, tradizione destinata a continuare fino all’inizio dell’epoca moderna ed anche in seguito ad essa, per quanto possibile nonostante le severe restrizioni imposte in seguito alle imposizioni normative dei cinesi. La cui stessa esperienza pregressa avrebbe in effetti potuto contribuire, secondo alcune interpretazioni filologiche, all’affermazione della particolare tecnologia metallurgica tibetana durante i commerci effettuati nel corso delle dinastie Ming e Qing, giacché non era insolito che tale oggetto venisse chiamato tradizionalmente coltello degli Han, ovvero in altri termini, il prodotto per antonomasia del vasto ed ingegnoso Regno di Mezzo. Benché i tibetani stessi, come loro esplicita prerogativa, fossero riusciti ad integrare e modificare tale specifico fattore culturale, in un un complesso rito produttivo composto da oltre 20 passaggi distinti, capaci di prolungarsi attraverso un periodo di svariate settimane, se non addirittura mesi nel caso dei pezzi più elaborati ed imponenti…
Qualsiasi conoscitore appassionato dell’Oriente, d’altra parte, non tarderebbe a riconoscere la scena: un fabbro in abiti tradizionali che riscalda multiple tipologie di ferro, prima d’iniziare a piegarli l’uno sopra l’altro dopo aver aggiunto al pacchetto strane misture segrete, nella tecnica universale dell’acciaio multistrato. O wootz indiano, o ancora di Damasco come veniva chiamato nel contesto europeo, benché nella cultura globalizzata dei nostri giorni, fondamentalmente, tale procedura si trovi associata alla leggendaria creazione tecnologica della spada giapponese. Arma per la quale l’utilizzo di due tipi diversi di polvere di ferro, l’akame satetsu e il masa satetsu, costituiva niente meno che un passaggio necessario al fine di rafforzare la lama, data la natura inerentemente fragile di queste imperfette materie prime minerali. Laddove il tipico fabbro tibetano delle origini, secondo le fonti coéve di cui siamo capaci di disporre, era solito miscelare assieme fino a sette minerali differenti, prelevati quasi esclusivamente dai diversi versanti dell’alta Montagna di Ferro, altrimenti detta di Yigong. Ed è con diretta associazione a tale luogo, ed in particolare presso il villaggio di Lhatse Xog non lontano dall’odierna città di Shigatse, che l’attuale accezione del coltello tibetano avrebbe trovato conferma attraverso i secoli, fino a diventare un importante aspetto esteriore della cultura del suo popolo di appartenenza, nelle sue molte fogge e mutevoli accezioni attraverso il progredire dei fattori di contesto. In una tipologia di oggetto che può essere, secondo l’usanza, per uso maschile o femminile, con la seconda versione in genere più leggera e maggiormente ornata. Mentre la lunghezza può rientrare in tre misure distinte: lunga (100 cm o più) corta (30-40 cm) o piccola (con una lama misura in numero di dita) ciascuna delle quali creata con la stessa tecnica della celebre “forgiatura arcobaleno”, così chiamata proprio per il tipo di disegni che restavano sulla lama stessa, in funzione dell’opera preparatoria del fabbro tibetano. Il quale, in base ad un tipo di eredità imprescindibile, era solito bagnare il minerale con latte di Yak o infuso di Tè, avendo successivamente cura di scaldarla mediante l’uso di una certa quantità di carbone, utile non soltanto a mantenere la temperatura ideale, ma anche a fissare le sostanze chimiche all’interno del reticolo cristallino del metallo stesso, aumentandone la flessibilità e creando, conseguentemente, l’acciaio. Benché un aspetto certamente sorprendente dell’intera faccenda, sia il modo in cui gli alcuni degli antichi coltelli tibetani risultino essere effettivamente magnetizzati, contrariamente a quanto dovrebbe avvenire mediante un simile processo produttivo, una capacità potenzialmente derivante dall’impiego di ferro meteoritico nella loro costruzione, così come avveniva per i tradizionali amuleti Thokcha, capaci di precorrere l’affermazione del buddhismo all’interno dei confini della nazione. Per quanto concerne invece la variazione regionale dell’antica tecnica, possiamo individuare ulteriori tre derivazioni storiche del mitologico coltello di gus, oltre a quella concentrata presso l’area di Lhatse: le lame della prefettura di Nyingchi, simili a machete con foderi coperti di pelli d’animale, comunemente utilizzati al fine di tagliare la folta vegetazione ai margini della foresta; quelle di Amdo, riccamente ornate con gemme e pietre preziose, i manici a forma di barca, idealmente concepiti per la consumazione del cibo in contesti conviviali, come veri e propri status symbol delle classi più elevate; ed infine, i pugnali della regione di Kham, trasmessi attraverso le generazioni familiari allo stesso modo della katana giapponese, assieme alla prontezza di sfoderarli in combattimenti o vere e proprie battaglie.
Ciò detto e verso l’inizio dell’epoca contemporanea, ma soprattutto successivamente alla “liberazione patriottica” o ben più semplice annessione del Tibet da parte della nazione cinese a partire dal 1950, l’effettivo impiego ereditato dei diversi tipi di coltelli si sarebbe perso attraverso il passaggio generazionale, giungendo ad un prodotto concepito primariamente come una sorta di brand con ottimi propositi di vendita ai turisti, nelle più stravaganti e appariscenti fogge, incluse quelle sovradimensionate dal costo unitario in grado di raggiungere cifre molto significative, pari o superiori ai 100.000 dollari all’interno di uno specifico mercato del collezionismo internazionale. Abbastanza ben sviluppato, a quanto si narra nei portali di notizie asiatici, da poter giustificare un effettivo rinascimento di quest’arte, oggi praticata da almeno qualche decina di fabbricanti, eredi diretti delle antiche famiglie che se n’erano occupate attraverso l’evolversi della sua storia pregressa. Mentre la stessa percezione delle tecniche metallurgiche connesse ad essa, molto lentamente sta iniziando a filtrare anche verso la cultura occidentale, assieme ad una ritrovata stima e percezione comune dei molti meriti di una cultura ingiustamente accantonata dai propri stessi vicini.
Comprendere quale sia l’effettivo destino del popolo tibetano, in un futuro prossimo o remoto, appare dunque oggi particolarmente difficoltoso. Così come d’altronde, è storicamente successo a molte culture confinanti, per loro sfortuna, a gruppi nazionali intenzionati a modificare o integrare schemi di valori preesistenti. Soprattutto quando questi ultimi, causa particolari circostanze di contesto, risultano essere la diretta conseguenza di questi ultimi, operando al di fuori di cognizioni universali ed apparenti.
Eppure addirittura all’interno di una simile tempesta, determinati tratti culturali possono riuscire a sopravvivere, proprio perché associati ad ottimi propositi di guadagno, sia materiale per i diretti interessati che d’immagine secondo quanto apprezzabile dall’opinione della posterità. Ed è per questo che un antica tradizione propriamente ed esclusivamente tibetana, oggi, riesce a ritornare sotto i riflettori grazie alla potente macchina divulgativa dello stato cinese. Guadagnandosi un valore aggiunto, meritato ed immanente, che potrà restare tale indipendentemente dagli eventi futuri. Ed è soprattutto questo, in ultima analisi, che potrebbe riuscire a far sorridere gli antichi governanti di Tubo sepolti sotto i propri tumuli, le corde sacre ormai recise come gocce di rugiada al sopraggiungere dell’alba. Mentre il loro puro spirito, sfuggendo facilmente al ciclo eterno delle reincarnazioni, ci giudica ed osserva dalla sommità iperborea dell’Esistenza.