“Seguitemi, mie prodi! Io vi porterò… Alla gloria. Io vi porterò… Al trionfo. Ed infine, grazie a me conoscerete… La pace.” L’ordinata colonna di soldati, marciando all’unisono, raggiunse la base del grande albero del mondo. Radici contorte si sovrapponevano l’una all’altra, mentre il cumulo di foglie, rami caduti e gigantesche carcasse d’animali mitologici giacevano accatastate l’una all’altra, tra il groviglio di vegetazione che soltanto gradualmente, verso l’alto, iniziava finalmente a diradarsi. La regina, girando la sua testa corazzata verso il cielo, scorse allora quella che sapeva essere la loro terra promessa. In alto in mezzo ai rami, in controluce rispetto agli arzigogolati ritagli di un distante cielo, una forma bulbosa sporgeva dal tronco del colosso vegetale. Sembrando un frutto scaturito dalla sua stessa corteccia, se non fosse per le abbarbicate radici, che partendo dal fondo dell’oggetto, fasciavano e giravano tutto attorno al tronco emergente della maestosa conifera Araucaria. Con un imperioso gesto del suo arto anteriore destro, la sovrana si dispose quindi nuovamente in posizione orizzontale, con le mandibole aperte in un’espressione di aggressività e coraggio. Una zampa, due, quindi quattro ed infine tutte e sei furono sopra le propaggini legnose dell’arcologia infinita, mentre i suoi guardiani la seguivano da presso. Una lumaca distante, all’apice della circonferenza, si voltò e iniziò a procedere oltre l’altro lato dell’arbusto. Tutti, tra gli artropodi, sapevano che cosa poteva significare la sua venuta; soltanto ardite battaglie, terra bruciata e infine quella brulicante moltitudine, che ogni cosa ricopre, qualsiasi possibile nemico, divora. Ora il manipolo procedeva verso l’alto disegnando la figura di una freccia sul tronco, con la propria visionaria leader presso il vertice di quella forma. Mentre l’oggetto bulboso, gradualmente, si faceva sempre più grande arricchendosi di dettagli: una superficie striata e bitorzoluta, il picciolo di un rametto pendulo, piccoli frutti rossi attaccati saldamente all’estremità. Che la regina scrutò con interesse proprio quando all’improvviso, uno di questi ormai maturo si staccò dal corpo principale della pianta, precipitandogli accanto, oltre e infine nell’indistinta oscurità sottostante. Colpendo e trascinando via un intero gruppo di operaie, che si erano disposte parallelamente alla singola fila del gruppo delle combattenti. “Avanti, ci siamo quasi… Un altro piccolo sforzo!” Esclamò la regina, nel suo idioma fatto di gesti, feromoni e figure disegnate con le antenne. Ben sapendo che i suoi prodi cavalieri non avrebbero mai perso la fiducia. E che tutti gli altri, secondo uno schema chiaramente definito da millenni d’evoluzione, li avrebbero seguiti fino all’obiettivo designato, indipendentemente dalle direttive del proprio istinto individuale di sopravvivenza. Poiché l’unione fa la forza, e nessuno era più unito, nonché potente a parità di dimensioni, della schiera indivisibile di un formicaio. Ora giunse la monarca lievemente affaticata, sotto l’ombra propriamente detta del suo nuovo gigantesco palazzo. La cui porta simile a un pertugio chiaramente ben ventilato, si spalancava lanciando il suo evidente invito a qualsivoglia armata in grado di passare da quelle parti. Con un sospiro evidente, ella fece l’auspicato passo oltre la soglia. Per osservare la liscia ed accogliente, vasta, silenziosa ed asciutta camera all’interno.
Myrmecodia è il nome proveniente dal Greco ed in un certo anche il programma, di queste particolari piante epifite (ovvero “che crescono sopra [altre] piante”) poiché mirmecofile significa, con ulteriore concezione dell’altra importante lingua del mondo antico, amanti delle formiche. Ed in tale senso non c’è alcuna possibilità di affermare, se pure ne esistesse l’intenzione, che esse divergessero dall’evidente proposito contenuto nell’appellativo in questione. Come rappresentanti di un variegato genere, composto da almeno 30 piante diverse, diffuse nel Sud-Est asiatico, nelle Filippine, in Indonesia, presso le isole Fiji e nella parte settentrionale dell’Australia, dove il caldo ed umido clima tropicale facilità l’esistenza di un ecosistema multistrato e dal considerevole grado di complessità inerente. Tale per cui l’interazione tra creature o persino regni del tutto diversi, consente la creazione e l’utilizzo di nicchie ecologiche particolarmente notevoli, in quanto potenziali accenni di quanto può sussistere presso la superficie di pianeti distanti, totalmente sconosciuti alla curiosità degli umani. Prendi, per esempio, il rapporto totalmente simbiotico tra classi tanto distinte di creature…
Osservata da lontano, dunque, una pianta di Myrmecodia appartenente alla famiglia delle Rubiacee e per questo imparentata alle ben note fonti rampicanti del caffè e del chinino, appare come nulla di particolarmente attraente o utile a un qualsiasi tipo di creature viventi. Composta principalmente da un ipocotile o fusto allargato, vagamente simile a un tubero estremamente leggero e sospeso tra i rami della pianta ospite, essa cresce spesso ricoperta di spine, con pochissime foglie ed ancor meno fiori o frutti. Estremamente poco chiaro risulta essere, del resto, dove riesca a trarre le sostanze nutritive necessarie alla propria sopravvivenza, non possedendo a differenza di altre piante epifite alcun tipo di radice strangolarice, o altri strumenti simili capaci di trarre benefici a discapito dell’ospite svettante. Almeno finché non ci si avvicina abbastanza da scorgere la massa brulicante di formiche contenute al suo interno, espressione di una casistica non solo accettata, bensì addirittura desiderabile per prolungare la propria insolita esistenza vegetale. Di una pianta che, in ogni sua forma, sembra fatta apposta per funzionare in tale particolare accezione. A partire dalle numerose quanto anguste aperture che ne punteggiano la scorza esterna, ideali fori di ventilazione ma anche vie d’ingresso verso gli ombrosi recessi contenuti all’interno del suo stesso corpo centrale. Suddivisi in strette camere interconnesse, che dal punto di vista di un osservatore umano idealmente ridotto a tale misura potrebbero sembrare poco più che un dedalo dove smarrirsi, per non tornare mai più a riveder la luce del Sole. Ma che per una gruppo di formiche in cerca di casa dopo aver abbandonato le propaggini di una colonia ormai sovrappopolata, rappresentano uno spazio niente meno che ideale, la più perfetta espressione architettonica di un formicaio ideale, senza neppure dispendio d’energie necessario a effettuare lo scavo del consueto sistema di gallerie sotterranee. E non soltanto questo: poiché la disposizione sopraelevata della pianta Myrmecodia offre loro una rapida via d’accesso alla corona dell’albero svettante, potenziale territorio valido a procacciarsi il cibo, senza aver bisogno di tornare periodicamente a livello del terreno, esponendosi alla potenziale uccisione da parte di una vasta gamma di predatori. Così le formiche arboricole, guidate da un atavico istinto, nulla chiedono alla vita che potersi stabilire all’interno dello strano tubero sospeso in aria, mentre in quello che costituisce un vero e proprio rapporto simbiotico capace di arrecare reciproco vantaggio, quest’ultimo riceve in cambio il suo valido tributo. Poiché in assenza di terra fertile, humus, e grandi quantità d’acqua fatta eccezione per quella ruscellante già dalla corteccia della pianta ospite, saranno proprio le piccole inquiline a fornire sostentamento alla pianta. In modo particolare con l’accumulo delle proprie scorte di cibo proprio all’interno di specifiche camere contenute nella pianta, dalla superficie particolarmente ruvida, ricoperte di una membrana cellulare in grado di decomporre ed assorbire le cose non più viventi. Così come le stanze lisce in altre aree abitabili, nel frattempo, risultano essere l’ambiente ideale per le nursery ed aree per breve pause del formicaio in perenne nonché ricorsivo movimento. Tanto che le formiche stesse sanno bene di dover portare i loro stessi morti all’interno dei depositi, affinché la pianta li consumi prima di altre e più preziose sostanze, come i detriti organici che costituiscono il letterale carburante della loro stessa esistenza. In tal modo, ogni qualvolta un erbivoro fosse tanto imprudente o poco furbo da puntare la già poco nutritiva Myrmecodia, dovrà anche fare i conti con una letterale armata di agguerriti piccoli soldati, che pur non possedendo normalmente alcun tipo di veleno, faranno di tutto per ferirlo tramite l’impiego delle proprie mandibole sproporzionatamente potenti. Una collaborazione, quest’ultima, capace di estendersi anche alla riproduzione della pianta pseudo-carnivora, visto come le formiche stesse siano abituate ad andare a riprendere dai frutti occasionalmente prodotti e caduti a terra i loro resistenti semi, al fine di “piantarli” letteralmente sotto la superficie della stessa corteccia da cui erano provenuti, ben sapendo che in tal modo potranno godere, tra qualche tempo, di nuove propaggini abitabili per la propria inespugnabile fortezza sospesa tra il cielo e la terra. Il tutto coadiuvato dal sistema altrettanto ingegnoso generato dalla pianta stessa, per cui gli uccelli che dovessero assaggiare il loro dono gastronomico si troveranno i suddetti semi appiccicosi attaccati saldamente al becco. Non lasciandogli altra possibilità che strofinarlo enfaticamente sulla corteccia di un altro albero, permettendo così alla pianta di attaccarsi ad essa lasciando estendersi gradualmente le proprie funzionali e specializzate radici.
Se c’è quindi qualcuno in grado di approfittare trasversalmente di un rapporto reciproco tanto efficiente, ciò riesce a verificarsi unicamente presso lo stato australiano del Queensland e per l’opera della farfalla “gioiello” Hypochrysops apollo apollo, la cui larva può beneficiare di una notevole somiglianza nei confronti di una giovane formica. Al punto che, depositata sulla superficie del tubero, saranno proprio le inconsapevoli genitrici a trasportarla all’interno, accudendola e nutrendola come fosse una delle loro. Finché cresciuta a sufficienza, sarà proprio quest’ultima a divorare senza nessun tipo di rimorso molti dei suoi fratelli e sorelle, per poi trapanarsi una via di fuga attraverso le pareti stesse della pianta epifita. Una visione niente meno che infernale, e perciò utile a farci capire di che tipo possono essere le interrelazioni tra diversi esseri all’interno della foresta pluviale: reciprocamente utili e non prive di un imprescindibile livello d’eleganza, oppure guidate dal desiderio di ottenere un esclusivo guadagno personale. Trasformando animali, o piante, in quanto di più simile a effettivi mostri scaturiti dal momentaneo e inevitabile sogno della ragione.
Ma c’è sempre la speranza, al termine di un lungo periodo di peripezie e sofferenza, che le ombrose moltitudini possano riuscire ad accedere ad un qualche tipo di rivalsa sugli eventi dolorosi tra le alte pareti della valle. Il che non potrà che scaturire da una singola ed universale realizzazione: l’aver trovato un luogo che potranno finalmente definire, a tutti gli effetti validi nonché pertinenti, la loro Casa.