“Da parte dell’intero comitato, con gioia imperitura, queste vecchie ossa vorrebbero darti il benvenuto” La volta silenziosa dell’intera caverna sembrò vibrare per l’effetto del calore, mentre il femore di cavallo cadde casualmente su di un lato, effettuando la cosa più simile a un’inchino. Rotolando prima da una parte, quindi l’altra, la calotta cranica rispose alle molteplici strette di mano attraverso un periodo di una notte, un giorno, una notte. Qui una tibia d’antilope, lì un’ulna di cammello, disposte nella forma di una “L” per simboleggiare la parola “Lascia” (ogni speranza, oh peccatore.) “Grazie, grazie miei cari e sbiancati amici. Anche queste vecchie ossa, finalmente, provano felicità.” Giunto e ormai trascorso era il momento topico di oltre 120 anni, in cui vestigia e rimasugli ancora pensano alla vita ormai trascorsa sulla grigia Terra. E in tali anguste tenebre, una simile smarrita oscurità, ciò che un tempo era parte di un qualcosa di complesso, ancorché meraviglioso, giace libero riuscendo a perseguire l’agognata pace dei sensi. La calotta provò a sorridere con denti ormai svaniti da oltre un secolo; “Dopo tutto, quello che oggi provo è soprattutto un grande senso di sollievo.” Un piccolo cumulo di vertebre di volpe si produsse in suoni scricchiolanti, vagheggiante plauso delle circostanze che durò all’incirca una settimana: “Poiché so che ormai più nulla, proprio niente, potrà riuscire a far del male alle mie… Vecchie ossa.” Quasi a sottolineare quanto aveva appena detto, il vento cessò all’improvviso di soffiare nella caverna. Senza più alcun tipo d’energia esterna a movimentarle, le rinseccolite moltitudini non poterono far altro che tacere. E fu dopo il trascorrere di appena un mese, che un tutt’altro tipo di rumore diventò improvvisamente udibile, trasformandosi in un cacofonico frastuono. Come un trascinarsi di qualcosa, lo strofinio dimenticato delle carni. Accompagnato dal possente ringhio di una belva proveniente dagli oscuri angoli del mondo. La calotta scelse dunque quel preciso attimo, per ricordare cosa era stato in vita. I campi coltivati e la tranquilla fattoria nella regione arabica dell’Harrat Khaybar, a nord di Medina, all’interno di un civiltà retrograda ma totalmente funzionale. Il Neolitico, la primavera della nostra Storia. Nonché il primo esempio di sepolture sotterranee che sia stato in grado di attraversare i secoli fino all’epoca corrente. Tutto questo ritornò nella memoria del midollo, e non solo. Il tranquillizzante peso della terra smossa che oscurava, come una coperta sopra il baratro della fossa, le tribolazioni e il caos del mondo. Fino al giorno in cui successe… La cosa. Zampe scavatrici, unghie che distruggono. Un muso cercatore dagli aguzzi denti che agguantano. E la testa della salma stretta nella bocca pelosa, così come ora toccava a questa nuova vittima degli unici abitanti vivi della caverna. La iena fece il suo ingresso stagliandosi contro la luce del sole. Saldamente stretta in bocca, la carcassa insanguinata di una pecora. Atterrite, le ossa udirono un insostanziale grido. Era il CRACK possente di una povera spina dorsale, che in assenza di alcun tipo di pietà veniva suddivisa in due parti uguali.
I nativi lo chiamano Umm Jirsan, ma sarebbe perdonato chi pensasse che si tratti in verità di una provincia tangibile del grande sottosuolo infernale. Così come appare, con la volta ad arco naturalmente creata da un’antica colata lavica, in questa regione dalla grande attività geologica in Arabia Saudita, oscuro e stranamente ricoperto da un fitto tappeto di testimonianze. Quelle che han lasciato, volenti o nolenti, le molteplici generazioni delle prede, catturate da un particolare tipo d’animale. Stiamo parlando, con grande probabilità scientifica, della Hyaena hyaena o “iena striata” il più comune e tipico rappresentante della sua famiglia tassonomica, un carnivoro capace di nutrirsi con equivalente soddisfazione di cose già vive, oppure morte da qualche tempo. Nonostante la prima impressione riportata ai tempi della prima scoperta di questo luogo nel relativamente recente 2007, di esploratori che affermarono di aver udito suoni provenire dal profondo, che non potevano esser altro che “Lupi, lupi e niente di diverso da questo.” Ma i lupi, come sappiamo molto bene, non trascinano i cadaveri scavati dalle tombe dentro una caverna. Non conservano le ossa come un possibile snack in periodi di magra. Poiché non possiedono la forza necessaria a suggerne il midollo, dolce succo irraggiungibile e proibito…
Concentrata per lo più nella diramazione alquanto comprensibilmente nota come “Grotta dei lupi”, l’impressionante collezione d’ossa dell’Umm Jirsan era stata già notata e commentata nel corso dell’ultima decade da una lunga serie di spedizioni, con finalità più o meno d’approfondimento ai fini della scienza archeologica e paleontologica. Ma sarebbe stato solamente lo scorso gennaio, il nutrito team guidato da Matthew Stewart ed altri ricercatori di diverse università europee, arabe e statunitensi, a scegliere d’analizzare la questione da un’angolazione del tutto nuova. Quella della scienza poco nota della tafonomia, che poi sarebbe lo studio dei resti fossili, i processi di diagenesi e le vecchie ossa abbandonate al loro destino. Verso l’acquisizione di una ricca serie di dati statistici, utili a comprendere nello specifico la storia pregressa dell’interessante tunnel lavico, capace di costituire con il suo chilometro e mezzo di lunghezza la singola caverna più estesa dell’intero contesto arabico peninsulare. In un’ampia serie di escursioni, già le prime delle quali sufficienti a confermare l’unico agente accumulatore possibile della succitata specie carnivora, il gruppo di scienziati si è quindi preoccupato di prelevare un totale di 1.917 ossa dalle oscure profondità, appartenenti secondo una stima ad almeno 40 specie animali differenti (incluso per l’appunto l’essere umano). Le immediate analisi effettuate mediante l’utilizzo del radiocarbonio hanno perciò permesso di datare le più antiche di esse ad un periodo risalente a circa 7.000 anni fa, permettendo la fondamentale comprensione di tutto ciò che si stava tentando di riconciliare alle familiari propaggini del raziocinio. Ovvero in brevi termini, nient’altro che l’unica tana possibile tra molte miglia di deserto, per innumerevoli generazioni dello stesso predatore, in un’area alquanto ricca di cacciagione e smarriti cadaveri da trasformare in utili risorse. Così il regno delle iene si è rafforzato attraverso le plurime generazioni, mentre un numero sempre più elevato di sudditi continuavano ad aggiungersi sotto la volta di quel palazzo. E il sempre più svettante “tesoro” al centro dell’intera faccenda, la camera col cumulo di ossa ormai sbiancate dal tempo.
Le ossa scarnificate in fin dei conti non costituiscono altro che una sorta di dispensa dal punto di vista della iena, che se possibile preferisce nutrirsi di carcasse ancora in stato di decomposizione o prede uccise da lei stessa, ogni qualvolta se ne presentasse l’opportunità. Pur essendo lieta di sfruttare la potenza della sua potenza mandibolare, capace di recidere con facilità legamenti, cartilagine e segmenti d’articolazione, una volta che la carne possa giungere a scarseggiare. Sebbene anch’essa abbia dei limiti, preferendo non consumare ad esempio la sommità dei crani, semplicemente troppo resistente per un piccolo guadagno di calorie, in aggiunta a una tradizionale ed inspiegabile avversione nei confronti della carne di avvoltoio. Forse perché uno spazzino, tra tutti, risulta perfettamente in grado di riconoscerne un altro?
Procedendo nell’analisi del loro macabro raccolto, gli scienziati per lo più facenti parte del Max Planck Institute e la King Saud University hanno quindi catalogato il tipo di segni e marchi presenti sulle ossa scarnificate dalle iene, rimasti per lo più immutati grazie alla protezione offerta dalla caverna nei confronti degli agenti atmosferici e gli altri elementi d’erosione. Il che ha permesso di classificare l’età media degli animali catturati in base alle specie, rilevando una ripartizione coerente alle teorie raccolte fino a quel momento. Con una prevalenza di cavalli e cammelli giovani, incapaci di fuggire tra le dune, e capre ed antilopi anziane, prive dell’agilità necessaria a rifugiarsi sulle più remote alture. La stessa frammentazione delle ossa, con segni obliqui, curvi e trasversali, ha permesso nel frattempo di riconfermare l’opera pregressa di un grande carnivoro, escludendo definitivamente che la grotta potesse costituire il sito ancestrale di un qualche tipo di rito o sacrificio religioso. Ciononostante, le ricerche archeologiche continuano tutt’ora, nella speranza di trovare un possibile segno pregresso di civilizzazione. Il che potrebbe arricchire ulteriormente, se possibile, la storia pregressa di questa affollata caverna lavica nella regione di Hejaz.
In una funzionale apologia dell’intero studio, la trattazione pubblicata solamente questo agosto sulla rivista Archaeological and Anthropological Sciences, il team di scienziati elenca quindi le molteplici nozioni che si può riuscire a trarre dall’applicazione della tafonomia. Dalla precisa cognizione dei sistemi ecologici pregressi al sentiero evolutivo delle specie, coadiuvato da fattori ambientali che appartengono esclusivamente a ciascuna regione. Per non parlare di una privilegiata via d’accesso, nei confronti di quel mondo misterioso che è la “vita” dopo l’esistenza in Terra, confrontandosi direttamente con uno dei nostri più atavici timori.
Poiché molti possono parlare con le parti maggiormente indeperebili delle nostre forme mortali (“Essere, non essere…”) Ma soltanto alcuni, preparati con l’applicazione di percorsi di studio lunghi ed approfonditi, riceveranno da esse un qualche tipo risposta. E c’è molta saggezza, pregressa e inconoscibile, nell’indifferente cumulo di queste vecchie ossa….