Bestie mitologiche e ardui viaggi fino ai più remoti confini del mondo: se soltanto esistono due soggetti, in grado di evolversi parallelamente attraverso le narrazioni mitologiche dell’uomo, fino a diventare un tutt’uno inscindibile maggiore della somma delle sue due parti! Ciclopi ed unicorni, pesci e donne, arpie, equini e leoni con le ali di un rapace. Testa di una cosa e corpo di un’altra, coda di scorpione, occhi di brace senza nessun tipo di riposo. Creature tanto rare quanto ingombranti dinnanzi a noialtri, in forza di una loro tipica tendenza all’aggressività. Poiché non è possibile addestrare l’inusitato. A meno di accettarne le regole e l’aspetto come fosse un qualcosa di assolutamente normale. Come una capra di assolate valli presso l’accogliente Meridione, che parrebbe fuoriuscita a pieno titolo dalle illustrate pagine di un antico novero antologico di simili creature. Mostri soltanto di nome eppure mai di fatto, visto il posto di rilievo posseduto da questi animali nella storia e le vicende pregresse dell’intera isola siciliana.
Dotata di un candore splendido che può resistere alla pioggia e le intemperie del mondo, la capra cosiddetta girgentana (dall’originale nome della città di Agrigento o Akragas) rappresenta un valido problema nella classificazione già a partir dall’epoca della sua prima esistenza documentata. Poiché pur tradizionalmente associata, per probabile inferenza, alla più nota ed importante storia sulla nascita di Zeus, non viene oggi ritenuta tuttavia essersi aggirata tra i confini della Magna Grecia fino ad almeno 10 secoli più tardi, grazie all’interscambio commerciale con i popoli d’Oriente nel corso della sincretizzazione pan-europea nell’epoca tardo medievale. Questo a causa e come appare in modo chiaro per il suo possesso di un tratto genetico tra i più notevoli e stupefacenti: il grande paio di corna capace di raggiungere fino ai 70 cm nei maschi dominanti, dalla forma appiattita e arrotolata su se stessa alla maniera di un cavatappi, oppure la spirale del suo stesso acido desossiribonucleico, alias codice genetico o DNA. Permettendo di desumere, sebbene la certezza non sia qui certamente di casa, una potenziale discendenza dalla forma e l’aspetto preistorico della Capra prisca o bhukko, specie preistorica attestata nell’intera area indoeuropea con particolare numero di ritrovamenti in Austria e nella Galizia Orientale, per non parlare di almeno due statuette facenti parte del tesoro antichissimo della città mesopotamica di Ur. Almeno fino ad essere stata sostituita, per una maggiore facilità di gestione ed allevamento, dalla discendenza odierna della Capra aegagrus, originaria di Creta, Caucaso ed India. Per lasciare, nell’areale niente meno che cosmopolita di uno degli animali destinati a diventar domestici per eccellenza, un singolo territorio all’altro capo dei continenti, all’ombra di quell’alto tetto che costituisce la sommità più alta del pianeta stesso: l’Himalaya, il Tibet e le ampie lande pakistane, dove la chiamano in lingua urdu capra mārkhor, ovvero letteralmente “[dalle] corna che si avvitano su loro stesse.” Capra per lo più selvatica di dimensioni medie ed un colore tendente al marrone scuro, dalla muscolatura maggiormente sviluppata ma dotata degli stessi favolosi ornamenti cranici dell’odierna girgentana, riuscendo a confermare almeno in linea di principio un lungo e complesso viaggio di ritorno presso i luoghi d’origine sulle acque del più importante mare per le civiltà occidentali del Mondo Antico, si ritiene grazie a scambi commerciali condotti da popoli originari primariamente della penisola arabica e i più immediati dintorni. Permettendo in questo modo all’ornato sovrano caprino di tornare alla “sua” personale Itaca, dalle dimensioni certamente un po’ più vaste rispetto all’odisseica meta del più sfortunato degli eroi greci. Fino al punto di costituire il più notevole triangolo del suo intero contesto geografico, punto d’incontro d’innumerevoli ricchezze provenienti dai regni ed imperi più distanti. Affinché nessuno potesse mai più affermare, allora ed in futuro, che la capra girgentana fosse un degno ed esclusivo simbolo della Sicilia…
Oggi vagamente diabolica per le imponenti corna e la sua pregressa associazione con i culti pagani delle origini, questa capra possiede tuttavia una reputazione di mansuetudine che l’ha vista associata, forse in maniera retroattiva, al più amorevole di tutti gli animali presentato dalla narrazione mitologica dei greci. Nient’altro che la mitica Amaltea, capra o forse ninfa, che trovandosi dinnanzi il figlio in fuga della Madre Terra ed il suo consorte Dio del Tempo, quest’ultimo fermamente intenzionato a divorarlo come aveva fatto con i suoi predecessori, l’accolse come fosse un suo stesso figlio, per nutrirlo con il latte che l’avrebbe reso abbastanza forte da raggiungere l’età adulta. Permettendo in questo modo, dopo aver acquisito per diritto il ruolo di protettore degli uomini e padre di tutti gli Dei, al sommo Zeus di realizzare quella profezia che lo voleva uccisore dei suoi stessi genitori, assieme a tutti gli altri Titani, coloro che avevano ereditato l’Universo direttamente dal regno inconoscibile del Caos. Soltanto per essere ricompensata, come si confà a una bestia fedele fino all’ultimo, dalla trasformazione della sua pelle caprina in uno scudo impenetrabile noto come l’Egida, ed uno dei suoi corni nella leggendaria Cornucopia, corno in grado di emanare tutte le ricchezze e l’abbondanza disponibili entro i confini dell’Universo.
In una storia che potremmo ricondurre, almeno in parte, all’importante ruolo economico posseduto da questa particolare capra, che a partire dalle prime propaggini della modernità documentata sappiamo aver sostenuto l’esistenza di una particolare industria, quella per la produzione di un latte che potesse risultare più leggero e facilmente digeribile da parte dei membri più giovani ed anziani della popolazione locale. Trovandosi associata, in maniera particolarmente distintiva, alla prassi secondo cui l’allevatore guidasse parte del suo gregge direttamente nelle piazze e per le strade degli insediamenti cittadini, con la finalità di mungere le proprie capre direttamente innanzi ai compratori di quel fluido eccezionalmente nutritivo. Un’usanza destinata quindi perdersi con l’invenzione dei moderni processi chimici di processazione, conservazione e trattamento del latte vaccino, fino a relegare questa capra fantastica ad un ruolo progressivamente più marginale, dalle molte decine di migliaia di esemplari a poche centinaia appena. Così come l’avrebbe trovata l’Associazione Nazionale della Pastorizia attorno all’inizio degli anni ’50 del Novecento, come la più rara, ed a rischio, delle otto varietà autoctone di capra italiana, per di più associata a non pochi problemi dal punto di vista dell’allevamento, richiedendo cura particolare per la crescita corretta delle proprie corna. Ma non tutto era destinato ad andare perduto e come spesso capita, un’insperata scintilla di opportuna speranza sarebbe giunta dall’opera di un altro viaggiatore omerico di ritorno, l’ex emigrante, ex impiegato metalmeccanico Giacomo Gatì. Oggi indicato nella stragrande maggioranza dei siti di settore come il principale ed eroico salvatore della capra girgentana, per l’iniziativa intrapresa al suo ritorno nella natìa Sicilia nel 1980 dopo gli oltre 10 anni trascorsi in Germania lavorando per l’industria automobilistica, con il fine dichiarato d’intraprendere una difficile carriera imprenditoriale nel campo allora del tutto nuovo dell’agricoltura ed allevamento del tipo biologico. Responsabile, sostenibile, priva di sostanze adulteranti o moderne alterazioni dell’ordine naturale delle cose, il che l’avrebbe condotto, senza eccessive divagazioni, alla ricerca e il tentativo di recupero di uno degli animali maggiormente antichi e rappresentativi di queste terre. Incontrando non pochi ostacoli fino alla concezione, assieme alla moglie Nina, di un’eccezionale idea: il recupero e la promozione, su scala più che nazionale, di un particolare tipo di formaggio caprino, le cui qualità venivano narrate già all’interno della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, testo enciclopedico risalente al primo secolo dopo Cristo. Letterale tesoro gastronomico non più creato grazie all’azione coagulante del caglio di origine animale (tratto normalmente dagli stomaci degli agnelli) bensì un tipo alternativo d’ingredienti, tratti da essenze vegetali, ortaggi, verdura e pigne verdi. Da cui nacque, o forse sarebbe meglio dire avrebbe avuto modo di risorgere, un letterale florilegio di eccezionali ed esclusive opere d’arte casearie…
Creazioni straordinarie come il Ficu, il formaggio avvolto e creato con le foglie di quell’albero dal frutto eccezionalmente dolce; Cinniri, una forma creata grazie all’uso della cenere di mandorlo; Tumu, caprino stagionato nella marna calcarea, un tipo di roccia usata per la fabbricazione della calce. E come dimenticare la ‘Mbriaca, caciotta imbevuta del divino nettare del Nero d’Avola, vino originario della provincia di Siracusa? La cui stessa uva avrebbe inebriato le ancestrali genti e quei loro leggendari eroi, per le cui gesta e viaggi lungo i monti, valli e mari questa capra unica la mondo poté ritrovare l’unica possibile via di casa.
Ma chi può dire, veramente, quale tipo di pensieri si nascondano al di là degli occhi con quella fessura orizzontale, sotto la corona attorcigliata che pare ambire alle regioni dell’Empireo celeste. Con un occhio di riguardo nei confronti del cannibale “nonno” Chronos: poiché entrambe le corna della girgentana, per qualche ragione, crescono in senso orario. Mentre quello sinistro della markhor pakistana segue l’andamento inverso. E nessuno, a questo mondo, può affermare di conoscerne l’effettiva ragione!