Un interessante e piccolo veicolo si trova ormai da qualche tempo immobile tra le auree sale del museo dell’automobilismo di Gostyń, nell’omonimo distretto all’interno del Grande Voivodato della Polonia. Con la tipica carrozzeria a forma di sigaro delle vecchie automobili da corsa, ruote non troppo più grandi di quelle di una bicicletta e l’improbabile faro simile all’occhio singolo di Polifemo, esso rivela infatti tutto il suo reale fascino soltanto quando ci si riesce ad avvicinare a pochi metri di distanza. Poiché è allora che si riesce a comprendere la maniera in cui tale forma ragionevolmente familiare si trova realizzata, proprio come un mezzo di trasporto del cartoon dei Flintstones, con un tipo di sostanza particolarmente fuori dal contesto: la stessa che avremmo normalmente immaginato saldamente stretta tra le mani di un raccoglitore agricolo, mentre si occupa di far cadere giù le mele dagli alberi, mentre percorre in modo sistematico il suo frutteto!
Tra i più antichi approcci civilizzati alla creazione di manufatti, la realizzazione di cestini o recipienti costruiti di legno intrecciato alias “vimini” trova attestazioni fin dall’epoca dell’antico Egitto, avendo costituito attraverso i secoli la reiterata conferma dell’ingegno di chi sa come riuscire a mettere a frutto le cose naturali. Ingegnoso materiale, economico, versatile, capace di costituire un caposaldo per l’intero estendersi del mondo antico (oggetti di quel tipo furono trovati, perfettamente intatti, in mezzo alle rovine cristallizzate della città di Pompei) esso raggiunse forse il suo più inaspettato utilizzo nella creazione dei caratteristici scudi usati dall’impero Achemenide, capaci di arrestare più d’un colpo vibrato di taglio da parte delle affilate lame costruite in Occidente. Verso l’affermazione di quel tipo di solidità che sarebbe stato in grado di portarlo di nuovo al centro del palcoscenico della storia verso l’inizio del XIX secolo, quando l’Inghilterra Vittoriana diventò il più celebre importatore dei fini rametti o simili viticci, abilmente utilizzati al fine di costituire un’ampia varietà di mobili a partire dalle foglie di palma usate come zavorra delle navi di ritorno dall’Asia, tra cui sedie, letti e tavoli di considerevole pregio. Ma il paese maggiormente destinato, nell’intero secolo successivo, a trovarsi maggiormente caratterizzato da una simile corrente manifatturiera sarebbe stato proprio la Polonia, soprattutto nella regione dell’entroterra nei dintorni di Rudnik-on-San, dove grazie all’intraprendenza del conte austriaco Ferdinand Hompesch, un gruppo di persone fu inviato a Vienna attorno al 1870, con l’esplicita missione d’imparare ogni segreto possibile nell’intreccio di tali fibre, dando l’inizio a una fiorente industria capace di fornire l’impiego a circa 10.000 persone tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tanto che ancora oggi, il numero pro-capite d’industrie nazionali dedicate a questo specifico tipo di produzione risulta di gran lunga il maggiore d’Europa, ed uno dei più significativi al mondo. Ciò detto, persino in questi luoghi, soluzioni come queste sono sempre sembrate notevolmente rare; dopo tutto, chi potrebbe immaginare, in linea di principio, un materiale più inadatto alla creazione di un’automobile di tipo convenzionale? Relativamente fragile in caso d’urti, resistente alle intemperie ma soltanto entro determinati parametri e soprattutto, drammaticamente infiammabile nel caso in cui qualcosa dovesse andare per il verso sbagliato, il vimini risulta sotto numerosi punti di vista sensibilmente inferiore anche al più mondano approccio metallurgico degli albori. Fatta eccezione per un aspetto specifico: il peso. Ed il contesto prototipico che ne consegue: ogni declinazione di un qualsiasi sport motoristico in cui contino il ritmo, l’accelerazione e la guidabilità in curva. Soprattutto nel caso di vetture come questa, non molto più lunga di 2,7 metri e dotata di appena 10 cavalli di potenza, per cui ogni Kg risparmiato poteva essere immediatamente tradotto nei chilometri raggiungibili entro il termine di una singola ora. Per la prevedibile intuizione di un originale costruttore ignoto ad Internet, sebbene la didascalia fornita dal museo non mostri alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una fedele ricostruzione di una macchina effettivamente costruita ai tempi, con la probabile finalità di partecipare a una o più gare sul territorio europeo. Così come già fatto in precedenza dalla piattaforma di partenza di un simile bolide elaborato, la Hanomag 2/10 PS dell’omonimo produttore tedesco (sede presso la città di Hannover) che aveva costituito, a partire dal 1925 della sua introduzione commerciale, la prima auto nazionalpopolare del Centro Europa. Ovvero in altri termini, l’approssimazione locale dell’avveniristica Ford Model T statunitense, il cui ruolo sociale poteva essere riassunto nell’accattivante slogan commerciale “Un chilo di lamiera, un chilo di vernice. E l’Hanomag è pronta a partire…”
Soprannominata Kommissbrot per la sua forma squadrata idealmente riconducibile a quella di una fetta di pane in cassetta del tipo normalmente usato nell’esercito, questa vettura decisamente avanti coi tempi fu il frutto di una collaborazione tra i due rinomati designer d’autoveicoli Karl Pollich e Fidelis Böhler, assunti dalla Hanomag al termine della grande guerra proprio con il fine di riuscire a diversificare l’offerta, di questa compagnia che aveva fatto la sua fortuna fino a quel momento con la produzione di locomotive ed armamenti. L’idea fu quindi fin da subito particolarmente atipica, per non dire addirittura rivoluzionaria: proporre alla popolazione un nuovo tipo di veicolo a due posti con motore a singolo cilindro raffreddato ad acqua, della capienza di 500 cc installato trasversalmente poco innanzi all’asse posteriore, dotata di numerose altre soluzioni industriali finalizzate a ridurne i costi di produzione. Fino all’ottenimento della sua qualità più importante: un prezzo, relativamente accessibile per l’epoca, di 2.800 marchi. La vettura risultante, inizialmente presa in giro per il suo aspetto inusuale da quella stessa classe media a cui era stata destinata, riuscì non di meno a guadagnarsi gradualmente una nutrita clientela, giungendo alla quantità finale d’esemplari prodotti superiore ai 15.000, comunque non sufficienti a costituire un profitto per la compagnia. Benché almeno un particolare aspetto della sua concezione fosse destinato a lasciare un segno indelebile nella storia dell’automobilismo: la forma monoblocco della sua carrozzeria, per la prima volta priva di parafanghi separati e predellini al fine di risparmiare spazio per i suoi utilizzatori, costituendo nei fatti il primo esempio di corpo a pontoon, la soluzione ingegneristica alla base di ogni singola automobile dei nostri giorni. Arretrato risultava essere invece il comparto meccanico, con ruote posteriori prive del differenziale e per questo poco inclini a seguire l’auto in curva, mentre le sospensioni erano costituite da balestre sovrapposte e semplici assi sospesi con tiranti elicoidali. L’auto, inoltre, aveva un solo sportello sul lato del guidatore. Il che non avrebbe impedito in alcun modo a queste vetture di gareggiare nel 1927 sulla pista del Nürburgring, nella classe inferiore ai 750 di cilindrata, con un tempo del singolo pilota in grado di completare i 12 giri pari a 5 ore, 36 minuti e 19 secondi, pari a una velocità media di 60,8 Km/h. Si ritiene tuttavia che simili allestimenti veicolari, sostanzialmente privi di carrozzeria fatta eccezione per un cuneo frontale atto a migliorare l’aerodinamica, potessero raggiungere e superare agevolmente i 90 Km/h.
Largamente non acclarato, d’altra parte, resta il comparto prestazionale della legnosa e ricostruita versione polacca, la cui storia sportiva risulta essere altrettanto ignota. La capacità del vimini di fendere l’aria sembrerebbe essere del resto piuttosto dubbia, viste le intercapedini formate negli incroci dei rametti sovrapposti, per quanto consumata potesse essere l’abilità dei suoi creatori originali. C’è tuttavia da sottolineare come la forma stessa della macchina sembri maggiormente consapevole delle effettive dinamiche di un fluido, l’aria, il cui ruolo nella guida veicolare appariva ancora scarsamente comprensibile verso la metà degli anni ’20. E non è perciò improbabile ipotizzare una prima concezione della sua forma risalente alla decade, o persino il ventennio successivo, come possibile esperimento di un appassionato possidente piuttosto che l’effettivo strumento di una squadra corse nazionale. Individuabile tra i pochi fortunati che, attraverso quegli anni turbolenti, riuscirono a mantenere il possesso della propria piccola auto Hanomag, destinata forse un giorno a diventare un vero e proprio pezzo da collezione.
Le alterne fortune della compagnia di Hannover avrebbero perciò continuato a mantenerla in affari con considerevole profitto, almeno fino al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, durante la quale si era riuscita a confermare come uno dei poli dell’industria incaricati della costruzione di trasporti truppe cingolati (il riconoscibile Sd.Kfz. 251) e i cacciacarri della serie Jagdpanzer. Ciononostante, i suoi interessi nel campo del trasporto automobilistico civile a quel punto erano già piuttosto limitati dopo il picco dei primi anni ’30, quando era riuscita a controllare il 18% del mercato dietro ad Opel. Perdendo in seguito terreno rispetto agli altri grandi marchi tedeschi, la Hanomag iniziò a perdere pezzi durante il corso degli anni ’60, quando la divisione camion venne acquistata dalla Daimler-Benz, mentre iniziava il processo che avrebbe portato, venti anni dopo, la giapponese Komatsu a controllare totalmente le sue produzioni nel campo delle macchine agricole. Soltanto nel 1980, quindi, quello che restava finì sotto il controllo dell’industriale Horst-Dieter Esch, che nel giro di quattro anni dichiarò fallimento, chiudendola insieme al resto del suo intero gruppo d’aziende, la IBH-Holding. E questa fu la fine di quel marchio che ancor prima di Volkswagen, aveva saputo dare forma al concetto di “automobile del popolo” arrivando in anticipo, purtroppo, alla stessa cognizione collettiva nei confronti di una simile opportunità veicolare. Lasciando l’opportunità a qualcuno, oltre i confini di Polonia, di raccogliere la torcia (ehm… Si fa per dire) e rendere una tale meraviglia della tecnica ancor più esteriormente accattivante. E veloce quanto la crescita di quei vitigni. Che tante volte avevano mostrato l’unico sentiero percorribile, per chi avesse tutta l’intenzione di raccogliere qualche dozzina di pere o mele.