L’isola di pietre dov’è stata disegnata l’impronta digitale del mondo

Giganti che abitavano codesto mare; oppure, se vogliamo essere precisi, dei veri e propri titani. Esseri i cui piedi misuravano l’ampiezza delle strade, ed i capelli sconfinavano tra le propaggini biancastre delle nubi. Per cui tempeste, o terremoti, altro non erano che timidi sussulti delle circostanze. Ed il cui approccio funzionale alla risoluzione dei problemi, consisteva solamente nell’avvicinarsi ad un qualcosa, e toccarlo. Qualche volta in modo filosofico, attraverso l’elaborazione della volontà. Certe altre, premendo a fondo per plasmare queste forme a propria guisa ed aspetto, imitando l’approssimazione esistenziale degli Dei. Altrimenti, come mai potremmo avvicinarsi a dare un senso a tutto questo? Con la forma di un’ellissoide vagamente somigliante a una patata, l’isola di Bagnevaz (o Bavljenac in lingua locale, o ancora per gli anglofoni Bagnevaz) si trova collocata ad ovest di Sebenico, nell’omonimo arcipelago presso i confini mediani dell’Adriatico croato. Appena 0,14 Km quadrati, circondati da una spiaggia sottile ed occupati da una vegetazione piuttosto rada e separata da una serie di barriere. Che non avrebbe invero alcuna caratteristica degna di nota, se non fosse per il piccolo “dettaglio” dei 1430 metri di muri a secco che ne circondano e percorrono l’entroterra, delimitando una grandissima serie d’ambienti, capaci di avvicinarsi esteriormente all’aspetto presumibile di un labirinto. Il che, aggiungendo all’equazione l’effettivo aspetto dell’intero paesaggio visto dall’alto, finisce per ricordare a sua volta l’aspetto di un’impronta digitale dalle proporzioni niente meno che monumentali. La cui presenza, tralasciando transitorie ipotesi di tipo folkloristico, avrebbe potuto sconcertare particolarmente gli scienziati alla ricerca di antiche civiltà o studiosi degli eventi fuori dal contesto, se non fosse stato per l’apprezzabile dislocazione nell’intero territorio di un’ampia serie di luoghi similari, sebbene dalla forma meno suggestiva d’ipotetiche presenze spropositate. Trattasi, nello specifico, di esempi del cosiddetto dalmatinski suhozid o “muro a secco dalmata” importante linea guida architettonica funzionale alla delimitazione, protezione e consolidamento dei terreni agricoli, talvolta capace di prendere la forma di veri e propri terrazzamenti, utili a massimizzare l’area coltivabile di un paese non sempre fertile in maniera sufficiente a favorire gli interessi dei suoi abitanti. Ma che in casi come questo, letteralmente privi di un’elevazione al di sopra di pochi metri dal livello del mare, finisce piuttosto per assumere la funzionalità di una barriera nei confronti del vento, oltre all’unico sistema attraverso cui la letterale copertura di pietre che caratterizzano il paesaggio può essere impiegata con un fine utile, conseguente dall’appropriato accumulo poco prima di sotterrare i semi delle proprie piante.
Chi ha costruito Bagnevaz, dunque, e perché? La risposta breve è che nonostante la memoria storica dei locali appaia avere delle idee piuttosto chiare in merito, l’informazione non parrebbe aver trovato una casa sicura su Internet, dove il “mistero inspiegabile” e “l’eccezionale aspetto” dell’antico territorio agricolo croato parrebbero aver sovrascritto nel tempo ogni approccio razionale all’intera faccenda. Raccogliere e confrontare le fonti, oltre all’uso della logica in merito alla vicenda umana di questa regione, può permettere il parziale accesso ad un sentiero esplicativo piuttosto valido. Quello che vedrebbe la piccola terra emersa come uno spazio di sostentamento per le molte comunità costiere nate in bilico tra il XIX e il XX secolo, quando il dominio e la tassazione dell’Impero Ottomano, ancor prima dello scoppio della prima guerra mondiale, aveva spinto molti abitanti dell’entroterra a trasferirsi in località il più possibile remote. Praticando in questo sito specifico, a quanto sembra, la coltivazione particolarmente redditizia della vite vinicola, in un periodo durante il quale varie pandemie agricole avevano creato un vuoto nel vasto mercato enogastronomico dell’Impero Austro-Ungarico al di là dello stretto mare. Almeno finché qualcosa d’inaspettato e imprevedibile, ancor peggiore di qualsiasi guerra, non avrebbe finito per costare molto caro ai possessori di questi campi. L’arrivo, sulle disabitate coste, dei conigli…

Così poco chiara nell’aspetto e la funzione, da poter assomigliare allo stereotipo concettuale dell’isola cretese dove Arianna ebbe ragione di srotolare il suo aureo filo. E manca solo il Minotauro, benché un altro tipo di bestie, non meno terribili, si aggirino tra queste vecchie pietre silenti…

Con una distanza di appena 1,2 Km dalla più vicina isola di Capri (Kaprijski) la piccola terra emersa di Bagnevaz deve aver costituito un’importante risorsa economica per l’intera società dell’arcipelago, amministrata assai probabilmente in maniera cooperativa da una serie di famiglie ben distinte tra di loro, come evidenziato e reso possibile proprio dalla fitta rete di muraglie edificate ai margini di ciascuno spazio coltivato. La cui effettiva presenza, nei fatti pratici, è in realtà la mera risultanza del bisogno innegabile di fare “qualcosa” con queste pietre, piuttosto che limitarsi semplicemente a gettarle in mare, o impresa ancor più improbabile, trasportarle altrove mediante l’impiego di un qualche tipo d’imbarcazione. Facendo affidamento sulla già citata antica tecnica del muro a secco, ereditata da queste popolazioni almeno fin dall’epoca dell’alto medioevo, consistente essenzialmente nell’accatastare semplicemente e il materiale, un sasso sopra l’altro, in una maniera utile ad assicurare la stabilità nelle decadi, o addirittura lunghi secoli a venire. Nessun cemento, zero calce, soltanto l’ingegno frutto dell’esperienza pregressa e l’abilità creativa nel trovare un qualche tipo di soluzione: questo il concetto che traspare da una metodologia iscritta all’elenco dei patrimoni intangibili dell’umanità dell’UNESCO fin dal 2016, così come si sta lavorando da quell’epoca per porre sotto la tutela del prestigioso ente internazionale anche l’isola stessa di Bagnevaz. Che non costituisce, importante sottolinearlo, un caso totalmente unico rientrando piuttosto in una valida sotto-categoria dei dalmatinski suhozid, il cui aspetto può essere ammirato anche presso le isole di Kaprije e di Kakan, oltre ad alcuni piccoli siti dell’area di Senj-Jablanac. Ed in maniera maggiormente operativa, intesa come la continuazione dei vecchi metodi, presso il villaggio costiero un tempo abbandonato di Dragodid, nella contea di Spalato-Dalmazia. Diventato, coerentemente all’opera e l’impegno dell’ex-pilota d’aerei Andrija Suić a partire dal 2002, l’informale sito della Scuola Internazionale di Architettura – specializzazione muri a secco. Ovvero il punto di ritrovo annuale di un gruppo di volontari (o semplici volenterosi) collettivamente inclini a ricostruire l’antico e serpeggiante labirinto di pietre accatastate, così come per tanti anni avevano saputo fare i loro antenati agricoltori. Così come raccontava nel 2009 sul portale dell’operazione, il cui iniziatore è purtroppo ormai defunto, l’architetto croato Branko Orbanić, riferendosi alle specifiche tecniche richieste da questo particolare approccio all’edilizia: “Essenziale, nella costruzione di muri a secco, è non scartare mai nessuna delle pietre che raccogli. Poiché ciascuna può trovare il posto nella costruzione che stai ponendo in opera, sebbene qualche volta possa risultare necessario allontanarsi dall’idea di partenza. Mentre se rimetti qualche cosa dove l’hai trovato, lavorerai all’infinito…”
Da un punto di vista prettamente moderno, dunque, il muro a secco sembrerebbe aver perso la sua funzione originale, a discapito di più versatili modifiche apportabili al paesaggio mediante l’impiego di materiali come il cemento. Ciò detto, esiste un movimento in Croazia per la riscoperta di questo approccio e particolarmente la sua integrazione in strutture di tipo contemporaneo, mediante l’impiego del sistema delle cosiddette lastre mediterranee. Componenti lavorati a macchina, più facili da impilare, il cui impiego secondo idonee metodologie può favorire la circolazione dell’aria e conseguentemente il risparmio energetico all’interno della struttura. Senza considerare il vantaggio quasi collaterale di uno spazio vivibile quasi del tutto privo di un’impronta indelebile sul territorio, risultando sempre possibile, al termine del suo ciclo d’utilizzo, rimuovere e disperdere di nuovo i suoi sassi costituenti nell’ambiente. Affinché la crescita della vegetazione, attraverso le generazioni future, si occupi tranquillamente di fare il resto.

Lo stesso concetto prototipico del suhozid, o muro a secco, è niente meno che fondamentale per l’architettura arcaica e medievale della Croazia. Con effetti estremamente duraturi e facili da notare, dislocati per l’intero territorio di quelle coste al di là del mare.

Se soltanto Bagnevaz non fosse stata colpita in un momento imprecisato di circa un secolo fa dalla più temuta piaga animale degli agricoltori, con i denti aguzzi, le orecchie lunghe e la coda a forma di pom-pom (cuniculare piaga di un malcapitato frangente) non sarebbe poi così improbabile trovare l’isola tutt’ora coltivata nella maniera delle sue incerte origini, come fecero coloro che per tanto tempo ne avevano percorso l’ingombra ed arzigogolata superficie muraria. Anche in forza dell’auspicabile presenza, come scoperto “accidentalmente” dal conduttore del programma Tv statunitense da cui è tratto il video di apertura, di uno o più pozzi d’acqua dolce tra i suoi limitati confini, definendo il singolo merito più importante di un solitario vigneto in mezzo alle acque salmastre di un vasto e rumoroso mare. Così come quello delle ipotesi più strane ed avventate, che tanto spesso tendono ad accumularsi presso i confini dello scibile acclarato su Internet, oltre la barriera permeabile tra conoscenza e fantasia.

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