Ne parla brevemente una pubblicazione interna al programma Airbus, con il titolo encomiabile di Safety First: la Sicurezza prima di ogni Cosa. Della maniera in cui, svariate volte nel corso degli ultimi anni, si è verificato un tipo particolarmente disdicevole d’imprevisto. Quello delle brutte esperienze vissuta da svariate/i sfortunate/i assistente di volo, successivamente al semplice gesto di aver portato qualcosa da bere ai suoi piloti durante il lungo periodo di attesa antecedente al decollo, porgendo il suo vassoio all’interno degli angusti spazi della cabina di pilotaggio, o cockpit che dir si voglia. Un termine tecnico la cui etimologia può esser fatta risalire alla stazione del cockswain, l’addetto alle scattanti lance che nell’epoca dei grandi velieri avevano l’incarico di trasportare i membri dell’equipaggio fino a riva. Oppure, in alternativa e in modo ancor più letterale, il “pozzo” dei galli, dove tali uccelli combattevano per il pubblico ludibrio verso la fine del XVI secolo, in uno spazio dove successivamente si sarebbero riuniti i membri del concilio ristretto londinese, a capo del maggior impero coloniale di tutti i tempi. Soltanto che in quest’epoca moderna, assai probabilmente, nessuno avrebbe mai pensato di poter interpretare il termine in senso così letterale. Per cui un tale responsabile d’assistenza e vettovaglie, facendo un passo indietro, sarebbe stato destinato a trovare soltanto un profondo baratro al posto di un punto d’appoggio per il suo piede. Subendo, in conseguenza di una tale svista, varie tipologie e livelli d’infortunio. “Per ritrovarsi, in una percentuale rilevante dei casi, del tutto incapace di assolvere al suo dovere.” Prosegue quindi il documento, con un oggettivo pragmatismo in se stesso giustificato dai considerevoli investimenti che determinano il ritmo ed il respiro dei trasporti aerei. Per poi prodigarsi nella proposta, con tanto di foto illustrativa, di una sorta di segnale pieghevole incorporato nel quadrato della botola, da sollevare ogni volta (non è chiaro se si tratti di un processo automatico) in cui tale passaggio viene lasciato aperto da un tecnico, nel momento di frenetica attività durante il quale nessuno, in buona sostanza, può preoccuparsi di gridare “Attenti a dove mettete i piedi” per ciascuna singola persona che dovesse avvicinarsi al sancta-sanctorum dell’aereo. Non è perciò del tutto chiaro, quanto effettivamente tale orpello sia oggi parte inscindibile del repertorio di un moderno velivolo della maggiore compagnia aerospaziale europea. Benché possiamo almeno affermare di conoscere, grazie all’utile e qui presente video del pilota svedese Bjorn (alias: bjorntofly) l’effettivo scopo di un simile ostacolo potenziale alla viabilità interna dei membri dell’equipaggio. Una funzionalità niente meno che primaria…
“Seguitemi all’interno” afferma l’uomo, armato di telecamera ad alta definizione con obiettivo a 360 gradi “Mentre vado là sotto per la prima volta” Così sgancia il meccanismo di chiusura, apre la copertura in plastica corrugata e inizia a scendere, con la massima cautela, dentro le viscere del grande bimotore. Un ingegnere dell’Airbus costruisce l’ambiziosa metafora, in un altro video sull’argomento, secondo cui il cockpit altro non sarebbe che la punta di un iceberg, laddove l’opera continuativa nel tempo di un’intera schiera d’ingegneri e progettisti, attraverso anni di lavoro, costituisce il “corpo” sommerso di un così pesante oggetto in grado di solcare a una considerevole frazione della velocità del suono gli strati mediani dell’atmosfera terrestre. Corpo la cui effettiva natura, adesso, non può fare a meno di apparirci un po’ più chiara; mentre Bjorn, abbassando di qualche decibel il suo tono di voce (ma non troppi, altrimenti non riusciremmo a sentirlo) inizia a descrivere quanto si trova attorno a lui. Dapprima strisciando, mentre s’allontana dalla parte frontale dell’aereo, dove lo spazio di un tale “sotterraneo” risulta sensibilmente ristretto causa l’ingombrante presenza della ruota sterzante, per poi potersi finalmente porre in posizione verticale, iniziando ad inquadrare, uno per uno, gli strani macchinari che riempiono un così misterioso ambiente. Scatole nere simili a batterie (ed alcune di esse, sono in effetti delle batterie) su una fila di scaffali metallici, concettualmente non dissimili dalle comuni rastrelliere di una sala server o moderno datacenter di una grande impresa informatica. Ed in effetti, anche nella sostanza, del tutto paragonabili, vista la loro collocazione entro quello che viene comunemente definito il compartimento dell’avionica, o in lingua inglese avionics bay. Computer su computer, con un alto grado di ridondanza, incaricati rispettivamente di processare diversi aspetti dei dati continuamente raccolti dai sensori dell’aeromobile, piuttosto che elaborare il posizionamento satellitare a vantaggio degli strumenti di navigazione….
Avionica è un termine coniato nel 1949 da Philip J. Klass, l’allora editore della rivista americana Aviation Week & Space Technology, dall’unione delle parole “aviazione” ed “elettronica”, per riferirsi alle due nuove colonne di un simile mondo dei trasporti: la comunicazione radio ed il radar. Rispettivamente andate incontro, nel corso della seconda guerra mondiale, ad un sensibile miglioramento d’efficienza e l’effettiva scoperta del tutto accidentale, dando inizio a un’ondata di cambiamento che in un certo senso continua tutt’ora. Naturalmente col trascorrere degli anni, la dotazione giudicata opportuna (per non dire totalmente indispensabile) all’interno di una macchina volante sarebbe aumentata in modo esponenziale. Fino a raggiungere, soprattutto nel caso degli apparecchi più grandi incaricati di trasportare svariate centinaia di passeggeri, un’imponenza e complessità tale da richiedere uno spazio apposito, all’interno del quale trovare una collocazione ben ventilata e facile da ispezionare regolarmente.
Ecco dunque l’origine ed il senso di una tale botola, benché in origine l’ambiente sottostante ad essa fosse ancor più buio, angusto e scomodo da visitare, mentre si aspettava di poterlo adattare a misura d’uomo con la progressiva crescita di dimensione di questi aerei. Una volta addentratosi nel dungeon, il pilota Bjorn inizia a descriverne le caratteristiche, senza scendere eccessivamente nei dettagli per ovvie ragioni di sicurezza. Soprattutto, si prodiga nello specificare, perché i piloti non hanno in realtà alcuna mansione che possa portarli dentro il compartimento prima o successivamente al decollo, tanto che quest’ultimo, pur essendo pressurizzato, risulta privo di maschere d’ossigeno nel caso in cui dovesse verificarsi un’emergenza. Casistica in funzione della quale, d’altronde, l’ambiente prevede anche una seconda porta a tenuta stagna in grado di condurre fino alla stiva dell’aereo, uno spazio che nei fatti risulta totalmente spalancato durante il corso del qui presente tour videografico, abbagliando il suo protagonista che capiamo quindi essere in attesa di veder caricati i bagagli assieme al resto dei passeggeri ed il suo collega in cabina. Potendo proprio perciò dedicare qualche minuto a questo secondo capitolo della sua serie online sull’effettivo aspetto delle viscere di un Airbus, assai probabilmente concordata coi datori di lavoro, in quanto visualmente pregevole, informativa e chiaramente utile a mettere l’ambiente di lavoro di un A350 in buona luce. Così come avvenuto nel precedente episodio, cui si richiamano anche i primi attimi del seguito, dedicati al CRC o Crew Rest Compartment, uno spazio simile a una cuccetta previsto negli aerei più grandi, affinché gli assistenti di volo, oppure in casi particolari uno dei piloti stessi, possano andare a prendersi qualche minuto di riposo, prima di riprendere all’adempimento delle loro fondamentali mansioni durante le lunghe ore di volo.
Conclude il video di Bjorn, una ripresa panoramica della cabina e la splendida vista durante il tragitto, con l’opportunità di ammirare la pratica sistemazione del vassoio ospitante il suo pasto di metà giornata, grazie al posizionamento dei controlli dell’Airbus a lato del sedile, contrariamente a quanto avviene negli aerei della Boeing con cloche frontale. Episodio al termine del quale, procede nel dimostrare brevemente il funzionamento di un touch screen di navigazione, passaggio in grado di suscitare il più alto numero di domande e quesiti nei commenti al video. Perché in effetti tende a lasciare niente meno che basiti, per chi è abituato a tenere in tasca un cellulare capace di generare al volo un rendering tridimensionale di Google Earth, la maniera in cui tale dispositivo connesso a un vero e proprio datacenter appare lento nel rispondere agli input, nonostante la semplice raffigurazione di una mappa schematica e bidimensionale. Una questione che può essere ricondotta, di nuovo, agli alti standard di cautela e ridondanza in uso sugli aerei di linea, che operano grazie a particolari sistemi operativi risalenti ad epoche informatiche trascorse, ma che garantiscono il più comprovato e sicuro livello di affidabilità operativa. Perché immediatezza ed estetica non possono che venire all’ultimo posto, quando si sta progettando un sistema incaricato di salvaguardare letteralmente la vita di centinaia, e in prospettiva molte migliaia di persone.
Tecnologia del più alto livello, benché risalga a qualche decade nel passato. Poiché non tutta l’evoluzione deve essere per forza una marcia che abbandona indietro limitazioni e considerazioni passate, laddove una soluzione iterativa, che ritorna più volte sugli stessi concetti e tenta il più possibile di renderli sicuri, può talvolta ottenere dei risultati maggiormente degni d’encomio. Un concetto che ricorre molto spesso nell’abito dell’aviazione, dove la creazione e certificazione di un nuovo approccio volante ai cieli può richiedere svariate decine d’anni, trovandosi per forza ad impiegare taluni approcci funzionali e tecnici che sembrano dei veri e propri reperti dell’archeologia informatica dei nostri giorni. Ed anche questo, alla fine, fa parte del concetto dell’avionica, così avanzata e eppure al tempo stesso, tanto apparentemente nostalgica nel suo tenore di funzionamento. Nient’altro che l’ennesimo paradosso, capace di permettere a una creatura priva di ali come l’uomo di solcar l’Empireo nebuloso delle circostanze. Accorciando gli spazi tra i diversi popoli, verso la creazione di una singola e indivisa società planetaria.