L’australiano sforzo decennale per tenere in vita l’albero più antico della Terra

Verso la metà del tardo periodo Giurassico, per essere specifici nell’era Kimmeridgiana (155-150 mya) un gruppo di pesanti stegosauri si aggirava nella parte centrale del Gondwanaland. Il vasto continente composto dalle masse di quelli che oggi costituiscono il Sud America, l’Africa, l’Antartico, l’Arabia, l’India e l’Australia, divenuto attraverso le ultime migliaia di stagioni un luogo torrido e piuttosto brullo, per l’essenziale innalzamento dell’intera temperatura terrestre. I grandi dinosauri erbivori dal dorso corazzato, grazie alla grande quantità di piastre ossee, avevano migrato per molte settimane, divorando progressivamente un certo numero di piccole macchie boschive. Scontrandosi a più riprese con famelici allosauri, ceratosauri e saurophaganax “addentatori di carne”, i membri più deboli del branco erano stati progressivamente eliminati, mentre i maschi dominanti e le loro consorti, vibrando poderosi colpi con i loro possenti thagomizer caudali, simili a mazze ricoperte d’aculei, avevano stoicamente accettato la nuova ragnatela di cicatrici e lesioni sull’intero estendersi dei loro possenti corpi. Ma ora, l’ultimo tramonto si stava progressivamente avvicinando sulla strada del loro destino: stanchi ed affamati, senza nessun tipo di risorsa, gli antichi guerrieri erano giunti al termine della loro corsa. A meno che… La matriarca del gruppo, accompagnata da un gruppo di cuccioli della grandezza approssimativa di un’automobile Smart, fermò improvvisamente la sua marcia; rivolgendo il collo taurino verso il placido lucore del tramonto, sollevò quindi lo sguardo verso il cielo, per lasciare scaturire un complesso verso modulato noi avremmo potuto associare al soffio di un drago di komodo. Ella aveva scorto, infatti, una lieve irregolarità nel paesaggio, come un’indentatura su un costone di roccia. In molti, tra gli esemplari che si trovavano più vicino, fecero ben presto lo stesso, mentre il sottile istinto ereditato nella lunga marcia dell’evoluzione permetteva al loro piccolo cervello, non più grande di quello di un cane (per un animale adulto dal peso di 4,5 tonnellate) di comprendere che cosa ciò potesse significare. Una sorta d’inumano senso di sollievo percorse in quei momenti l’intera carovana. Poiché gli stegosauri ben sapevano di aver trovato l’occasione vegetale di rifocillarsi: all’interno di una rarissima, quanto preziosa, Valle Perduta nella distesa senza fine del bush prossimo alla desertificazione.
I mutamenti climatici e geologici, per loro implicita natura, richiedono moltissime generazioni. E tendono a operare sulla base di una funzionale concatenazione tra causa ed effetto, incapace di coinvolgere ogni singolo elemento di un particolare contesto geografico. Così che sussistono casualità, particolarmente amate dai creatori di romanzi, in cui qualcosa di predestinato all’estinzione, per il cambiamento inarrestabile dello stato dei fatti, possa sopravvivere intonso attraverso le incalcolabili generazioni. Per riemergere, come se nulla fosse, all’altro lato della nebbia pluri-millenaria, come se niente fosse, sembrando chiedere all’indirizzo dell’uomo: “Allora, che cosa vogliamo fare adesso?” Una domanda che probabilmente avrà finito per rivolgere a se stesso David Noble in persona, la guardia forestale che accompagnata dai colleghi Michael Casteleyn e Tony Zimmerman, in un fatidico 10 settembre del 1994 giunse all’orlo precario di un profondo canyon nel parco naturale di Wollemi, sito ad appena 150 Km dalla fiorente metropoli di Sydney, capitale dello stato australiano del Nuovo Galles Meridionale. Fatidico perché, una volta calatosi oltre il baratro grazie all’impiego delle immancabili corde, gli spedizionieri finirono per ritrovarsi proprio in quello stesso paesaggio, ombroso ed accogliente, che tanto sollievo avrebbe potuto portare alla comunità migrante degli stegosauri. Un letterale bosco di conifere alte tra i 25 e i 40 metri, del tipo che i primi coloni di quel continente sarebbero stati fin troppo pronti a definire dei “pini”, sebbene Noble e compagni, dotati di una valida conoscenza di base della botanica scientifica moderna, non avrebbero tardato ad identificarli correttamente come appartenenti alla vasta famiglia delle Araucariaceae, oggi diffuse in circa 40 specie in America Meridionale, Sud-Est Asiatico ed Oceania. I quali, sebbene presentassero alcuni punti di somiglianza con le varietà botaniche arcinote dell’albero kauri (gen. Agathis) o il cosiddetto pino di Norfolk (gen. Araucaria) avevano anche alcuni tratti distintivi assolutamente degni di essere sottoposti all’attenzione di un vero esperto. Ivi incluse le foglie spiraleggianti, in una serie di distinte creste o puntali, con al termine dei rami due diverse tipi di pigne: oblunghe oppure con la forma di una sfera. E soprattutto, gli intriganti tronchi bitorzoluti, paragonabili alla superficie realizzata da qualcuno che avesse deciso, per qualche ragione, d’incollare l’intero contenuto di una scatola di Corn Flakes a un tubo di cartone verticale. Qualcosa di notevole, compresero perciò, aveva avuto l’occasione di presentarsi sotto i loro occhi…

Visto da lontano, il pino di Wollemi potrebbe quasi ricordare una palma, con i suoi rami orizzontali ricoperti da sottili foglie felciformi. Ma è soltanto con l’avvicinarsi progressivo, che iniziano a palesarsi le sottili differenze: come l’aspetto bitorzoluto del tronco e le pigne dalle forme stravaganti…

Che ancora in un’epoca a noi antecedente di appena un ventennio, sia possibile riscoprire un letterale fossile vivente a poco più di un tiro di scoppio da una delle maggiori città dell’emisfero meridionale, è un qualcosa che riesce a pieno titolo a sfidare l’immaginazione. Eppure tale realtà ben presto avrebbe avuto modo di concretizzarsi, una volta consegnate le foto ed i campioni raccolti presso il dipartimento di botanica dell’Università Nazionale Australiana, creando l’occasione per un team di stupefatti scienziati d’identificare tale macchia rimasta nascosta, all’interno di un prezioso micro-clima, per l’intero corso della storia umana. Che si rivelò essere composta, incredibilmente, di una particolare pianta i cui più recenti fossili, trovati in Tasmania, erano stati fatti risalire ad appena 2 milioni di anni fa. In breve tempo quindi, ogni nome temporaneamente associato a tale misteriosa pianta venne lasciato decadere, mentre il suo intero genere tassonomico veniva rinominato Wollemia (dal nome del parco in cui era stata trovata) e la specie, Nobilis. Un presumibile riferimento allo scopritore David Noble, che dopo le giustificate proteste degli altri membri della spedizione, fu chiaro riferirsi in realtà alla forma “nobile” di questi alberi, benché ogni dubbio residuo in merito, comprensibilmente, fosse destinato a restare abbastanza giustificato.
Ogni considerazione tassonomica sarebbe ben presto risultata tuttavia superflua, di fronte alla realtà, e l’urgenza di una simile situazione. Poiché questa specie che come Lazzaro era risorta, altrettanto facilmente avrebbe potuto scomparire di nuovo nell’irrilevanza sistematica dell’estinzione: sarebbe bastato un singolo incendio boschivo, l’infezione di un parassita, un qualsivoglia tipo di malattia botanica per sterminarla, anche vista l’assoluta uniformità genetica degli esemplari presenti all’interno della sacra valle del mistero. Una caratteristica riconducibile, secondo gli esperti, a una possibile rinascita della macchia da una quantità limitatissima di esemplari, dopo che erano stati quasi tutti sterminati da un comparabile evento pregresso lungo il corso della loro lunghissima storia. L’intera area, quindi, venne messa immediatamente in quarantena dal Dipartimento Forestale, avendo cura che la sua posizione precisa non potesse trapelare a vantaggio di curiosi o turisti, potenziali vettori di pericolose contaminazioni. In una serie di letterali missioni segrete, un numero limitatissimo di botanici ai massimi vertici del proprio settore cominciò a compiere dei regolari viaggi in elicottero fino alla valle perduta, chiarendo ulteriormente le caratteristiche di questo albero ormai del tutto fuori dal contesto. Pianta monoica, ovvero dotata di diramazioni sia maschili che femminili, come esemplificato dal già citato doppio aspetto delle “pigne” oblunghe o sferoidali, il pino di Wollemi si dimostrò inoltre avere una crescita estremamente lenta, e una durata della vita niente meno che impressionante alla datazione non invasiva degli esperti: tra i 500 e i 1.000 anni, per alcuni degli esemplari più longevi del boschetto. Entro il 2006, quindi, il progetto di propagazione e salvataggio era ormai pienamente avviato. Grazie ad una serie di esperimenti, tali da scoprire una notevole propensione della pianta a rinascere rigogliosa tramite la creazione di cedui (ricacci generati da diramazioni tagliate e piantate altrove) il pino venne fatto ricrescere in laboratorio fino alla scoperta di quanto, ragionevolmente, sarebbe stato assai lecito aspettarsi. Ovvero la realtà di un albero straordinariamente resistente, capace di adattarsi a un’ampia varietà di climi o situazioni di sussistenza. In quale altro modo esattamente, in caso contrario, esso avrebbe potuto attraversare intonso il lungo giro delle Ere?

Luoghi perduti in territori straordinariamente accessibili, se soltanto qualcuno avesse mai provato a notarli. È come il paradigma di un piccolo sassetto calpestato in mezzo alla strada, in realtà più antico della piramide di Cheope all’altro lato del Mare. Ma la somma della biomassa di un’intera specie di pianta, a differenza di quest’ultimo, può persino riuscire a rigenerarsi…

Molti sono stati i partecipanti, dapprima sull’intero territorio australiano, quindi nelle università di mezzo mondo, a questo stratificato e complesso fine progettuale, di veder attecchire l’antico albero in luoghi e latitudini così drammaticamente diverse dal suo originale territorio d’appartenenza. Al punto che potrebbe sorprendervi sapere che anche in Italia, al giorno d’oggi, ne esistono svariati esemplari presso i giardini botanici di Lucca, Pisa e Firenze, oltre ad uno liberamente accessibile non troppo lontano dall’ingresso del parco dei divertimenti Gardaland, nei dintorni dell’attrazione Sea Life Acquarium. Un importante punto di volta nella ricerca fu la scoperta dell’utilità di mettere i semi prelevati dalla pigna femmina fecondata dal polline per alcuni giorni in frigorifero, prima di procedere a piantarli nel terreno. Una modalità in realtà utilizzata per molte varietà vegetali, mirante a simulare il trascorrere di un’intera stagione invernale prima che possa emergere il primo germoglio, permettendo in tal senso una rara accelerazione dei tempi necessari perché nascano e crescano questi giganti dalla svettante chioma.
Menzione a parte in questa narrazione merita di certo la figura dell’amministratore forestale responsabile di questa parte del parco di Wollemi, Steve Cathcart, che all’inizio della drammatica stagione degli incendi del 2019, combatté in maniera personale ed eroica per allontanare le fiamme, dopo essere stato calato nella valle, dall’imboccatura dell’impareggiabile bosco segreto. Un gesto che gli sarebbe valso, pochi mesi dopo, il conferimento della Medaglia al Valore per il Servizio Pubblico (PSM) una delle principali onorificenze australiane. Continuando a prolungare quel filo ininterrotto, dalle più remote epoche preistoriche fino al giorno d’oggi, che avrebbe permesso a questi esseri viventi di continuare a procedere imperterriti lungo il tortuoso sentiero dell’esistenza. Con radici profonde e rami tanto alti da riuscire ad oscurare il cielo, restando imperterriti dinnanzi a qualsivoglia cambiamento. Persino quando, in un tempo ancora da determinare, tale campo azzurro venne attraversato dal pesante strale del meteorite che portava l’ultimo dei giorni. Ragnarok, la fine delle cose troppo vivide o imponenti. Altri esseri, come gli stegosauri, non sarebbero stati altrettanto fortunati!

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