Sorprendente busta delle meraviglie, semi-trasparente all’occorrenza, acquistata in un supermercato sulla base di un auspicio transitorio di nutrimento; tenera e croccante, saporita e salatissima, variegata selezione di frutta secca. Che in rapida sequenza fuoriesce dal contenitore, tra le agili dita: arachide, nocciola, mandorla, ananas disidratato e all’improvviso, un qualche cosa dalla forma stranamente suggestiva. Ricurvo e simile a una mezzaluna (c’è chi dice che ricordi in senso medicale, la forma organica di un rene umano) e dal sapore intensamente memorabile, tale da riassumere in se stesso il senso ultimo della parola “snack”. Anacardio oppure -cardo, che derivi, per tuo merito biologico encomiabile, da una storia naturale fortemente distintiva. Che ti vede nascere come altri doni della terra, al termine di un ramo pendulo da un albero dei tropici distanti. Ma non in via diretta, bensì come propaggine posizionata sull’estremità inferiore di uno strano frutto, simile a una tozza pera nella forma, ma il cui nome prende in prestito quello del tipico pomo paleartico dei frutteti nostrani. E in ogni caso, poco importa! Visto come dall’originale Sudamerica, al subcontinente d’adozione, tale concentrato di zuccheri e sapore abbia soltanto un unico, possibile destino: quello di essere gettato da una parte, una volta prelevato quel gustoso seme che vi cresce sopra, per il semplice fatto che o si lascia maturare il primo, oppure il secondo. E quest’ultimo in realtà chiamato un falso-frutto, tra l’altro, abbia una fragilità e durata di conservazione pari a pochi giorni se non ore, rendendone l’esportazione assai difficoltosa. Le organizzazioni di analisi agro-economica hanno perciò determinato come, nell’attuale clima commerciale, circa il 95% delle mele d’anacardio vadano semplicemente sprecate per l’assenza di una valida filiera di preparazione e trattamento. Mentre per quanto riguarda il rimanente 5%, potrebbe anche bastarvi sapere che c’è una storia, dietro. Una vicenda stranamente distintiva e che in effetti, dovrà pur valere qualche breve paragrafo di trattazione…
Tutto ebbe inizio, secondo la narrazione degli esperti praticanti, attorno alla metà del XVI secolo, quando i navigatori portoghesi giunti fino all’India portarono con se i semi di uno strano albero che i nativi dell’altra parte del mondo chiamavano in lingua Tupi acajù ovvero letteralmente “La noce che si produce da sola”. Un qualcosa di totalmente inusitato in questi lidi ma che trovò terreno fertile particolarmente nella parte meridionale del triangolo indiano e soprattutto nello stato costiero ed umido di Goa. I cui abitanti, rimasti colpiti fin da subito per il sapore della preziosa noce, iniziarono a porsi spontaneamente un’avveniristica domanda: e se il liquore tradizionalmente prodotto dalla linfa delle palme locali, chiamato in via generica feni o fenny, avesse iniziato ad essere prodotto anche dalla parte giudicata ingiustamente inutile della pianta d’anacardio? Quel peduncolo stranamente gonfio e nutriente, associato in senso lato al gusto tipico del mango e che taluni, fin da subito, avevano iniziato a spremere col fine di trarne un certo tipo di succo dal gusto piacevole e astringente, la cui durata di conservazione non era tuttavia molto più lunga di quella della mela stessa. Ecco dunque sopraggiungere, l’idea: di far fermentare, tale dolce sostanza, fino all’intervento di quel tipo di batteri che provvedono a creare l’alcol, quindi distillare il fluido risultante, una, due o tre volte, per l’ottenimento di un qualcosa che potesse non soltanto essere consumato per l’intero corso di stagioni, se non addirittura anni a venire. Ma anche, e soprattutto, concedesse la desiderabile via d’accesso al regno qualche volta ricercato dell’ubriacatura. Tutto ciò non prima di essere passati, s’intende, tramite una serie di passaggi stranamente codificati ed assai distintivi…
L’effettiva produzione del feny d’anacardio è un processo riccamente documentato su YouTube, l’ultima volta grazie al video prodotto sull’argomento dalla testata Business Insider, che recandosi in visita presso una delle innumerevoli famiglie che gestiscono la multiforme continuità di quest’industria dall’impianto strettamente locale e centralizzato presso lo stato indiano di Goa, ha mostrato il loro modus operandi con tutta la pedissequa attenzione di una puntata dello show tedesco “Come è fatto”. Previa accettazione, da parte dello spettatore, di alcune piccole ma significative differenze, come una percezione localmente assai diversa dei concetti stranamente soggettivi di “igiene” o “polluzione”. A partire dal primo imprescindibile passaggio della prima spremitura, effettuato con il vecchio e universale metodo del battito da parte di svariate coppie di piedi umani, però dotati per l’occasione di speciali stivaloni da miniera (così li chiama l’operatore) la cui suola estremamente rigida contribuisce grandemente all’efficacia di un tale stancante gesto. Peccato che le calzature in questione, prima di essere immerse nella moltitudine dei frutti, fossero state tranquillamente indossate sulla passerella polverosa che conduce al luogo della lavorazione. Il che riveste un ruolo di minore importanza rispetto a quanto si potrebbe credere istintivamente, quando si ha modo di apprezzare il modo in cui procede a questo punto la separazione del succo dall’involucro delle mele ormai compattate in un unico ammasso indiviso; che verrà perciò legato con corde ricavate da liane e messo sotto il peso di una serie di grosse pietre, al fine di emanare fino all’ultima goccia che ancora tenta di nascondersi al su interno. Dal che deriva l’importante distinzione tra il primo e secondo estratto, miscelati a discrezione del produttore al fine di calibrare il gusto del prodotto finale. Che risulta, a dire il vero, ancora ben lontano dall’essere ultimato, visto come a fronte di un breve ma importante periodo di fermentazione all’interno di appositi recipienti semi-sepolti nel terreno (tradizionalmente realizzati in terracotta e chiamati kodem) il liquido risultante verrà versato all’interno di un tradizionale alambicco molto spesso realizzato in rame, dal nome di bhann. Ed è qui che il codice operativo inizia a farsi alquanto nebuloso, con la particolare famiglia incontrata dalla testata occidentale che racconta di sigillare la suddetta pentola unicamente con un particolare tipo d’argilla proveniente dai vicini termitai, possibilmente abbandonati dagli insetti e per questo diventati la residenza di una certa tipologia non meglio definita di serpenti. Non è del tutto chiaro come ciò riesca a contribuire alla qualità finale del liquore di anacardio. Che tuttavia potrà essere trasportato allo stato gassoso, e successivamente riportato nuovamente a quello liquido grazie a un’apposita tubazione raffreddata ad acqua, per un totale di fino a tre volte, ciascuna utile a concentrare ulteriormente il grado alcolico della risultante bevanda. Attraverso i livelli successivi di urrak (grad. 15%), cazulo o cajulo (40-42%) e il vero e proprio feni (oltre il 45%) ormai perfettamente trasparente nell’aspetto finale. Importante notare, tuttavia, come al giorno d’oggi la maggior parte del feni commercializzato apparterebbe formalmente alla seconda categoria piuttosto che alla terza, giudicata ormai eccessivamente alcolica per essere bevuta nella maggior parte delle circostanze. Un ulteriore passaggio nel frattempo, a discrezione del produttore, può essere quello di attendere l’invecchiamento del liquore per un periodo di settimane o mesi, magari immergendolo sott’acqua in qualche stagno o laghetto al fine di mantenerne sotto controllo la temperatura, con un espediente preso dichiaratamente in prestito dall’industria del vino georgiano.
Il che riassume, in tale complicata ma precisa serie di gesti, tutte le caratteristiche di un prodotto estremamente rappresentativo della sua regione, e che in tale accezione è stato più volte usato come simbolo d’orgoglio e potenziale via d’accesso a un processo commerciale di chiara fama. Se non che nella sua stessa India di provenienza, anche a causa di precisi regolamenti sull’esportazione extra-statale di sostanze alcoliche, il feni sia rimasto storicamente collegato a questa sola specifica regione, mentre il trasferimento all’estero manca tutt’ora di una filiera sufficientemente valida e controllata. In parte per la diffusione capillare delle piccole o minuscole industrie che lo realizzano, secondo metodi completamente diversi e spesso mantenuti gelosamente segreti. Ma anche per un problema che si può facilmente desumere dal commento dell’occasionale e coraggioso turista in merito all’intera questione; di una bevanda che parrebbe richiedere, a voler usare un eufemismo, l’acquisizione di un gusto particolare. E che in molti tra i non iniziati parrebbero aver trovato, nei fatti, piuttosto difficile da amare.
Benché non sia difficile immaginare, all’epoca della sua prima scoperta, una reazione simile da parte degli europei venuti per primi a contatto con i chicchi di caffè. O innumerevoli altre sostanze ci siamo presi dall’ambiente in cui viviamo. Giungendo soltanto in modo assai graduale ad apprezzarle sottilmente, per il semplice fatto che erano lì. Aspettando di essere ghermite dalle nostre mani mai sopite, fin dentro l’esofago perennemente pronto ad accogliere ogni potenziale principio di rinnovamento. All’interno di quel tipo di sacchetto che, pur non essendo trasparente, dovrà pur riuscire a contenere la sua ragionevole approssimazione aurifera dell’anacardio.