Era il 15 giugno dell’anno del Signore 1389, quando un’armata composta dai più importanti principi, duchi e cavalieri della Serbia, assieme a un contingente bosniaco, si riunì sotto il condottiero Lazar Hrebeljanović, unificatore dei più disparati interessi familiari, nella piana corrispondente all’attuale territorio kosovaro. Per ergersi come uno scudo temerario, contro l’avanzata di conquista del sovrano ottomano Murad I detto Hüdavendigâr, “il guerriero di Dio” seguito in quel frangente da circa 40.000 dei suoi sudditi armati di tutto punto. Qui dimostrò tutta la sua fondamentale superiorità, l’applicazione delle tattiche e degli armamenti europei, contro la tecnica dell’orda che tanti territori era valsa fino a quel momento per il desiderio dei governanti turchi. Sebbene la vittoria sarebbe giunta a un caro prezzo, da cui i nobili locali non si sarebbero più ripresi giungendo solamente a ritardare, piuttosto che invertire, l’inesorabile tendenza della Storia. Così protetti dalle pesanti armature a piastre, i cavalieri d’Occidente cavalcarono contro gli arcieri del sultano, le cui frecce pareva dovessero oscurare il cielo. Indefessi e senza paura, nonostante il loro numero raggiungesse circa un terzo di quello dei propri oppositori, essi sconfissero entrambe le ali dell’esercito degli ottomani, arrivando a circondare la guardia d’onore di Murad che si disse venire trafitto da una lancia al collo e al ventre, secondo alcune fonti coéve dallo stesso Lazar. Il quale fu di lì a poco disarcionato ed ucciso, mentre la fanteria riusciva a riorganizzarsi. In un’altra versione del racconto, fu invece il cavaliere Miloš Obilić, lasciandosi catturare e portare al campo base come un trofeo, ad estrarre un coltello nascosto per colpire il comandante nemico. Seguì una mischia caotica destinata ad avere un costo estremamente significativo per entrambi gli schieramenti e che avrebbe avuto, se non altro, l’effetto di rallentare l’avanzata ottomana nell’Est Europa. Permettendo agli abitanti locali, secondo una leggenda, di trasportare alcuni degli eroi del Kosovo defunti fino al luogo del proprio estremo riposo, fin sulla vicina montagna di Radan. Luogo importante in quanto giudicato sacro dal folklore locale, ancorché non privo di un passato d’empietà. Dove altri esseri giunsero tra gli uomini, per dare luogo a un diverso tipo, ancor più terribile, di battaglia.
E sebbene oggi le tombe del guerriero Ivan Kosancic e i suoi sottoposti, facenti parte dello schieramento pronto a sacrificare tutto per la causa, non siano più osservabili da parte dei visitatori (e forse, mai lo siano state?) un tutt’altro tipo di residui ricordano evidentemente i trascorsi locali: 202 figure di roccia frastagliata alte tra i 2 ed i 15 metri, tanto vicendevolmente simili nella loro forma vagamente conica, e sormontate da evidenti e insoliti “cappelli”, da poter sembrare la mera conseguenza della mano di uno scultore. Se non fosse per la maniera in cui sorgono lungo le pareti scoscese del pendio, senza un’evidente logica o palese soluzione di continuità. Tanto da trovarsi alla base della leggenda secondo cui, proprio in questo luogo, un diavolo di nome Karakodžul scelse di giocare un tiro mancino dal tenore chiaramente biblico all’umanità. Avvelenando l’acqua di una vicina fonte sorgiva, affinché chiunque ne bevesse anche soltanto un sorso giungesse a dimenticare ogni cosa, compresi i propri più stretti rapporti di parentela. Così che tra gli abitanti di un villaggio vicino, una coppia di fratello e sorella si apprestavano a sposarsi, commettendo il peccato mortale dell’incesto. Se non che Dio in persona, intervenendo dal suo alto seggio, intervenne per porre fine al fraintendimento, nel modo più diretto immaginabile: scegliendo di trasformare gli sposi e tutti gli invitati in statue di pietra. Il trascorrere delle generazioni e i lunghi processi d’erosione ambientale, si sarebbero occupati di fare il resto.
Ciò detto, le formazioni della cosiddetta Đavolja varoš (letteralmente: Città del Diavolo) benché relativamente recenti in termini geologici, possono essere fatte risalire facilmente all’epoca della Preistoria, presumibilmente attorno all’ultima glaciazione tra i 16.000 e 14.000 anni a questa parte. Ben prima che strutture ed invenzioni sociali come le nazioni, i matrimoni o il Maligno potessero prendere forma presso i popoli di questo pianeta…
Dal punto di vista tecnico, l’aspetto paesaggistico della montagna serba di Radan può esser quindi fatto rientrare nella categoria degli hodoo, alias “camini delle fate”, il cui processo generativo è ormai da tempo pienamente noto alla scienza. A partire dall’origine con una singola e compatta zolla stratigrafica, parzialmente composta da sedimenti argillosi e per la rimanente parte da rocce solide, composte dal resistente minerale dell’andesite. Il cui nome sudamericano (preso in prestito dalla catena montuosa andina) non ne pregiudica comunque la presenza nei più disparati luoghi geografici, tale da farne una delle rocce di origine vulcanica più diffuse e recenti. Ciò che sappiamo aver pesato dunque sulla storia di questi luoghi, in un momento imprecisato di sicuro antecedente alla battaglia di Lazar, è il progressivo accumularsi iterativo della pioggia, il vento e i temporali. Fino alla disgregazione sostanziale ed irrecuperabile dell’originario zoccolo di terra, lasciando unicamente le attuali colonne, ciascuna sormontata dall’ombrello protettivo di un singolo e svettante macigno lavico, che neanche il trascorrere delle infinite generazioni sarebbe riuscito a scalfire. Non c’è poi alcunché di cui restare stupiti, nel seguito immancabile di questa vicenda. In cui molti secoli e millenni dopo, la gente dei vicini villaggi si sarebbe convinta dell’origine sovrannaturale di un luogo tanto unico nell’intera Serbia ed in effetti, il mondo, attribuendo ad esso significativi eventi pseudo-storici e leggende. Vedi alternativamente la versione secondo cui le sottili piramidi altro non sarebbero che la forma pietrificata dei diavoli stessi, che erano soliti venire trasportati a spalla inconsapevolmente dalla povera gente di questa Terra, almeno finché non si riunirono a pregare presso la vicina chiesa di Santa Petka, liberandosi in questo modo di ogni peso ed ansia della difficile vita terrena. Una qualità miracolosa, o in qualche modo curativa, successivamente attribuita anche alle due fonti d’altura che sgorgano dalle stesse pendici del Radan, di cui una soprannominata Crveno vrelo o “pozzo rosso” causa la colorazione innaturalmente vermiglia delle sue acque provenienti dalle oscure viscere del mondo. Non in forza di una presunta e metaforica associazione al sangue, bensì come dimostrato per la prima volta nel 1905 da Aleksandar Zega, il fondatore della Società Chimica Serba, causa un pH particolarmente elevato e la specifica concentrazione di minerali. Ma chi può dire, alla fine, quanto ciò sia frutto della mera progressione degli eventi, piuttosto che un chiaro e possibile segno concesso per esplicita volontà del Creatore? Nell’incertezza, di sicuro, è sconsigliato bere tali acque, in merito alle quali si spera un giorno di riuscire ad ottenere dati più precisi ed approfonditi. Prima di giungere a questo, tuttavia, l’intera zona è stata trasformata in importante patrimonio paesaggistico dallo stato della Serbia a partire dal 1959, acquisendo uno status ancor più elevato entro l’anno 1995. Il che l’avrebbe portata ad essere il candidato europeo meglio classificato per la definizione delle Nuove 7 Meraviglie del mondo naturale, secondo l’omonima fondazione guidata da Bernard Weber, giungendo ad essere scartato solo nell’ultimo giro di voti da parte della giuria internazionale.
Ciò che è certo è che Đavolja varoš è riuscita a trasformarsi, nel corso delle ultime decadi, in un importante luogo di pellegrinaggio e meta turistica, con un restauro e ritrovata consacrazione della chiesa medievale di S. Petka nel 2010, seguito dall’istituzione di un centro visitatori completo di ristorante, area pic-nic e l’immancabile negozio di souvenir. Il che in un certo senso rientra a pieno nell’antico significato concesso dalle leggende medievali di un così divino recesso, il cui aspetto fuori dal comune sembrava sottintendere arcani e inconcepibili significati. Ma anche l’opportunità, per agili realtà imprenditoriali, di riuscire efficientemente ad ottenere lo sbarco del lunario…
Secondo il ciclo dei poemi epici serbi, che narrano approfonditamente la battaglia del Kosovo come uno dei momenti storici più importanti del paese, il cavaliere sepolto presso il monte Radan, Ivan Kosancic, era un eroe dotato dalle più straordinarie qualità individuali e doti guerriere. Capace di parlare correntemente le lingue turca ed araba, che aveva studiato in un monastero, avrebbe continuato a combattere per lunghi anni contro gli eserciti di queste due nazioni. Magnifico nell’aspetto, in sella ad un cavallo che le fonti descrivono come “verde” (forse il miracolo più grande di tutti) egli avrebbe quindi incontrato il suo fato col vessillo sollevato dal vento, come molti altri, in quel fatidico giorno e la sanguinosa carica sul campo di battaglia. E molto sangue avrebbe lasciato i loro corpi, irrigando copiosamente il suolo in paziente attesa della sua catarsi. Affinché qualcosa di diabolico, sbocciando dal profondo, vedesse crescere di nuovo il suo significato metaforico tragicamente ereditato.
E qualcuno forse insiste ancora a dire “Ваде ретро, сатана”? (Vade retro, satan!) Quando le pietre sono inamovibili, come noi transenti esseri siamo giunti a comprendere fin dai più lontani secoli pregressi. A men che sia il trascorrere del tempo stesso, a far precipitare geologicamente le cose.