Chi, tra gli abitanti di una grande città, non ha sognato almeno una volta di scendere le scale del proprio palazzo e semplicemente, camminare fino al luogo di lavoro? Niente lunga trasferta in automobile, o l’uso di affollati mezzi pubblici se non magari per una, magari massimo due fermate di autobus e metropolitana. Nessun sonno che si estende, in territorio nipponico, lungo i molti chilometri dell’ultra-rapido Shinkansen. Stile di vita quasi sempre irrealizzabile, se è vero che la propria scelta di un’abitazione viene fatta normalmente a priori, con ripercussioni per svariate decadi e per lo più indipendentemente dal singolo contratto che determina un capitolo della propria storia professionale. Mentre sarebbe possibile affittare, magari, un appartamento il più possibile vicino alla destinazione quotidiana, se non fosse per i prezzi proibitivi e la lista d’attesa, molto spesso, superiore all’effettiva persistenza di quel bisogno transitorio. Il che rappresentò un ottimo motivo verso l’inizio degli anni ’70, dal punto di vista dell’architetto tokyoita ed inventore dei capsule hotel Kisho Kurokawa, per trovare una nuova via d’accesso tematicamente rilevante, verso la risoluzione di uno dei problemi logistici più caratterizzanti della condizione umana. “Ogni giorno mi alzo e cammino fino al bagno” egli potrebbe aver detto a se stesso; “Quindi cammino fino alla cucina, poi cammino fino al soggiorno.” Non sarebbe forse meglio avere tutto a portata di mano, ovvero vivere all’interno di un singolo ambiente a forma di parallelepipedo, poco più grande dello spazio occupato dal mio respiro?
Per fortuna e grazie al suo stesso operato come redattore di un manifesto, quelli erano gli anni del movimento architettonico Metabolista (Shinchintaisha – 新陳代謝) e l’applicazione del linguaggio e i metodi di coloro che progettavano strutture, aveva trovato il miglior modulo possibile tramite l’applicazione reiterata del sistema della capsula, un chiaro prestito dell’epoca spaziale. Consistente di 2,5 per 4 metri di lato, nel caso del nostro edificio rilevante ai fini della trattazione, sospesi a vari piani di una doppia torre di cemento interconnessa, con ascensori e altri elementi tecnici rigorosamente a vista, secondo la migliore interpretazione delle soluzioni pratiche brutaliste. Ma con un ulteriore passo rispetto a tale modus operandi dei molti ispiratori ed ispirati a quel pragmatismo, rintracciabile nella visione secondo cui nulla fosse invero permanente, bensì necessariamente transitorio sulla base dei mutevoli bisogni della vita odierna, unitamente all’effetto talvolta catartico dei soliti tifoni, terremoti ed altri disastri particolarmente noti presso l’arcipelago del grande Drago sopito. Ecco perché la torre delle capsule di Nakagin, tra gli elementi urbani maggiormente rappresentativi e memorabili del prestigioso quartiere di Ginza, prevedeva per ciascun dei propri 140 moduli abitativi sovrapposti e vagamente simili a lavatrici (colpa soprattutto della grande finestra circolare) la possibilità, ed invero necessità prevista, di sostituirli dopo il trascorrere di ciascun quarto di secolo, prolungando ipoteticamente la vita dell’edificio fino ad un minimo di 200 anni. Una visione futuribile ed avveniristica, che oggi più che mai appare prossima a scontrarsi con la problematica realtà dei fatti, se è vero che il voto chiesto ai proprietari sull’eventualità di vendere a un consorzio, già proposto per la prima volta nell’ormai remoto anno 2008, ha ricevuto per la prima volta una maggioranza positiva lo scorso aprile, aprendo la strada ad una futura e già più volte richiesta demolizione dello storico ed assolutamente irriproducibile edificio. Con molte comprensibili ragioni, a partire dalla significativa quantità di amianto contenuta come isolante nell’involucro esterno delle capsule di metallo, per non parlare della mancata aderenza agli odierni standard anti-sismici vigenti in Giappone, o ancora l’ipotesi di un più efficiente utilizzo del terreno presso cui sorge in una delle città più costose al mondo, dove potrebbe trovar posto un grattacielo molto più svettante ed in funzione di ciò, redditizio per i suoi gestori. Verso l’ultima inevitabile conseguenza di un prolungato stato di degrado, che ha portato negli anni al progressivo deperimento delle condizioni osservabili, nonché l’effettiva utilizzabilità dell’edificio, compresa la rottura mai affrontata di un tubo ormai da circa una decade, privando dell’acqua calda gli ostinati abitatori, per lo più occasionali, di quella svettante chimera. Visto il chiaro e palese intento, forse a questo punto quasi comprensibile, di accelerare le cose…
Ne parlava con malinconia ma ancora chiara ed evidente passione, l’architetto Kurokawa nel 2007 poco prima della sua dipartita sopraggiunta improvvisamente alla fine di quell’anno all’età di 73 anni, avendo già intuito quale fosse il futuro possibile di quello in molti considerano all’unanimità come il punto più alto mai raggiunto dall’intero movimento metabolista. Spiegando con chiarezza ed enfasi la maniera in cui un’eventuale demolizione della torre, come paventato all’epoca per l’operato di un non meglio definito hedge fund statunitense, avrebbe comportato un costo molto superiore all’eventuale sostituzione delle capsule, nel tentativo di parlare quello stesso linguaggio dedito al profitto che in maniera fin troppo evidente, determinava il passo e il senso stesso dell’intera presunta necessità di un cambiamento. Dichiarando il suo intento lungamente perseguito, da orgoglioso proprietario di una capsula all’interno della sua creatura, di acquistarne anche il diritto alla gestione presso il consorzio e committente Nakagin, nella speranza di riuscire a preservarne l’esistenza futura. Obiettivo destinato purtroppo a rimanere irrealizzato causa la sua improvvida morte, e l’interesse da parte di molti nel vedere scomparire questo monumento all’estemporanea trasformazione del sistema abitativo urbano. E tutto ciò nonostante le molte proteste da parte delle associazioni architettoniche, sia in patria che all’estero, letteralmente oltraggiate dall’ipotesi di veder scomparire una così caratteristica e insostituibile creazione, figlia di una particolare epoca e momento di trasformazione sociale, letterale finestra aperta su un possibile universo alternativo. In cui l’eliminazione di spazi superflui non dovrebbe corrispondere al rifiuto dell’individualismo, bensì un invito a realizzarsi nei momento di esperienza di vita collettivi, conviviali e l’applicazione delle proprie capacità all’interno di un contesto di tipo professionale. Non a caso, molti degli abitanti correnti della torre sono artisti, architetti e creativi di vari ambiti molto diversi tra loro. A vantaggio dei quali, le capsule della torre Nakagin non hanno nessun tipo di cucina ma soltanto un frigo bar, mentre un area relax collettiva è offerto nell’ampio piano terra, con tanto di poltrone ed un negozio di alimentari, in maniera analoga a quelli di un moderno hotel diviso dai micro-ambienti sovrapposti, che lo stesso Kurokawa avrebbe inventato nel 1979 con il Capsule Inn di Osaka. Prima struttura ricettiva appartenente a tale distintiva, e secondo alcuni disumanizzante metodologia di soggiorno. Laddove le corrispondenti residenze costruite a Ginza, in quanto via d’accesso intermedia nei confronti di un simile concetto, appaiono dotate di un ragionevole livello di vivibilità e confortevolezza, garantito da un comparto di arredi trasformabili e costruiti su misura, inclusivi di grande letto, molti scomparti apribili e il non-plus ultra della tecnologia multimediale dell’epoca, con televisore e registratore audio a nastri dall’evidente aspetto retrò. Proprio il concetto delle capsule prefabbricate e rimovibili poste in essere dopo gli appena 30 giorni utilizzati all’epoca per ultimare la torre, si sarebbe dimostrato alla base del problema di fondo di quest’ultima, nonostante le migliori speranze del suo creatore. Un recente studio di fattibilità, fortemente voluto dall’associazione Save Nakagin creata nel 2014 dal residente Masato Abe, ha purtroppo dimostrato come lo spazio di pochi centimetri lasciato tra ciascuna “lavatrice” renderebbe l’effettiva rimozione delle stesse sorprendentemente ed involontariamente complessa, a meno di procedere nel farlo in modo sistematico per tutte e 140 allo stesso tempo. Il che, dato l’intento originario dell’architetto, lascia sospettare che costui avesse previsto un particolare metodo o procedura, del quale nessuno sembrerebbe ricordare (volutamente?) il funzionamento.
Perché l’idea metabolista della trasformazione progressiva degli edifici, in maniera organica e attraverso il corso della storia, era in realtà già presente all’interno della cultura giapponese. Di cui Kurokawa si è più volte definito un continuatore, grazie all’applicazione dei vecchi metodi all’interno di un contesto soltanto superficialmente del tutto nuovo: “Nudo cemento, freddo acciaio, devono restare ben visibili all’esterno delle mie creazioni. Scegliendo di non coprirli, ne mantengo evidente il più imprescindibile valore naturale.” Mentre la stessa struttura e proporzione delle sue capsule, come ha più volte dichiarato, riprendono quelle della più fondamentale unità dell’architettura filosofica nipponica: la casa o stanza per la cerimonia del tè Zen.
Che la torre di Nakagin possa essere effettivamente conservata, almeno in linea di principio, grazie all’applicazione di metodologie moderne e significativi capitali, non è mai stato messo in dubbio da chicchessia. Ed in altri luoghi, paesi o tempi, probabilmente un simile consenso sarebbe stato raggiungibile, previo il coinvolgimento del giusto numero d’investitori e magari un politico o due. Proprio quella stessa base culturale che era il fondamento stesso della sua esistenza, tuttavia, si sta dimostrando in grado d’impedire quel tipo di soddisfacente risoluzione; poiché l’idea stessa del Metabolismo era quella di trasformare le regole del gioco, semplificando ed eliminando un’ampia serie di passaggi ritenuti non più necessari. Ma nel momento stesso in cui la società ha rifiutato tale via divergente (o per meglio dire, non ha mai deviato il suo corso) l’unica soluzione logica rimasta è quella d’imboccare nuovamente la strada maestra. Rinunciando a moniti ingombranti, o il tipo di segnalazione che può in qualche modo minacciare lo stato di quiete, valore al centro della società nipponica contemporanea. Ed è proprio questo, alla fine, il vero significato del termine brutalismo.
Affinché ancora una volta, lo svettante tempio del paese costruito idealmente in legno possa essere demolito e solennemente costruito da capo, come più volte capitato nelle antiche città soggette ai bombardamenti fiammeggianti (ed Atomici) degli Alleati. Non prima di aver purificato, s’intende, il suolo dagli spiriti malvagi, affetti dal rancore ed il risentimento. Oltre allo sottile strato di polvere d’amianto, che ogni cosa ricopre, come letale neve nelle circostanze degne di essere purificate.