Era circa la metà degli anni ’70 quando l’olandese naturalizzato in Canada Henry Tillaart scrutò, dall’alto della collinetta che sovrastava il suo vivaio nella regione di Durham, i remoti confini del suo dominio. Schiere di conifere ordinate, fatte crescere secondo i metodi applicati di una lunga tradizione, ma in quantità abbastanza significativa da potergli garantire un’utile fetta del mercato di stagione. Il vento d’inverno faceva muovere quei rami, accentuando le caratteristiche e la forma dei diversi aspetti del suo prodotto: c’erano abeti affusolati, per l’impiego nelle case meno spaziose. E ce n’erano degli altri più larghi e rigogliosi, adatti al posizionamento nei giardini antistanti, per chi disponesse di decorazioni capaci di resistere alle intemperie. E poi, presso un particolare sito “sperimentale” erano stati fatti crescere per qualche anno più a lungo degli alberi decisamente più imponenti. Alti 5 metri, 6, 7, da impiegarsi nelle piazze cittadine e in quel nascente tipo di attrazione ingombra di luci, divertimenti e negozi che gli abitanti urbani stavano iniziando a definire il Centro Commerciale. Lì un gruppo dei suoi impiegati, lavorando sotto la supervisione diretta di un addetto alla logistica, facevano del loro meglio per affrontare una situazione decisamente complessa. Del tutto inadatti si infatti si erano dimostrati, i normali tubi di metallo con la “calza a rete” normalmente impiegati al fine di raccogliere e contenere quei rami dalle propaggini aghiformi, costringendo il personale all’improvvisazione. Così alcuni uomini erano saliti su una scala appoggiata ad un furgone, mentre altri con un lungo bastone stavano tentando di far girare l’involucro di plastica e filo metallico tutto attorno all’imponente essere vegetale. Il quale, soltanto successivamente sarebbe stato tagliato e disposto sul cassone aperto dell’autoveicolo, per il trasporto fino al sito di raccolta e spedizione. “Possibile che questo sia il modo migliore?” Esclamò l’industriale con la giacca ben serrata, rivolgendosi a un disordinato gruppo di ghiandaie grigie, che discutevano animatamente per il controllo di un tratto di terra, dove probabilmente avevano scovato alcuni dei pregiati lombrichi dell’arboreto. E fu allora che Tillaart notò, in prossimità di quel piccolo caos, una pianta rampicante che iniziava ad arrampicarsi sul palo di un vicino lampione. Girando tutto attorno ad esso, formava una sorta di spirale, capace di racchiudere ed abbarbicarsi con la massima efficienza a quella forma tubolare. “E se, abbracciando il tronco, si potesse convincerlo a collaborare…?”
Non è in effetti semplice, da una posizione esterna all’azienda, risalire all’effettiva origine e storia del dispositivo noto come Tree tyer (legatore d’alberi) della Dutchman Industries, azienda nordamericana rinomata per la propria competenza nel campo della meccanizzazione arbustiva, ovvero la creazione di metodi industriali e tecnologici finalizzati alla gestione di codesti esseri dalle simmetriche ramificazioni. È tuttavia piuttosto ragionevole immaginare, visto l’ingegno ed il talento di coloro che seppero cambiare in modo significativo le regole di questo grande gioco, immaginare una versione preliminare di quel meccanismo, risalente all’epoca in cui venne messa in produzione la prima pala triangolare dell’azienda. Ciò di cui sto parlando ora, potreste anche conoscerlo (e d’altra parte, ne abbiamo già parlato sulle pagine di questo blog) nella foggia distintiva di un attrezzo tripartito maneggiato da un braccio idraulico, capace di tagliare e immergersi dentro la terra, incapsulando un arbusto assieme al proprio suolo ed una parte considerevole di radici. Al fine di piegarlo da una parte e assicurarlo sul pianale del trasportatore, verso nuove mete utili a un trapianto con dei validissimi propositi di sopravvivenza. Lasciando semmai il problema, in corso d’opera, di come proteggere ed assicurare i rami più piccoli, destinati altrimenti a riportare significativi danni soprattutto dalla parte schiacciata verso il basso, per effetto della gravità spietata. A meno di averne effettuato un’efficiente legatura, con metodi il più possibile rapidi e funzionali allo scopo. Ecco dunque la più futuristica proposta tra quelle impiegate per affrontare, ed in qualche modo risolvere il problema…
Il più tipico insacchettatore d’alberi di Natale, vista tutt’altro che rara nell’ambiente rilevante, consiste in genere del più semplice e passivo degli apparati con un’apertura al centro, entro cui i piccoli tronchi vengono fatti passare provvedendo poi ad assicurare la rete di contenimento. Mentre l’invenzione di un metodo motorizzato per assolvere allo stesso obiettivo viene fatta risalire, convenzionalmente, ad un’iniziativa progettuale dell’Associazione di Coltivatori d’Alberi dell’Indiana che attorno al 1960, individuando le significative potenzialità di questo segmento di mercato, iniziò a promuovere l’impiego di un dispositivo motorizzato per l’incapsulamento degli abeti all’interno di contenitori reticolati. E sebbene un’illustrazione o fotografia esplicitamente attribuita a quel contesto risulti difficile da reperire online, non è irragionevole pensare d’attribuire tale tecnica al brevetto US2792775A di Sanford R. Beyette (vedi) consistente di un meccanismo almeno in apparenza statico, dotato di una sovrastruttura piramidale ed un sistema impiegato per far avanzare il tronco, con in cima quella che sembrerebbe essere la stessa bobina rotativa del sistema contemporaneo. Fatto sta che la Dutchman Industries, nella sua sapiente e successiva applicazione dell’idea, sembrerebbe aver ben pensato di sostituire la piramide con un anello, posizionabile secondo le necessità sul braccio mobile di un muletto, piccolo bulldozer o maneggevole ruspa cingolata. Struttura gommata capace di abbrancare l’arbusto bersaglio, mentre la sopracitata spoletta, ruotando a un ritmo sostenuto, dispone ed allarga la rete arboricola di contenimento.
È uno di quei sistemi altamente specializzati che una volta in essere appaiono tanto diretti da potare a chiedersi perché, in effetti, nessuno ci avesse mai pensato prima. E che nasce dichiaratamente, come molte altre soluzioni dell’azienda canadese, dal bisogno effettivo di soluzioni pratiche impiegabili all’interno dell’arboreto della famiglia Tillaart, soltanto in seguito proiettate verso la produzione e commercializzazione in serie. Il lega-alberi ad anello esiste ad oggi in quattro versioni di dimensioni progressivamente più grandi, corrispondenti rispettivamente a 28, 40, 50 e 60 pollici di diametro (ben 152 cm!) al fine di adattarsi ad alberi di ogni possibile grandezza e conseguente altezza. Mentre un’interpretazione particolare della questione viene fornita dal modello con operatività overhead (“dall’alto”) consistente di tre pali verticali ed un quarto rotante, funzionali all’impacchettamento degli alberi con poco spazio attorno. Metodi efficienti ma dal costo non propriamente adatto ad ogni tasca, nella maniera esemplificata dal singolo modello attualmente in vendita presso il portale Horizon Attachments, di un anello da 60 pollici al costo di 13.500 dollari. Esborso particolarmente gravoso quando si considera il prezzo raramente superiore ai 300-400 dollari per un insacchettatore d’alberi di tipo orizzontale e privo di alcun motore. Un’interessante via di mezzo viene offerta, nel frattempo, dal tree tyer manuale della Dutchman, un diverso tipo di testa motorizzata capace di far stringere progressivamente una guida ad anello, mentre l’addetto appiedato si preoccupa nel frattempo di girargli attorno con la rete da trasporto, faticando comunque molto meno di quanto avrebbe dovuto fare mediante un approccio di tipo convenzionale. Invero un’altra utile concessione, del mondo estremamente pratico della tecnologia per i grandi volumi di processazione, unico metodo davvero funzionale al recupero dell’investimento di partenza.
Particolarmente crudele potrebbe sembrare dunque, questo ecosistema di mostri meccanici finalizzati a rimuovere, intrappolare e rapire gli alberi, portandoli lontano dal quel particolare segmento di terra dove avevano scelto di gettare le proprie solide radici. Ma la realtà è che l’industria, qualunque sia il suo ambito, esige un certo grado d’efficienza, e tanto spesso fare le cose bene garantisce una più alta percentuale di successo nel trapianto arbustivo. Vedi per esempio i dati raccolti già nel 1969 dalla cittadina di Lansing in Michigan, con una quantità di alberi ancora in stato di grazia negli anni successivi allo spostamento mediante pala triangolare calcolata al di sopra del 70%, contro il meno del 50% di quelli sottoposti a procedure di tipo tradizionale. Mentre tutti a Roma ben ricordano la tragica questione dell’albero Spelacchio, trasportato nella capitale nell’anno 2017 senza un’adeguata legatura dei rami, con il conseguente aspetto derelitto sottoposto ad ampia trattazione da parte di tutte le testate giornalistiche e televisive per l’intero periodo di quel Natale. Perciò non c’è mai nulla di sbagliato nel fare le cose il più rapidamente possibile.
Purché si disponga dei mezzi, e competenze, per riuscire a mantenere coerentemente dei validi standard procedurali. Tutto ciò che serve, è il giusto spirito d’osservazione. E la sapienza antica di un ragno meccanico, capace di disporre il suo prezioso filo tutto attorno alla pungente, non troppo flessibile questione.