Esiste un video risalente al 1985, tratto dall’emittente canadese CBC, in cui un gruppo di sciatori, guardie di montagna ed operatori dei resort invernali elenca i numerosi problemi causati dai seguaci della “nuova” e indesiderabile moda, di attaccarsi un singolo dispositivo di discesa, posizionandosi perpendicolarmente al senso della sua marcia. Un metodo nato negli Stati Uniti circa una decade prima, spiega la voce fuori campo con tono rassegnato, mentre si susseguono le accuse di utilizzo spericolato delle piste, incapacità di controllare i movimenti e risposte inappropriate verso tutti coloro che tentavano responsabilmente di allontanare i colpevoli di tale perversione, come “Non sto facendo nulla di male!” Oppure, “Fatti gli affari tuoi!”. Visioni che al giorno d’oggi, con lo sdoganamento della tavola da montagna verso le alte vette degli sport olimpici, parrebbe quasi essere giunto da uno strano universo parallelo, dove le rigide convenzioni di una società pesantemente tradizionalista, fossero riuscite a mantenere gli originali ed intoccabili valori delle cose fatte alla vecchia maniera. Vecchia fino a un certo punto, dopo tutto. Se consideriamo come l’invenzione e pratica dello sci alpino in senso moderno, databile al massimo fino alla metà del XIX secolo, potrebbe risalire indietro nella scala delle epoche assai meno di un’alternativa pre-esistente, chiamata nella sua terra d’origine uzme tahtası o “tavola [con la] sella”.
Turchia orientale, catena dei monti Kaçkar disposta immediatamente a ridosso delle rive del Mar Nero, regione pochissimo abitata di İkizdere. Sostenuto dall’economia del legname, in questi luoghi esiste un piccolo villaggio chiamato Meşeköy, abitato da una quantità stimata di circa 300-310 persone. Che non avrebbero probabilmente alcuna rilevanza su scala internazionale, se non fosse per la recente scoperta in senso retroattivo, che costoro potrebbero aver anticipato di moltissimi anni la cognizione di quello che oggi potremmo affermare costituire il secondo pilastro dell’economia invernale alpina. Per un’idea che, a ben pensarci, è quanto di più naturale riesca ad essere creato come manifestazione pratica dell’intelletto umano: immaginate ora di vivere lontano dalla civiltà urbanizzata, circondati da una densa concentrazione di quegli alberi particolarmente resistenti che la scienza botanica ha scelto di definire Pinus nigra. Sarà per voi naturale, dovendo recarvi più volte la settimana a valle per vendere i prodotti della natura ed acquistare in cambio beni d’uso comune, pensare di costruire con quel materiale un qualche tipo d’implemento, che possa portarvi sani e salvi a destinazione, per poi caricarlo in spalla all’inizio del più lungo, e necessariamente faticoso, viaggio di ritorno alla patria dei vostri avi. Una tecnica tramandata, dunque, da padre in figlio, nonno e nipote, trisavolo e remoto discendente. A partire da un’origine che si perde nelle nebbie traslucide del tempo, ma che una leggenda molto vaga vuole risalire ad un’attività praticata dapprima dai soli giovani del villaggio, per svago, e soltanto a distanza di un paio di generazioni diventata parte inscindibile dello stile di vita locale. Al punto che oggi un buon 95% della popolazione di Meşeköy possiede almeno un’esperienza pregressa nel suo utilizzo, nella maniera resa esplicita su scala internazionale a partire dalla visita effettuata in questo luogo dalla leggenda dello snowboard contemporaneo Jeremy Jones nel 2008, che coniò per l’attività dello uzme tahtası il neologismo in uso ancora oggi di petranboard, dall’antico nome “Petra” della piccola comunità montana di Meşeköy. Ma sarebbe stata la seconda e più dettagliata trattazione, realizzata nel 2016 dagli snowboarder Alex Yoder e Nick Russell per la marca d’abbigliamento Patagonia, a sdoganare a tutti gli effetti questa distintiva attività locale, portando a una variazione del paradigma secondo cui l’idea originaria di una tale tavola dovesse necessariamente provenire dalla California…
Il petranboard, o come hanno preso a chiamarlo più recentemente i turchi “lazboard” (dal nome dell’etnia locale dei Laz) prevede quindi l’utilizzo di strumenti e metodologie piuttosto semplici, sebbene nessuno possa mettere in dubbio la sua perfetta efficienza funzionale. Esso si fonda infatti sull’impiego di una tavola di assi di legno larga 30-35 e lunga 150-160 cm un tempo usata come inginocchiatoio per le preghiere, piegata leggermente verso l’alto nella parte anteriore mediante l’impiego di copiose quantità di fumo, al fine di non impuntarsi sulla neve fresca causando irrimediabili capitomboli dell’utilizzatore. Il quale non usufruisce di alcun fermo per le sue caviglie, fatta eccezione per le lievi scanalature o sporgenze contro cui puntellare il bordo del piede, coadiuvata dall’impiego di una corda tesa tra il muso del veicolo e una mano, al fine di mantenere il proprio corpo in posizione fino alla notevole velocità massima di 80 Km/h. La posizione laterale quindi, essenziale per poter definire tale apparato come antesignano dello snowboard e non un semplice slittino o monosci, viene garantita dal metodo impiegato per direzionare la marcia, mediante l’utilizzo di un bastone (spesso costruito in legno più leggero di nocciolo) chiamato dimani, o dümen. E bisogna ammettere che fa una certa impressione, vedere uomini e donne prossime a un’età che nel nostro paese sarebbe passibile di pensionamento, destreggiarsi con abilità notevole tra i cumuli di neve su quelle che possiamo solamente definire discese selvagge e totalmente prive di preparazione all’impiego. Una capacità provenuta, senza ombra di dubbio, dalle molte decadi di pratica pregressa, nata dalla semplice necessità di risolvere un problema.
Lungi dal trovarsi prossimo alla scomparsa, causa il diffondersi di nuovi mezzi di trasporto, il petranboard si è quindi trasformato in importante parte del patrimonio culturale locale, anche grazie all’impegno più volte documentato di figure come quella del fabbro/falegname Hizir Havuz, spesso intervistato mentre si trova al lavoro nella costruzione di una delle sue veloci piattaforme, nonché tra i principali organizzatori dell’invernale festival dello snowboard di Meşeköy, che si è tenuto ininterrottamente fino alla pausa iniziata l’anno scorso all’insorgere della pandemia globale. Un’importante mezzo utile a far conoscere ulteriormente nel mondo questo particolare “sport”, che in realtà era in origine tutt’altro che uno sport, e rivendicare un primato che nei fatti potrebbe anche essere non soltanto morale, ma effettivamente e direttamente riconducibile all’odierno aspetto dello snowboard globalizzato. Sebbene le cronache ufficiali facciano generalmente risalire tale attrezzo alla figura del californiano Sherman Poppen, che l’aveva inventato legando due sci assieme nel 1965 coniando a tal proposito l’ormai dimenticato termine di snurfer (unione di snow e surfer) un’analisi più approfondita può scovare nella storia pregressa dell’epoca contemporanea, ed anche anteriormente ad essa, può permettere l’individuazione di molti precursori della pratica. Tra i quali il maggiormente funzionale, ai fini della nostra analisi, può essere identificato con la figura anch’essa statunitense di Vern Wicklund. Che sulla base di una strana slitta che aveva creato all’età di soli 13 anni in Minnesota, nel 1939 sarebbe giunto ad ottenere il brevetto del cosiddetto bunker. Un apparato simile ad un’asse, dotato di scanalature gommate per i piedi, una corda per tenersi in posizione ed un bastone per controllare la direzione di marcia. Riuscite ad individuare, a questo punto, lo schema?
Ora, sarebbe certamente ambizioso, nonché privo di alcun tipo di evidenza pratica, affermare che il giovane Wicklund potesse aver conosciuto in qualche modo la prassi (comunque identica) del villaggio turco ed aver scelto d’impiegarla come ispirazione, per una specifica metodologia a sua volta portata ad evoluzione dall’ancor più recente Sherman Poppen. Resta tuttavia innegabile la maniera in cui, attraverso il progredire delle alterne vicende umane, esistano delle linee operative alquanto dirette, dettate dal semplice bisogno e la natura persistente di determinate questioni. “Come posso essere veloce? Abbastanza agile? Come posso raggiungere la meta nel più breve tempo a disposizione?”
Verso la costituzione di quel filo ininterrotto che potremmo far risalire fino all’avventura di Giasone e gli Argonauti, che secondo una delle più famose storie parte del corpus mitologico greco, proprio in queste terre avrebbe condotto il suo equipaggio di Argonauti, in mezzo a terribili tempeste, belve e popolazioni tutt’altro che ospitali. In quella Colchide patria del Vello d’Oro appartenuto all’ariete volante di Ermes. Che facilmente avrebbe potuto spiccare un balzo oltre l’intera catena montuosa dei Kaçkar, nella stessa maniera in cui oggi, i suoi abitanti si dimostrano capaci di discenderne le ripide pendici.