Molte sono le meraviglie visibili all’interno, e conseguenti ragioni per pianificare una visita, del geoparco naturale della regione di Flores a 46 Km da Trinidad, nell’Uruguay meridionale: oltre 100 specie di uccelli, tra cui falchi, aquile ed il cuculo guira, dalla caratteristica cresta ornamentale. I nidi compatti degli horneros, piccoli passeriformi dal colorito rossastro. Ed armadilli, volpi, opossum, lucertole e serpenti di varia natura e dimensione. Ma c’è una sola attrazione, di natura tutt’altro che vivente, ad essere stata giudicata degna di dare il nome in lingua originale a questo mirabile recesso: la grotta preistorica, dall’aspetto particolarmente insolito, chiamata anticamente Palacio de los Indios, poiché si diceva che qui essi avessero preso dimora. Mentre un particolare capo villaggio, il padre del guerriero semi-leggendario Darien, aveva nascosto al suo interno i preziosi tesori della tribù Charrúa, successivamente alla venuta dei conquistatori europei. Dal che deriva l’interpretazione più spontanea di una simile struttura, capace di presentarsi all’occhio dei visitatori come ragionevole approssimazione di un colonnato dell’Italia rinascimentale, frutto della pianificazione geometrica di un legittimo Bernini di queste terre al di là del Mare. Un’interpretazione potenzialmente condivisa anche dal suo primo scopritore, il Dr. Karl Walter posto a capo della Scuola di Agronomia locale tra il 1909 e il 1938, almeno fino agli approfonditi studi geologici da lui effettuati sulla questione. I quali rivelarono non soltanto una durezza eccessiva della roccia, affinché fosse possibile riuscire a lavorarla con strumenti di tipologia Neolitica, ma soprattutto alcuni fossili perfettamente conservati di quelle che potevano soltanto essere chiamate delle vere e proprie uova di dinosauro. Il che permise di datare alquanto facilmente la venuta in essere dell’intero costrutto roccioso al Cretaceo Superiore (99-66 milioni di anni fa) con successiva solidificazione durante il primo Terziario o Cenozoico (66 mya) ovvero qualche annetto prima, per usare un clamoroso eufemismo, rispetto all’evolversi di una qualsiasi forma d’ominide terrestre. Il che lasciava soltanto una possibile interpretazione sul tavolo del professore: che se anche le popolazioni delle pampas avevano eletto a propria prestigiosa dimora questi labirintici pertugi, essi non potevano dirsi responsabili della loro costruzione. Frutto fondamentale ed innegabile, di un sofisticato processo di derivazione naturale. Il che sollevava un’ampia nuova serie di questioni, piuttosto che esaurirne alcuna, a partire dall’inconcepibile questione situazionale, che vedeva la già celebre Gruta del Palacio come un caso unico al mondo, frutto di un contesto geologico così evidentemente privo di termini di paragone.
Difficile, nei fatti, venire a patti con una simile inconfutabile interpretazione. Quando si osserva l’aspetto esterno di una simile meraviglia paesaggistica coperta di muschi e licheni, composta da un affioramento sporgente di arenaria rossastra sporgente di circa dal pianeggiante territorio di Flores, con circa 200 colonne da 2 metri d’altezza sormontate da un “tetto” di ulteriori 80-90 cm, oltre le quali si apre un oscuro dedalo esplorabile per una profondità di 30 metri. Ma era stato già lo speleologo genovese Mario Isola, nel 1877, a provare che il percorso continuava in profondità fino a recessi ancor più irraggiungibili, attraverso strettoie progressivamente parecchio inferiori all’ingombro di un avventuroso esploratore umano (per non parlare di eventuali antichi tesori dei Charrúa). In una maniera convenzionalmente associata alle formazioni carsiche di pietra calcarea, ma per una serie di cause ed effetti dalla derivazione totalmente diversa…
Quanto Karl Walter avrebbe annotato nei suoi studi, e successivamente avrebbe trovato conferma grazie ai moderni metodi d’approfondimento, vedeva dunque l’origine delle grotte del Palazzo nelle infiltrazioni d’acqua attraverso il sostrato argilloso della formazione geologica di Mercedes, la cui struttura tabulare si arricchì, gradualmente, di una serie di fessure verticali spiraleggianti. Attraverso le quali, attraverso il trascorrere dei secoli, si depositarono verticalmente quantità rilevanti di sedimenti, indotti naturalmente a formare delle concrezioni d’arenaria con strati concentrici, in maniera paragonabile al tronco di una pianta. La situazione, rimasta stabile per svariati milioni di anni, avrebbe perciò permesso ad un ulteriore apporto di materiale ferrifero di entrare a far parte del miracoloso sistema, portando alla solidificazione delle risultanti strutture cilindriche di colore tendente al rosso, inframezzati da spazi negativi di 80-120 cm, con un aspetto già perfettamente paragonabile a quello attuale. L’azione erosiva continuativa nel tempo si sarebbe quindi occupata di fare il resto, rimuovendo gradualmente la pietra e terra circostante un portico già potenzialmente formato in ogni sua parte, molti anni prima che il primo essere umano potesse scheggiare una pietra di selce su questo mutevole pianeta Terra. Detto ciò e fatta eccezione per alcuni accenni allo stesso processo nelle strutture geologiche del geoparco, tra cui le pietre granitiche a forma di ciotola disseminate nel suo vasto territorio di oltre 3.600 Km quadrati e i corpi cilindrici presso l’arroyo di Vera, l’assenza di situazioni simili nell’intero repertorio antologico della geologia moderna ha fondamentalmente ritardato alcun tipo di precisa analisi cronologica della questione, con la consolidazione delle colonne databile all’inizio del Terziario soltanto grazie alla precisa databilità di alcune uova d’insetto, ritrovate impresse nelle concrezioni capaci di sostenere il notevole tetto della grotta.
Considerata già storicamente un importante punto di riferimento per i locali nonostante l’assenza di pitture parietali preistoriche, al centro di numerosi tour turistici della regione inclusivi d’immancabili dinosauri ornamentali da giardino, la Grutas del Palacio può dirsi aver acquisito una reale fama internazionale soltanto successivamente all’iscrizione nell’elenco della rete globale dei geoparchi dell’UNESCO a partire dal 2013, con conseguente elevazione a monumento nazionale per lo stato sudamericano dell’Uruguay. Proprio in forza della sua caratteristica unicità e il mantenimento in uno stato intonso dell’intera zona limitrofa, fatta eccezione per l’inclusione di alcuni siti turistici dalle proporzioni assolutamente ragionevoli. Tra cui il piccolo museo posto a ridosso del colonnato, che sembra quasi richiamarlo con il leggiadro portico della sua facciata, completo di una collezione di minerali prelevati direttamente dal sito e una certa quantità di ausili audiovisivi utili a preparare i visitatori. Guide specializzate quindi, a fronte di una breve passeggiata di circa 800 metri, accompagneranno quest’ultimi a visionare con i propri occhi l’arcana meraviglia, il cui primo impatto non può essere del tutto privo di un certo grado di straniamento: chi potrebbe realmente credere, di fronte a un qualcosa di tanto regolare e riconoscibile, che possa effettivamente costituire un prodotto autonomo della natura?
Non deve perciò stupire il fatto che tutt’ora, siano in molti tra i locali a custodire gelosamente l’opinione secondo cui siano nei fatti stati proprio i popoli dei cosiddetti indios precolombiani ad aver costruito le Grotte del Palazzo, un merito che non vuol essergli riconosciuto causa le ordinarie discriminazioni operate nei confronti della loro eredità. Così come non mancano, assai prevedibilmente, gli estimatori d’ipotesi ufologiche ed extraterrestri, secondo cui la semplice esistenza di un qualcosa di così evidentemente antropogenico, databile ad epoche tanto remote, debba chiaramente indurre a una profonda riconsiderazione degli eventi passati. Ma poiché l’universo scientifico si fonda sul paradigma del rasoio di Occam, secondo cui la spiegazione più semplice risulta essere (quasi sempre?) quella maggiormente corretta, c’è una sola considerazione che possiamo trarre da una simile evidenza: che le precise misure, ed appropriate misurazioni, frutto della nostra percezione aurea del mondo dell’arte, non sono che una delle soluzioni possibili adottate nel vasto repertorio delle casualità pregresse. Le quali naturalmente possono trovarsi a conseguire da una serie di concetti ripetuti ad infinitum, come quelli frutto della biologia, oppure vere e proprie opere irriproducibili: il solenne frutto dei complessi crismi e meccanismi del sottosuolo. Dove non c’è alcun reale bisogno di complicate leggende sulle attività segrete dei capi in fuga con l’oro della tribù assediata, perché possa dirsi esserci nascosto un prezioso tesoro. Ma in fondo, anche questo fa parte del funzionamento della mente umana!