Costituisce un principio basilare della fisica, la maniera in cui la via più semplice sia sempre quella preferibile per il trasferimento dell’energia. Così ogni qualvolta l’entropia dell’universo causa il verificarsi di una situazione di disturbo, condizionando i naturali processi degli eventi, ogni cosa tenderà naturalmente al ritorno della quiete: l’acqua sollevata scivola e sparisce negli anfratti; l’energia del fuoco, si disperde riscaldando un volume d’aria circostante; ciò che è vivo torna gradualmente a disunirsi, restituendo le sue risorse alla Terra. Ma sarebbe certamente lecito chiedersi, a questo punto, perché è stato vivo fino a quel momento. In che maniera una creatura estremamente complessa come il bovino che bruca l’erba, la rumina, la digerisce metabolizzandone i nutrienti, per poi concimarne la diretta discendenza come conseguenza ultima del proprio nutrimento, costituisce una soluzione “migliore” o “meno dispendiosa” che la mera fissazione dei nitrati nel sostrato tramite meri processi naturali, come la pioggia? E dove si colloca in tutto questo esattamente, la sofisticata interconnessione dei sistemi antropogenici, in cui una singola specie si è resa fautrice d’innumerevoli città, fabbriche, centrali nucleari e mezzi di trasporto dalle plurime emissioni nocive… In altri termini, chi siamo, e dove andiamo? Che una possibile risposta ad almeno due delle domande fondamentali dell’esistenza potesse venire da una breve dimostrazione scientifica compiuta presso l’università di Stanford, non è necessariamente sorprendente. Ma è la natura stessa di una simile sequenza, per i suoi elementi fondativi e l’effettivo risultato finale ammirabile nel qui video qui presente, che potremmo definire spoetizzante nei confronti di migliaia d’anni di discipline filosofiche e religioni ancestrali. Poiché non importa, a conti fatti, che tu sia un ominide capace di ricordare i decimali del Pi Greco fino alla centounesima cifra, piuttosto che una sferetta di metallo del diametro di 0.775 millimetri: l’itinerario del tuo viaggio avrà una progressione essenzialmente simile. E la stessa, identica, destinazione finale.
Non è facile determinare se fosse una notte buia e tempestosa, completa di fulmini roboanti, quella di sei anni fa in cui il Dr. A. Hubler creò la vita. Questo perché la fonte elettrica di tale processo, a differenza delle pellicole cinematografiche di un tempo, non fu fornita da un imprevedibile fenomeno atmosferico bensì l’impiego di un più pratico trasformatore, 250 volte più potente di una presa elettrica casalinga, collegato ad un filo sospeso capace di erogare una letterale “doccia” di elettroni sul bersaglio sottostante di una piastra, o capsula di Petri. Ovvero trattasi della ciotola di vetro o plastica, particolarmente comune in ambito scientifico, usata nella maggior parte dei casi per le colture batteriche o cellulari. Tuttavia riempita, nel presente caso, di un qualcosa di totalmente diverso: un mezzo cucchiaio di olio di ricino, all’interno del quale sono state poste a galleggiare svariate decine di piccole sfere di metallo magneticamente reattivo. Poco prima di irrorarle, come avrete facilmente immaginato a questo punto, di una corrente elettrica continua, capace d’indurre la ridisposizione autonoma delle stesse nella maniera più efficiente per disperdere e lasciar passare l’energia. Il che non sarebbe di per se così eccezionale, se non fosse per l’aggiunta addizionale di un campo elettrico negativo, in corrispondenza di un anello di metallo posto sul bordo stesso del recipiente. Ponendo la base di una concatenazione di cause ed effetti letteralmente impressionante, poiché tanto ci assomiglia a ricorda i processi alla base delle decisioni strategiche compiute dall’uomo…
Il termine tecnico, in questo caso, è arbotron, come citato dallo stesso Hubler in una presentazione interconnessa allo studio scientifico, firmato assieme a C. Stephenson e intitolato “Stabilità e conduttività di un sistema di cavi auto-assemblanti in un campo elettrico trasversale”. Con diretto riferimento alla naturale crescita di una pianta, vista la struttura dendritica risultante ed il modello matematico capace di costituirne l’analisi, in cui esattamente il 22% dei cuscinetti a sfera si trovano alla fine di ciascun “ramo”, mentre un altro 22% del totale corrisponde alle diramazioni ed il resto fa parte delle linee imprevedibili e serpeggianti, direttamente risultanti da una simile disposizione. Esattamente così come sulla base delle nostre conoscenze pregresse, possiamo determinare la struttura generale di una pianta ma non l’effettiva collocazione delle sue singole parti costituenti. Mentre sforzi notevoli, particolarmente diversificati e complessi, vengono compiuti da ciascun singolo occupante della piastra di Petri al fine di garantire il mantenimento di un simile status quo. Così le singole sfere, attraendosi e respingendosi al tempo stesso, si dispongono in filari sinuoseggianti, che tentano di aggirarsi l’un l’altro e rubarsi vicendevolmente interi tratti vibranti. Le diramazioni che finiscono inevitabilmente per spezzarsi, quindi, prelevano dalla tempesta singole sferette, che istantaneamente si dispongono a colmare gli spazi vuoti. Ed ogni propaggine, alla fine, subisce uno di due possibili destini: raggiungere la terra promessa del perimetro (se è partita dal centro) oppure essere completamente assimilata da uno dei suoi vicini. Il che costituisce indubbiamente l’innegabile conseguenza di una forza esterna, dicesi l’incombente perturbazione causata dai due campi elettrici discordanti. Che non è poi così diverso da quanto avviene, attraverso il susseguirsi dei giorni, per un qualsiasi tipo di essere vivente.
Il concetto degli arbotron, intesi come piante o altre forme di vita artificiali, può quindi rivelarsi in questo senso come l’ultima evoluzione del miraggio di Paracelso, che credette di aver creato la vita artificiale coltivando l’omuncolo nell’ampolla. In una maniera, almeno in potenza, altrettanto capace di sfuggire al controllo dei suoi stessi creatori. Nel corso del breve video di presentazione dell’esperimento e relativo approfondimento nella già citata presentazione in PowerPoint, lo scienziato che s’identifica soltanto col cognome cita un’incredibile possibilità da lui evidenziata nel corso dell’esperimento. Quella che i cuscinetti a sfera elettrificati nell’olio di ricino giungano costituire, nei fatti, una forma di PI o Physical Intelligence; sostanzialmente, la dimostrazione pratica che non occorrono i neuroni all’interno di un cervello biologico per affrontare o risolvere un problema. O come alternativa altrettanto problematica, che le suddette cellule cogitative non siano altro che simil-cuscinetti a sfera galleggianti in un diverso tipo di sostanza in grado di traferire un potenziale elettrico funzionale allo scopo. Ciò mediante la più singolare delle prove tecniche: utilizzare le reazioni dei rami dell’arbotron per determinare le mosse vincenti in una sorta di partita semplificata a Tetris. Nel corso della quale un pezzo in caduta viene fatto ruotare da una parte o dall’altra, sulla base del feedback positivo o negativo negli elettrodi capaci d’influenzare i sussulti delle sfere nuotatrici. “Ricompensando” un comportamento capace di condurre alla vittoria in gioco, e “punendo” quelli controproducenti, in maniera simile a quello che avviene virtualmente nelle moderne reti neurali dell’intelligenza artificiale. Fino all’ottenimento innegabile di una serie di cavi auto-assemblanti capaci di svolgere compiti di tipo anche piuttosto complesso, al solo fine di poter continuare ad assemblarsi. Come dite? “Si, ma qual è il vantaggio di tutto questo nell’effettivo svolgersi della nostra vita quotidiana? Quale l’applicazione?” Oh, ce n’è più di qualcuna…
Il concetto dell’arbotron ricompare quindi sulla base degli stessi presupposti all’interno di uno studio sperimentale della Rice University (Houston, TX) di L.R. Bornhoeft et al, pubblicato nel 2016 col titolo “Teslaforesi dei nanotubi di carbonio”. Basato come desumibile dal titolo, sull’impiego della bobina d’emissione energetica di una bobina di tesla, al fine di proiettare una certa quantità di potenziale elettrico all’interno di un recipiente contenente il più sofisticato dei super-materiali scoperto nell’ultimo ventennio dello scorso secolo. Ovvero la struttura cilindrica formata naturalmente dagli atomi di carbonio, dotata di una singola parete capace di assumere, a seconda della sua chiralità (la frequenza e tipologia dei legami tra singole particelle) caratteristiche totalmente diverse di conduttività. Trovando conseguente collocazione a seconda dei casi, nella fabbricazione di microchip, transistor, LED, laser a ultravioletti…
Immaginate ora quindi, un sistema capace d’indurre l’assemblaggio al 100% di simili componenti senza nessun tipo di manipolazione diretta da parte di umani o macchine, ma soltanto grazie ai movimenti indotti da campi energetici e la naturale tendenza verso l’ordine dei processi naturali in atto; ciò potrebbe permetterci, nei fatti, di creare sistemi elettronici dalla complessità e prestazioni precedentemente inimmaginabili. Anche se potrebbero finire per avere un aspetto notevolmente diverso, potenzialmente organico e persino affine a colonie di microrganismi o veri e propri sciami d’insetti. Per la soluzione di una vasta serie di problemi allo stesso tempo, che potremmo definire metaforicamente come il raggiungimento del bordo della nostra capsula di Petri, verso destinazioni esterne che ancora non possiamo dirci capaci di concepire.
Fino alla cancellazione dei concetti stessi di sforzo e scarsità di risorse o tempo, ed auspicabilmente non oltre il punto critico di rottura. Poiché sempre incombente resta, secondo quanto determinato già dal pioniere della nanotecnologia Eric Drexler nel suo testo Engines of Creation del 1986, lo scenario apocalittico del grey goo o poltiglia grigia. In cui micro-macchine capaci di replicare se stesse, facendolo ad infinitum, finiscano per rimpiazzare gradualmente ogni singola forma di vita di questo pianeta e potenzialmente, anche oltre. L’auspicabile risultato ultimo, per quanto possiamo immaginare, di qualche dozzina di sfera che inizi a galleggiare formando un cervello. Che come sua imprescindibile prerogativa inizierà subito a interrogarsi sul come, e perché sia stato messo al mondo.