L’albero dei sogni di cemento nella piccola Parigi vietnamita

C’era una volta in Cina, la futura dea Chang’e. Splendida fanciulla innamorata, come tanto spesso capita in simili racconti, di un fiero ed abile guerriero, l’arciere Houyi. Accade quindi all’improvviso, come il cosmo permetteva in tali epoche soffuse di leggenda, che non uno, bensì dieci ardenti soli sorgessero nel cielo di un pianeta in apparenza condannato. Se non che lui, armato di tutto punto e salito a bordo del suo carro magico, salì rapidamente in cielo e con esattamente nove infallibili frecce, trafisse gli astri in eccedenza riportando in tempo la normalità. L’Imperatore di Giada nel suo palazzo celeste quindi, colpito da tanta maestria e coraggio, scelse di ricompensare l’uomo offrendogli il rarissimo elisir dell’immortalità. Ma Houyi, non potendo sopportare di sopravvivere alla sua amata compagna, ne fece dono a Chang’e, la quale scelse che l’avrebbe un dì bevuto, una volta raggiunta la soddisfazione su questa Terra. Ma l’ambizioso assistente del guerriero, Fengmeng, scoprì un giorno la segreta bevanda, e tentò crudelmente di sottrarla alla sua legittima proprietaria. Così Chang’è, non avendo nessun’altra possibile scelta, trangugiò a malincuore l’ambrosia divina prima di essere passata a fil di spada, venendo trasportata in salvo sull’astro lunare. Ed allora il suo amato, scoprendo che non avrebbe più potuto raggiungerla, mise in mostra una grande quantità di torte di riso Nian gao, le preferite del suo amore. E nel mezzo di un tale teatro della memoria, si suicidò.
Questa leggenda ha profonde radici nel folklore dell’intera Asia continentale, al punto da costituire l’origine della tradizione culinaria maggiormente associata al capodanno cinese, nonché il sinonimo letterale del concetto di fiaba degna di rappresentare l’intero canone narrativo di svariati popoli molto diversi tra loro. Così come quello, cui appartiene l’architetta ed artista Dang Viet Nga, che aveva scelto di chiamare questa insolita attrazione e punto di riferimento a Dalat con il nome di “Casa di Hang Nga” (il nome vietnamita di Chang’e) in forza della sua improbabile conformazione ingegneristica ed esteriore. Nata da un sogno, quindi, e l’incommensurabile forza immaginifica di questa donna, la residenza lunare magicamente trasportata nella più celebre città del sud del paese presenta numerosi aspetti in grado di distinguerla dal comune parallelepipedo abitativo con tetto d’ordinanza. A partire dall’aspetto organico dell’edificio principale, concepito per assomigliare al tronco di un albero assediato dal baniano (subg. Urostigma) ficus strangolatore del subcontinente indiano famoso per le labirintiche diramazioni delle sue propaggini, capaci di creare vere e proprie cittadine legnose all’interno delle quali sono soliti nascondersi uccelli, mammiferi ed altri animali…. Per non parlare dei briganti dei racconti d’avventura, come quelli confrontati nei romanzi di Sandokan, la tigre della Malesia. Non così pericolosa risulta essere, d’altronde, una visita presso l’insolita dimora, e benché le norme di sicurezza in merito alle ringhiere dei camminamenti sopraelevati che circondano l’edificio siano un po’ dubbie, l’intera struttura riesce a restituire un senso di solidità davvero significativo. Non per niente, la “leggiadra” sostanza scelta per dare una forma alla visione della creatrice vede un generoso impiego del cemento armato direttamente dipinto, coadiuvato alcuni dettagli in legno e metallo, permettendo le geometrie curvilinee così tanto determinanti nella sua visione d’artista. Completano quindi il memorabile scenario, ben tre case sull’albero (una quarta, in costruzione) ed la gigantesca scultura di una giraffa, all’interno della quale è situato un intero locale dove prendere il tè. Ma le surreali meraviglie di questo sito non si esauriscono di certo all’esterno, quando un rapido ingresso dal portone principale permette di accedere a quello che possiamo definire, senz’ombra di dubbio, uno degli hotel più bizzarri della nostra Era…

Il tema vegetale ricorre nell’albero in ferro-cemento di Dalat, in una strana contrapposizione d’influenze. Capace di dar forma a quel tipo di sincretismo dal quale, tanto spesso, scaturisce la coscienza ecologica dei nostri tempi.

La storia della Casa di Hang Nga, famosa oggi nel mondo con il nome più internazionale ed universalmente descrittivo di Crazy House, ha origini verso l’inizio degli anni ’70, quando la studentessa neolaureata di architettura presso la prestigiosa università di Mosca, figlia di uno degli uomini politici più influenti del paese, presentò al concilio cittadino di Dalat la sua idea avant-garde, per un qualcosa che potesse incrementare la fama della città sulle guide turistiche di tutto il mondo. Iniziando un’opera di convincimento destinata a richiedere un periodo di quasi vent’anni, causa l’aspetto rigoroso e classico del resto di questo centro urbano, un tempo colonia francese, e perciò caratterizzato dalla presenza di una grande quantità di ville in stile europeo. La stessa concezione fiabesca della Casa Pazza, come iniziò ad essere soprannominata, poco andava si allineava con il razionalismo tipico dell’architettura di un paese a conduzione comunista. Ma le potenzialità del progetto, unita forse ad una silenziosa intercessione del padre Truong Chinh, all’epoca segretario del partito comunista vietnamita e che sarebbe presto diventato secondo presidente della sua Repubblica, permisero alla fine di ottenere l’approvazione dell’imprevedibile proposta, dando inizio ai lavori che Dang Viet Nga, dimostrando una notevole capacità di far convergere i talenti, affidò esclusivamente a maestranze reclutate sul territorio. L’albero così crebbe a partire da quel fatidico giorno, sebbene non sarebbe mai potuto giungere a definirsi, a tutti gli effetti, completo, viste le continue opere di ampliamento ed imprevedibili modifiche che continuano ad essere apportate tutt’ora.
Come opera concepita al fine di trasportare la mente in un luogo distante, ma anche ricordare ai visitatori ed ospiti la bellezza intrinseca di un pianeta in difficoltà, gli interni della residenza terrena della Dea della Luna (con cui forse, chi può dirlo, la stessa autrice tende ad identificarsi) presentano una significativa varietà di temi naturalistici ed animaleschi. A partire dal ristorante, decorato con motivi oceanici ed il cui pavimento ritrae uno squalo gigantesco, per approdare alle 10 stanze tematiche, ciascuna dedicata a un’animale (aquila, tigre, formica…) e per associazione metaforica, un paese. Così la stanza dell’aquila, la più grande e decorata con uova giganti, si richiama alla forza politica degli Stati Uniti. Quella della tigre, con occhi spaventosi alle pareti, alla fierezza economica della Cina. E la formica con i suoi cunicoli all’umile operosità dei vietnamiti, che tra tali poli contrapposti fecero da sempre il proprio meglio per raggiungere uno stato di equilibrio sullo stretto ponte della storia. Meno chiaro di suo conto, il significato della stanza del canguro australiano, in cui un camino non particolarmente utile nel clima caldo ed umido di Dalat si trova collocato in corrispondenza della tasca dell’animale. Altrettanto notevoli, nel frattempo, gli ambienti comuni dell’albergo, in cui rami intricati, ragnatele, funghi e rocce artificiali contribuiscono a creare l’effetto complessivo di trovarsi all’interno di una sorta di bosco magico, come testimoniano le espressioni letteralmente estasiate sfoggiate in modo spontaneo dalla moltitudine di YouTubers che si sono avventurati oltre i confini di un tale regno fatato.
Con un’età che supera oggi gli ottant’anni, la visionaria donna che seppe dar forma a questo ameno luogo vive quindi ancora all’interno della sua creazione, e sebbene la gestione dell’albergo sia ormai da tempo stata trasferita al figlio Nguyen, rilascia tutt’ora interviste ed intrattiene occasionali conversazioni con i visitatori. Per chiunque desiderasse farlo, inoltre, è possibile visitare la casa della Luna anche senza prenotarvi un soggiorno, tramite il pagamento di un economico biglietto d’ingresso. Ben pochi, a fronte di una simile esperienza ed a giudicare dalle recensioni reperibili online, sembrerebbero restarne delusi.

La zona privata della casa di Hang Nga, come evidenziato da questa rara intervista all’architetta e proprietaria, presenta arredi e decori per lo più in stile occidentale. Nonché una grande quantità di ritratti e fotografie di quest’ultima, come si confà ad una vera eclettica creativa.

Secondo una delle numerose leggende di matrice buddhista create come seguito della leggenda di Chang’e/Hang Nga, la Dea avrebbe un giorno fatto ritorno sulla Terra, ma con le sembianze umili di un santo bodhisattva, salvatore delle anime intrappolate dal tragico recinto dell’Ego. Così giungendo a lato della strada presso quella donna che sembrava essere a tutti gli effetti una mendicante, una volpe, una scimmia ed un coniglio scelsero di fare qualcosa per aiutarla. La volpe rubò per lei del cibo, la scimmia raccolse della frutta. Ma poiché il coniglio non aveva alcuna capacità risolutiva, fece di per se l’unica cosa possibile, gettandosi sul fuoco affinché Chang’e potesse mangiare la sua stessa carne. Al che, rivelata immediatamente la sua natura divina, lei lo trasse in salvo e lo trasportò con se fino all’astro lunare, dove sarebbe diventato celebre come il coniglio di giada. Tanto noto in tutto il mondo che persino l’astronauta Ronald Evans, durante il primo allunaggio del 1969, menzionò scherzosamente la leggenda durante un dialogo con il controllo di missione, affermando di stare gettando sguardi alla ricerca della “Fanciulla cinese Chang’O con il suo grosso coniglio”. Senza sapere che la coppia ormai da tempo, a quanto ci è concesso di capire, aveva preso residenza sul nostro inconsapevole pianeta. Proprio presso questa labirintica residenza nella parte meridionale della penisola vietnamita.

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