“Questo è il mio fagiolo, ce ne sono molti uguali, ma questo è il mio. La mia zampogna è la mia migliore amica. È il segno appariscente del mio amore. Devo dominare il mio pallone da spiaggia, così come domino il mio stesso amore.” Parole forti da una foca molto grande, imponente addirittura. Il Dio peloso della spiaggia in riva all’isola del ghiaccio senza tempo. Come credi di poter varcare i limiti di questo territorio, giovane aspirante? Tutte le donne del vicinato, e le loro sorelle, e le loro figlie, aspirano a guardare solamente me. La tua borraccia è poco più che un fazzoletto, rispetto alla mia: “Osserva! PFHPFHPFHFPFH” Mentre l’acqua del solenne bagnasciuga si ritira, nell’apparente intento di formare l’efficiente prototipo naturalistico di un’arena, il focoso pinnipede da appena una dozzina di natali e tre quintali circa avanzò imperioso, sperando di poter sfidare finalmente il maschio dominante di oltre 400 Kg. Sulla nera testa, già pronta l’alta cresta della prima delle due, e sotto di essa l’ineguale massa dell’altra vescicolare lanterna color vermiglio infernale. Eppure entrambi gli ornamenti, nonostante l’aspetto fragile e ingombrante, non sembravano in alcun modo rallentarlo, mentre sobbalzando sulle pinne drammaticamente insufficienti a sostenere un’andatura agevole sopra la sabbia, caricava l’alta sagoma del suo nemico ed auto-dichiarato dominatore. L’aria rarefatta dello gelido scenario sembrò fare una pausa drammatica, mentre i versi gutturali dei giganti risuonarono a parecchie centinaia di metri di distanza. Sulla cima della rupe all’altro capo della baia, l’intero gruppo delle foche femmine voltò i propri placidi sguardi, come per l’impulso telepatico di un demiurgo artico improvvisamente risvegliato. Così le zannute belve spalancarono le fauci. Guardarono per pochi attimi agli uccelli nel distante cielo, prima di abbattere la propria massa significativa in una zuffa senza nessun tipo di quartiere. La spiaggia bianca, in breve tempo, si tinse del colore di una rosa, colta presso le distanti rive dell’oceano Settentrionale.
Scene che si svolgono ogni anno, puntualmente, tra aprile e giugno, durante la “primavera” di luoghi dal clima abbastanza gelido, da poter congelare una lacrima prima che abbia il tempo di toccare terra: la Norvegia, l’arcipelago delle Svalbard, l’isola di Bear, l’Islanda, il golfo di Saint Lawrence in Quebec. E naturalmente, la vasta e desolata Groenlandia, landa selvaggia dove ancora creature come la foca incappucciata (Cystophora cristata) possono trovare tutto lo spazio di cui hanno bisogno per sopravvivere e condurre le proprie esistenze in maniera (relativamente) indisturbata. Un proposito che include, secondo il preciso copione perfezionato attraverso i secoli, la realizzazione occasionale di tali sanguinosi scontri, rivelandosi capaci d’infliggersi significative ferite a vicenda. Certo, a meno che, sfruttando una propria particolare propensione evolutiva, non riescano a decidere chi debba primeggiare sulla base di quel vistoso tratto di cui la biologia ereditaria è riuscita a dotarle. Se avete presente la proboscide dell’elefante marino (gen. Mirounga) dovreste, a questo punto, riuscire a immaginare ciò di cui stiamo parlando: una vistosa appendice floscia di pelle spessa e raggrinzita, che si agita a casaccio mentre l’animale solleva e muove la grande testa ruggendo tutta la sua furia invereconda. Ma il sistema d’attrazione usato da questi alternativi rappresentanti della famiglia Phocidae si espleta in una maniera che potremmo definire, sotto diversi punti di vista, decisamente più sofisticato. Grazie alla capacità di chiudere a comando le proprie gigantesche narici infatti, questi guerrieri del bagnasciuga possono ridirezionare la copiosa aria furiuscente dai propri polmoni all’interno di una serie di camere d’aria, la prima delle quali si trova in corrispondenza della fronte dell’animale. E la prima, alquanto incredibilmente, in corrispondenza della membrana che separa gli spazi all’interno del naso. Il che genera, in rapida sequenza, prima un rigonfiamento carnoso di colore nero e quindi un altro, sufficientemente venoso da apparire del rimanente colore utilizzato come titolo per il romanzo francese di Stendhal. Black & Red, the Devil’s dread. This one litoral, you shall not thread…
Tassonomicamente caratterizzate da aspetti genetici ed ereditari tali da distinguerle in maniera sensibile dalle altre foche viventi, tra cui la lunghezza del cranio, la disposizione del palato e la formula numerica dei denti, queste creature esclusive del Circolo Polare Artico hanno anche un comportamento insolito, che le porta a trascorrere completamente da sole la maggior parte dei mesi dell’anno, mentre migrano attraverso l’intero estendersi del proprio areale. Almeno fino a che, nel periodo attentamente collocato in calendario, non s’incontrano tutte assieme nel periodo in cui vanno incontro alla muta stagionale, dando inizio alle danze e i confronti amorosi tra i diversi maschi che aspirano all’atto riproduttivo. Soltanto una volta deciso l’ordine delle diverse coppie, quindi, si potrà procedere a mettere al mondo il singolo piccolo dal dorso bluastro, che nasce già perfettamente precoce ed abile a gettarsi in acqua e nuotare, se necessario. Segue a questo punto il periodo più breve di allattamento mai osservato in un mammifero, con soli quattro-cinque giorni durante cui dovrà nutrirsi esclusivamente del fluido materno raddoppiando addirittura le proprie dimensioni, prima d’iniziare autonomamente a cacciare i pesci, i molluschi e gli artropodi che costituiranno per il resto della vita la parte maggiore della sua dieta. Ciononostante, la maturità sessuale non verrà raggiunta prima dei cinque-nove anni di età, mentre i due sessi inizieranno a differenziarsi in modo sensibile, ed assumere la colorazione a macchie adulta, verso il sopraggiungere del quarto; periodo durante il quale la differenza tra le rispettive dimensioni continuerà ad aumentare, mentre i maschi acquisiranno le vesciche gonfiabili che caratterizza il loro ruolo battagliero.
Importante osservazione effettuata nel 1986 dagli studiosi Kovacs/Lavigne, e di nuovo nel 2002 da Perrin et al, è che il cosiddetto cappuccio della foca abbia non soltanto al funzione di attirare l’attenzione del gentil sesso ma anche quella di produrre una serie di particolari suoni, tra i 500 e 6 Hz, che soprattutto sott’acqua sembrerebbero avere lo scopo di comunicare tra gli esemplari, spaventando o confondendo allo stesso tempo le creature marine capaci di orientarsi mediante l’impiego dell’ecolocazione. Anche per questo si è a lungo ritenuto, per fortuna erroneamente, che le C. cristata potessero risentire a loro volta dell’effetto nefasto dei sonar prodotti da veicoli ed installazioni umane, finendo per spiaggiarsi in luoghi inappropriati. Teoria risultata piuttosto facile da smentire in laboratorio (Kvadsheim et al, 2010) mediante l’impiego di dispositivi acustici all’interno di uno spazio controllato. Queste foche d’altronde, con il principale rischio di salute dato dell’infezione da parte del verme nematode Dipetalonema spirocauda, presentano nondimeno una mortalità di solo il 7-15% annuale degli esemplari adulti, con una popolazione complessiva stimata attorno ai 350.000 esemplari e una durata della vita di fino a 35 anni (qualcosa di meno per i maschi) capace di offrirgli numerose occasioni di mettere al mondo una futura prole. Il che non è bastato, ad ogni modo, per salvarle dall’indice delle specie vulnerabili dello IUCN, causa l’impronta ecologica significativa e la natura estremamente specifica del loro ambiente d’appartenenza.
Un altro importante adattamento di queste foche alla vita molte decine di gradi sotto lo zero è la loro capacità di controllare e ridurre il riflesso involontario che porta il corpo a rabbrividire, soprattutto quando si trovano sott’acqua, permettendogli in questo modo di conservare le energie e l’ossigeno, potendo estendere per più a lungo le loro vitali spedizioni finalizzate a procacciarsi il cibo. Altrettanto utile, a tal fine, la fitta rete di capillari che irrora il loro cervello, permettendogli di resistere all’ipossia. Per lunghe immersioni predatori permettendo, che possono includere i soliti orsi polari, le orche assassine e gli squali, tutti egualmente capaci di trovare, seguire ed annientare una foca colta impreparata all’interno del loro ambiente naturale. Evento a seguito del quale la doppia “arma” della loro vescica gonfiabile si rivela, alquanto prevedibilmente, del tutto inefficace.
Ma il predatore più pericoloso e spietato di queste creature, come di consueto, è storicamente stato sempre l’uomo, interessato alle loro carni, al grasso prezioso ed il notevole pelo dalla livrea maculata. Con una quantità letteralmente spropositata di esemplari catturati ed uccisi per un intero secolo e mezzo a partire dal XVIII, stimata attorno ai 500.000 nei soli anni tra il 1820 e il 1860. Situazione destinata a continuare fino all’introduzione dopo la seconda guerra mondiale di leggi internazionali per proteggere questi ed altri animali particolarmente rappresentativi del Polo Nord. Per cui indipendentemente dal fatto che la popolazione globale degli orsi polari sia effettivamente in calo (quesito in merito al quale i biologi sono sorprendentemente discordi) appare chiaro come in luoghi tanto caratteristici ed ecologicamente equilibrati, la rimozione di una singola fonte di carne potrebbe causare il crollo dell’intero sistema. Che le zampogne continuino a produrre l’arcano canto, dunque. Ed il sangue a macchiare la costa congelata. Poiché l’eterno conflitto non conosce alcun tipo di riposo, mentre la foca che dovesse fermarsi, anche soltanto per un transitorio attimo, sarà perduta.