Nel compendio analitico pubblicato nel 2001 di Carole T. Gee dell’Università di Bonn si parla approfonditamente dei fossili scoperti appartenere tutti alla stessa pianta, databili al Cretacico Superiore (compreso tra 99,6 ± 0,9 e 65,5 ± 0,3 milioni di anni fa) e ritrovati in Nord America, Egitto, Oceania, India e persino l’Inghilterra. Di quello che potrebbe esser stata, a suo tempo, una delle singole varietà d’arbusti maggiormente diffuse sul pianeta Terra. Il che rende alquanto stupefacente il fatto che oggi, di questa caratteristica rappresentante sempreverde della famiglia delle Arecaceae (palme) resti unicamente una sola specie di un solo genere, chiamato scientificamente Nypa fruticans ed il cui areale mostra di essersi progressivamente ridotto, fino ad una striscia grossomodo corrispondente alla parte tropicale del continente d’Asia e particolarmente all’interno di acquitrini essenzialmente disabitati. Spazio entro il quale tuttavia, questo prodotto straordinariamente versatile della natura è largamente utilizzato per le sue notevoli proprietà gastronomiche, l’utilità delle grandi foglie in qualità di materiale da costruzione ed il prodotto collaterale di una grande quantità di materiale di scarto collaterale, tale da farne una coltivazione ideale per la produzione intensiva di biocarburanti, largamente superiore come prestazioni al mais e la canna da zucchero più comunemente utilizzate. Una questione di certo esemplificata, quest’ultima, dall’eccezionale aspetto e morfologia del prodotto stagionale della sua infiorescenza con finalità riproduttive, oggetto legnoso dal diametro di fino a 25 cm, dalla solidità impenetrabile simile a quella di una noce di cocco (il cui gusto pare sia abbastanza simile) ma la forma bitorzoluta di un letterale oggetto cosmico, scagliato in distanti orbite al termine dell’antica creazione di un sistema astrale.
Per comprendere l’effettiva biologia della palma Nipa occorre quindi qualificarla mediante l’apposizione che tanto spesso viene incorporata all’interno del suo appellativo d’uso comune, inclusivo del termine “mangrovia” proprio per la sua caratteristica abitudine, del tutto unica tra le palme, di prosperare all’interno di un ambiente acquoso, avendo fatto di tale contesto il fondamento stesso della sua ecologia prodotta dai lunghi millenni d’evoluzione. Insolita persino all’interno di un simile contesto, tuttavia, questa pianta non si presenta dotata delle consuete alte radici esposte all’aria né a dire il vero alcun apprezzabile tipologia di tronco, vedendo piuttosto le ampie diramazioni della sua corona di foglie piumate sbucare direttamente dal pelo dell’acqua, neanche fossimo di fronte all’effettiva conformazione di un cespuglio. Facendo onore alla sua qualifica di palma, tuttavia, la Nipa possiede effettivamente un fusto ma tale costrutto è interamente situato sott’acqua ed invero, la terra stessa, come insolita metodologia d’ancoraggio contro il moto reiterato delle onde e delle maree. Come ulteriore punto di distinzione nei confronti delle altre mangrovie questa pianta disdegna inoltre l’acqua eccessivamente salata, potendo crescere con successo al massimo nello spazio semi-dolce delle foci fluviali, suoi legittimi spazi d’appartenenza. Ambiente all’interno del quale la specifica funzionalità del suo strano frutto può finalmente rivelarsi, in tutta la sua incomparabile efficienza…
Dovendo a questo punto approfondire l’insolita forma bitorzoluta della nipa, inteso come pegno della natura donato generosamente a tutta la collettiva e variegata popolazione dei gourmand, potrà esserci utile un paragone trasversale nei confronti dell’ananas, la cui pianta dalla natura totalmente diversa è tuttavia solita riprodursi mediante lo stesso efficiente sistema dell’infiorescenza: un gruppo globulare di fiori, nel presente caso con conformazione a grappolo paragonabile all’amento di un salice, destinati a trasformarsi nelle parti costituenti di un’unica colonia inscindibile, ovvero il frutto finito in cui ciascun membro diventa un singolo “bitorzolo” e si solidifica assieme agli altri, per poi separarsene auspicabilmente una volta maturo, venendo a seguito trasportato via dalla corrente. Ma è la forma indivisa quella in cui viene normalmente raccolto e processato l’apprezzato frutto, in cui ciascuna scaglia dev’essere staccata via tirando con forza prima della consumazione e laboriosamente aperta con strumenti sufficientemente affilati, in un processo non particolarmente accessibile ai non iniziati. Al concludersi del quale l’unica parte commestibile del seme bianco e morbido contenuto all’interno, detto attap chee, potrà essere mangiata direttamente, usata come guarnizione per dolci o ancor più frequentemente, utilizzata per un infuso rinfrescante assieme a copiose quantità di zucchero e l’irrinunciabile apporto del ghiaccio. Il che non è d’altra parte l’unico collegamento della N. fruticans al mondo delle bevande, visto il successo ottenuto mediante l’impiego di recipienti denominati tapayan nelle Filippine ed attaccati in via permanente ai rami in maniera analoga a quanto fatto con altre varietà di palme, per l’incisione periodica della pianta finalizzata alla raccolta della dolce linfa, in una pratica certamente crudele nei confronti del singolo esemplare che tuttavia non si discosta molto da quella economicamente proficua dello sciroppo d’acero nordamericano. Fatta eccezione per l’inquietante passaggio giudicato necessario di percuotere il frutto per una quantità di almeno 50 volte al giorno mediante l’apposito mazzuolo, contribuendo idealmente al flusso proficuo di tale ambrosia dorata. Tale succo chiamato tuba viene quindi sia bevuto direttamente che concesso in “dono” durante la stagione secca ai maiali, in una pratica che si crede propedeutica al successivo addolcirsi della loro carne. L’industria che ruota attorno a questa antica specie vegetale vede d’altronde uno sfruttamento proficuo di ogni singola parte costituente incluse le foglie più giovani, utilizzate come materia prima per l’arrotolamento di sigarette mentre quelle più forti e grandi vengono impiegate come accennato sopra per la copertura dei tetti delle case di svariate popolazioni del meridione asiatico. Lo stesso tronco centrale o rachide, nel frattempo, viene talvolta tirato fuori scavando ed impiegato per la costruzione di mura e palafitte. Anche i petali dei fiori, dal canto loro, sono utilizzabili per la preparazione di una caratteristica tisana. Studi sull’effettiva fattibilità di una coltivazione intensiva della nipa ne hanno quindi giudicato particolarmente desiderabile nei territori adatti, data la stretta interconnessione con una larga quantità d’industrie culturalmente rilevanti oltre a quella moderna del biocarburante, tramite lo smaltimento e riconversione della grande quantità di scarti, non ultimo il coriaceo, impenetrabile involucro legnoso del suo inaccessibile frutto galleggiante.
Mutazioni, situazioni, allucinazioni. Di un qualcosa che a tal punto si discosta, dalla cognizione largamente data per scontata dell’aspetto presunto di un frutto e la sua pianta generatrice, da far sospettare di essere sconfinati a pieno titolo in una diversa epoca o universo quantistico delle fogliose circostanze.
Mentre ecco come il semplice fatto che non soltanto un tempo la palma in questione fosse assai più diffusa, bensì letteralmente onnipresente nell’intera collezione dei continenti, lascia comprendere come il sentiero preso dall’evoluzione sia talvolta la parziale conseguenza di una serie di fattori casuali e imprevedibili, tanto che una specie può venire surclassata, nonostante avesse chiaramente i numeri per primeggiare. E sarà forse questa volta l’interessata mano dell’uomo, entro la fine della corrente epoca geologica dell’Eocene, a capovolgere di nuovo la situazione, permettendo alla sepolta palma di tornare in alto tra i suoi simili. In senso metaforico, s’intende, visti gli “appena” 9 metri d’altezza raggiunti al massimo dalle sue foglie, sopra il livello della beneamata palude. A meno di volersi immergere, con maschera e le pinne, fino alle occulte origini della questione. E mettersi, senza particolari esitazioni, a scavare.