È perciò soltanto scrutando verso la lunga strada delle stelle, che l’umanità può sinceramente interrogarsi sul valore dei risultati conseguiti fino a questo momento, l’effettiva necessità di adattarsi a nuove circostanze e la flessibilità degli approcci applicabili al futuro bisogno. Come realizzarsi, come sopravvivere, come respirare, come bere o mangiare… In luoghi dove ogni singolo seme germogliato dovrà essere per forza l’essenziale conseguenza di un approfondito processo di preparazione, basato sulle nostre conoscenze tecnologiche, coadiuvate da un sincero senso ingegneristico e creatività operativa. Poiché esistono dei luoghi, su questo pianeta, ove l’adattamento dei principi operativi agrari e biologici è tutt’altro che istintivo e spontaneo. Ma esistono sempre, senza eccezioni, delle scappatoie adattabili per l’obiettivo finale. Pensate, a tal proposito, a una nazione nell’esatto centro dell’Oceano Atlantico quasi del tutto priva di vegetazione ad alto fusto e a poche centinaia di chilometri dal Circolo Polare Artico, con una temperatura media annuale non più alta di 5 gradi (e in grado di raggiungere occasionalmente i -38) i cui abitanti si sono storicamente nutriti soltanto di carne, pesce, cavolo, patate e ortaggi da radice. Chiaramente, la frutta tropicale in tale luogo tenderà a raggiungere un costo proibitivo, sensibilmente superiore alla media dei paesi europei. Il che non avrebbe del resto impedito, nella prima parte del secolo scorso, all’Islanda di diventare uno degli importatori di banane pro capite più entusiastici al mondo (record matematicamente più accessibile, quando si vanta una popolazione totale di appena 300.000 abitanti).
Opportunità di guadagno difficile da tralasciare, in modo particolare a partire dagli anni ’20, quando i progressi compiuti in ambito di sfruttamento dell’energia geotermica avrebbero portato alla costruzione delle prime serre riscaldate 24 ore su 24, capaci di garantire un gradiente di temperatura rispetto all’esterno non troppo simile all’ipotetica costruzione futura di una colonia sulla Luna o Marte. Furono compiuti, quindi, i primi esperimenti giudicati incoraggianti, mentre schiere d’imprenditori approntavano gli spazi climaticamente controllati dove porre in opera la più vasta piantagione possibile del frutto giallo e ricurvo per massima eccellenza, i cui valori nutritivi sono pari soltanto all’invitante sapore paragonabile a un vero e proprio tesoro della natura. Ma la deludente scoperta, purtroppo, non tardò ad arrivare: fu scoperto infatti come il caldo fosse solamente una parte dell’equazione, con tutte le varietà prese in esame influenzate parimenti dalla lunghezza e frequenza delle ore diurne. Il che avrebbe ridotto sensibilmente la produzione ottenibile durante i mesi dell’oscuro inverno islandese, rallentando ulteriormente la crescita di una pianta erbacea già tanto difficile e laboriosa da sfruttare in un contesto commerciale. Il sogno fu perciò dichiarato, senza troppe cerimonie, un sostanziale fallimento e le piante vennero donate, con principali finalità di studio ed approfondimento, alla divisione rilevante dell’Università Agraria Nazionale, con sede principale a Hvanneyri. Eravamo prossimi, ormai, agli anni ’50 e l’oculato investimento dei fondi accademici stava iniziando a dare forma all’attuale aspetto del sito agricolo (e turistico) Hveragerdi, chiamato occasionalmente “la capitale termale del mondo intero”.
Tra il vapore incline a risalire verso l’alto in attraenti volute dalle fessure della crosta terrestre, sorsero una dopo l’altra serre dall’ingegnosa architettura. Ciascuna interconnessa, in modo assai rilevante, ad un sofisticato sistema di tubi e superfici termiche. Entro cui le invitanti bacche oblunghe, inconsapevoli di tutto, continuavano ostinatamente a propagar se stesse. E non solo!
L’ingenua leggenda secondo cui l’Islanda avrebbe in gestione “la più vasta piantagione di banane in Europa” (idea difficile da contestualizzare) iniziò quindi ad essere ripetuta con enfasi successivamente alla nascita dei siti d’infotainment e vari social network del mondo digitalizzato. Il che, del resto, non avrebbe potuto contribuire in misura minore a renderla fattualmente reale, con concorrenti insigni come Francia, Italia e soprattutto la Spagna, capace di sfruttare a tal fine il clima particolarmente adatto delle isole Canarie, geograficamente inserite a pieno titolo nel continente africano. Questione che non rende in alcun modo meno degni di nota i risultati conseguiti dal paese vichingo per medievale inclinazione, la cui inesauribile riserva di calore proveniente dal sottosuolo e corsi d’acqua sfruttabili per soluzioni idroelettriche hanno contribuito a rendere uno dei primi paesi alimentati unicamente da energie sostenibili fin dall’inizio del nuovo millennio. Ponendo le basi di un miracolo economico che gli avrebbe permesso di riprendersi in pochi anni dopo il crash della valuta e relativo potere d’acquisto internazionale a seguito della grande crisi globale del 2008, che vide il fallimento contemporaneo delle tre principali banche con partecipazioni pubbliche, riportando il costo d’importazione di frutta e verdura agli elevati valori d’anteguerra. Il che avrebbe costituito, per l’Università Agraria, l’occasione di veder ampliate le sue strutture situate a Hveragerdi, con il fine d’incrementare la produzione agricola domestica e contribuire in questo modo a contenere un debito in corso d’aumento sensibilmente vertiginoso. Negli anni immediatamente a seguire quindi, con l’ampliamento delle serre soggette al riscaldamento geotermico, il personale a conduzione accademica avrebbe intrapreso la coltivazione di un ulteriore grande numero di frutti ed ortaggi, andando incontro ad un particolare successo con pomodori, peperoni e soprattutto cetrioli, il cui intero fabbisogno nazionale sarebbe stato ben presto soddisfatto mediante l’impiego di una simile soluzione. Mentre la produzione comparativamente limitata di banane, con una quantità totale di circa 600-700 piante per un massimo di 2 tonnellate di prodotto l’anno, avrebbe continuato a dimostrarsi troppo poco significativa per la commercializzazione, portandone a un consumo meramente informale da personale e studenti dell’università, per non parlare dei turisti in visita presso le sorgenti termali della celebre località. Il che rientra perfettamente nell’odierna logica dell’economia di scala, in cui la mancanza del raggiungimento di una quota rende non-competitivi anche includendo nel calcolo i costi del trasporto da lontani paesi, con un danno conseguente e misurabile per quanto concerne l’impronta ecologica dell’uomo. Una questione che soltanto lo specifico approccio dimostrato da paesi come l’Islanda, può iniziare ad affrontare e risolvere, mediante una progressiva riduzione dell’importazione di carburanti fossili che dovrebbe, secondo le stime più ottimistiche, raggiungere lo zero assoluto attorno all’anno 2020, facendone il primo paese alimentato esclusivamente da fonti rinnovabili, senza una conseguente riduzione del prodotto industriale ed economico nazionale. Un obiettivo capace di contribuire a rendere l’isola uno dei luoghi più avanzati, pacifici e tecnologicamente competenti al mondo, secondo gli indici di sviluppo umano pubblicati dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP). Ma neppure i più aurei riconoscimenti possono sostituire, per quanto ci vadano vicino, il gusto inconfondibile e la forma straordinariamente invitante di una banana.
Ciò detto e nonostante le limitazioni rimaste tutt’ora insuperabili nella coltivazione intensiva da parte degli esperti botanici d’Islanda, la loro particolare interpretazione del genus Musa potrebbe tornare certamente utile al benessere di tutti. Tali piante da frutta infatti, cresciute in condizioni di totale isolamento dai propri simili, rappresentano a distanza di tanti anni un ceppo totalmente indipendente e privo di manipolazioni genetiche, la cui potenziale immunità da parassiti e malattie come il germe di Panama andrebbe presa in approfondito esame. Potendo prevenire, in un ipotetico e prossimo futuro, una catastrofe globale paragonabile a quella che portò negli anni ’50 all’estinzione completa della varietà Gros Michel considerata un tempo superiore nel gusto ed aspetto, portando all’attuale affermarsi della Cavendish che trova oggi un posto d’onore nel corso delle nostre spese fruttariane al supermercato di zona.
Aggiungete a tutto ciò la presa di coscienza, spesso volutamente spostata in secondo piano, di quale industria di sfruttamento e appiattimento ecologico si trovi dietro alla coltivazione intensiva di questo frutto, in molti paesi africani, asiatici e del Sudamerica, e capirete come la messa in opera di una filiera indipendente anche limitata da speciali condizioni geologiche possa, in più di un modo, contribuire alla ricerca di soluzioni alternative. Il che non è che l’ulteriore dimostrazione di come ogni cosa faccia parte di un unico sistema, rendendo vana la teoria secondo cui la società contemporanea dovrebbe “risolvere i problemi sulla Terra” prima di rivolgere il suo sestante in direzione di mondi alternativi e distanti pianeti. Dove giungeremo forse, un giorno, accompagnati dall’intero comparto delle nostre piante, animali d’allevamento e funghi preferiti sotto solide pareti derivanti dai secoli di entusiastica ricerca ed approfondimento. E chi può dire come cresceranno simili banane delle auguste circostanze, illuminate dalla luce di un altro Sole…