La distruttiva fame arboricola del porcospino nordamericano

Nella nebbia di un’alba umida e fredda, il giovane melo sorgeva stolido nel mezzo del giardino pubblico recintato sul confine esterno della città di Albuquerque. Appariva chiaro, tuttavia, la natura per lo più finale di una tale condizione tutt’altro che duratura nel tempo. La corteccia dello snello arbusto se osservato a partire dalla chioma superiore appariva infatti frastagliata a mezz’altezza, prima di cessare in maniera pressoché completa verso i due metri dal suolo. Stretti canali trasversali, in un susseguirsi di linee accuratamente intagliate, ricoprivano il legno rimasto nudo di un color marrone chiaro, ricoperto di uno stretto strato di linfa simile al sangue di una vittima innocente, già contribuendo ad attrarre gli insetti ed i microrganismi che avrebbero sancito l’ora del botanico tramonto. Piccole mezzelune legnose, scure tra le foglie autunnali, costellavano l’area circostante il povero tronco già condannato a un lento processo di disfacimento. “Ca…Castoro? A queste latitudini?” Fece il primo dei due custodi colpito dall’inconcepibile scena di vandalismo. Fu in quel momento, tuttavia, che un un lieve movimento tra le siepi tradì la silenziosa controparte. Una schiena vistosamente irsuta spuntò dondolando tra i radi cespugli del sottobosco. Preceduta da un muso tozzo e baffuto, non del tutto dissimile da quello di una comune cavia domestica nella sua gabbietta situata sul tavolo della cucina. Se non che il roditore in questione, considerati i vasti spazi della natura statunitense, doveva pesare un minimo di 15-20 Kg. La strana bestia emise un sommesso richiamo, simile al suono di un kazoo, per poi voltarsi ed avanzare lentamente di lato. Ben sapendo per l’esperienza che nessuno, proprio NESSUNO si sarebbe sognato di avvicinarsi.
Con una strategia difensiva sostanzialmente simile a quella della puzzola (chi tocca muore, non sto scherzando) uno dei più rappresentativi mammiferi degli inverni nordamericani, dagli Stati Uniti al Canada e nell’intero territorio dell’Alaska è famoso per la sua insolita abitudine di saltare completamente il letargo, potendo fare affidamento su una dieta a base vegetale piuttosto variegata se gli è concesso dal clima (frutta, bacche, radici, germogli, erba particolarmente nutriente) per quanto diviene piuttosto concentrata su un’unica pietanza quando uno spesso strato di neve comincia a ricoprire ogni possibile alternativa. A quella pietanza, in genere giudicata poco saporita, che è l’interfaccia legnosa tra la corteccia e l’interno del tronco, chiamata scientificamente lo strato del “cambio”. Ed è così che il fenomeno si ripete, fin da tempo immemore, di alberi dalla perfetta in salute che si ritrovano improvvisamente scartati come una confezione di patatine per l’intero vasto areale di questa bestia dalle abitudini notturne, senza che nessuno possa essenzialmente fare alcunché per prevenirlo. Benché l’impiego di recinzioni e trappole possa dimostrarsi variabilmente valido a seconda dei casi, non è semplicemente possibile difendere tutti gli alberi di una foresta. Ed è così che le frondose vittime verticali, una dopo l’altra, continuano a cadere sotto l’insistente masticazione dell’Erethizon dorsatum, più comunemente e graziosamente detto in lingua italiana, l’ursone…

Il tipo di danno arrecato dall’ursone ai tronchi può essere riconosciuto a colpo d’occhio rispetto a quello arrecato da castori, cervi o altri abitanti della foresta. Permettendo, in conseguenza di questo, l’implementazione di contromisure adeguate. – Via

Rappresentante a pieno titolo di quell’infraordine degli Hystricognathi che include anche il maggiore dei roditori italiani ed africani, l’istrice o Hystrix cristata, l’ursone del Nuovo Mondo appartiene tuttavia ad una famiglia distinta ed in funzione di ciò presenta alcuni tratti di distinzione assolutamente degni di essere elencati. Prima di tutto, una dimensione inferiore di circa un terzo, ma anche la diversa disposizione delle importantissime spine dorsali, situate in maniera isolata piuttosto che a grappoli e nascoste tra i lunghi peli cui finiscono per assomigliare. Ciò per l’abitudine, ben collaudata, da parte dell’animale a sorprendere i suoi potenziali predatori, sollevando all’improvviso la coda muscolosa per appoggiarsi con forza contro eventuali musi indagatori, con conseguenze terribili e fin troppo facili da immaginare. Arma comune ad entrambe le specie fin qui citate, infatti, restano gli appuntiti aculei evolutisi a partire dall’ispido manto ed inframezzati ad esso, concepiti per staccarsi dall’animale non appena ricevono una sollecitazione significativa. Evento a seguito del quale la particolare conformazione degli stessi provvede ad ancorarli letteralmente nella ferita dell’attaccante, portando a dolore, infezioni ed infine una lenta ed orribile morte. Va da se dunque che il mimetismo e la velocità di fuga non siano doti particolarmente necessarie per questo particolare abitante dei boschi, dotandolo di un’andatura tranquilla e dinoccolata che tutto parrebbe suggerire tranne particolari doti d’agilità inerente. Ciò detto, rispetto all’istrice delle nostre terre la sua controparte dall’altro lato dell’Atlantico presenta una particolare abilità, che lo rende particolarmente inviso a tutti i possidenti di un giardino arbustivo: quella di arrampicarsi, grazie all’uso degli affilati artigli, fino ai più gustosi ed attraenti rami dello strato soprastante. Una visione notevole e per certi versi vagamente surreale, di questa creatura dalle tonalità cupe che mastica con trasporto ogni parte raggiungibile della pianta, mediante lo sfruttamento dei propri denti dotati di apposite scanalature.
Stanchi di dover sopportare simili invasioni vandaliche, oltre alle conseguenze spesso anche gravi di un’incontro tra il porcospino e i cani (che purtroppo, almeno in questo particolare caso, non sembrano imparare MAI la lezione) gli abitanti delle zone rurali statunitense hanno intrapreso varie campagne nel tentativo di controllarne o contenerne la popolazione. Scoprendo un’inaspettata efficacia del repellente per scoiattoli e lepri dal nome commerciale di Thiram, oltre alla comprovata (ma dispendiosa) soluzione delle recinzioni con filo “caldo”, ovvero elettrificato. La migliore contromisura contro l’eccessivo moltiplicarsi dei porcospini, tuttavia, resta l’introduzione artificiale della martora di Pennant (Pekania pennanti) aggressivo mustelide capace di superare in astuzia e rapidità il placido ursone, riuscendo a girargli attorno ed attaccarne il muso fino allo sfinimento, per poi nutrirsene a partire dal ventre morbido e senza riportare alcun danno a causa degli aculei. Strategia diametralmente opposta a quella del Puma concolor, o leone di montagna che dir si voglia, che semplicemente aggredisce il porcospino in maniera frontale sopportandone gli aculei, per poi ucciderlo e divorarne le parti commestibili prima ancora d’iniziare a risentire delle inevitabili conseguenze. E pentirsene amaramente, in maniera ahimè fatale in un’alta percentuale d’eventi…

L’agilità verticale di questo animale non cessa mai di sorprendere, vista la sua propensione a muoversi in maniera per lo più tranquilla e la poca attenzione ad eventuali pericoli situazionali. È tutt’altro che ignota, del resto, l’eventualità di cadute con conseguente auto-perforazione mediante gli aculei, che proprio per questo sono naturalmente ricoperti di una speciale sostanza antibiotica disinfettante.

Occorre tuttavia specificare come la sistematica distruzione degli alberi ad opera dell’ursone sia un processo tutt’altro che deleterio per l’ecosistema della foresta. L’eliminazione di un certo numero di svettanti arbusti, infatti, garantisce l’apertura di spiragli per la luce tali da permettere ad un altro tipo di vegetazione di crescere e prosperare, creando inoltre a lungo termine altrettanti tronchi cavi, all’interno dei quali un’ampia varietà di creature ed organismi potranno trovare un rifugio sicuro dagli elementi.
Il che giustifica in un certo senso la maniera in cui i cosiddetti “pellerossa dei porcospini” nella regione dei Grandi Laghi fino al fiume Missouri, così chiamati per la loro abitudine di nutrirsi della loro carne in inverno, tenessero in alta considerazione questo vorace divoratore di corteccia, celebrandolo con tutti gli onori conseguentemente alla cattura e poco prima di trasformarlo in alimento dal ricco contenuto proteico e l’alto valore di sopravvivenza. In maniera analoga a quanto avveniva durante la grande depressione negli ambienti periurbani dell’uomo contemporaneo, benché il porcospino non sia mai stato formalmente inserito nell’elenco dei tipici animali da cacciagione. Il che non ha mai fermato il fuoco occasionale dei fucili, in tutti i casi in cui la popolazione del problematico visitatore spinoso è stata giudicata eccessiva. Pro e contro dell’essere inavvicinabili! Chi si sognerebbe mai, d’altronde, di sollevare e portare via di peso una simile creatura dal proprio giardino? Gli animali non hanno il senso della proprietà privata. Fatta eccezione per quello eretto, bipede e glabro, che discese per l’ultima volta dagli alberi attorno ai 4,5 milioni di anni fa.

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