“Frrr, frrr…” Il suono perfettamente udibile nella notte dal caldo intenso e tropicale. In abito piumato nero per il lutto, la coppia conobbe infine il vero significato del termine “disperazione”. Due corvi delle Marianne nel loro alto nido, gli ultimi della loro specie nel raggio di molte migliaia di chilometri, circondati da trappole, veleno e barriere di varia natura, tra cui l’ultima e più efficace doveva essere, nell’idea dei naturalisti incaricati di custodirli, l’ampio e liscio comignolo all’interno del quale e era stato inserito il palo. Ma ora l’intero sostegno della loro casa, vibrando lieve, trasportava l’impressione che qualcosa di orribile stesse per accadere: “Frrr, frrr…” risuonava nel buio ed all’interno di esso, due fari tondi riflettevano la luce distante della Luna, le stelle ed un famelico desiderio. Assai lentamente, l’anello scaglioso si strinse ancora, e facendo seguito a ciascuna delle sue soste con uno slancio di pochi centimetri, di volta in volta riusciva a non tornare indietro. Con aria atterrita, l’ultimo maschio di Corvus kubaryi si sporse di qualche centimetro oltre il foro d’ingresso della sua “imprendibile” fortezza. E fu allora che in pochi secondi, poté comprendere la gravità dell’attuale situazione. “Cara, dobbiamo andare.” Gracchiò all’indirizzo della sua signora: “Il serpente sta arrivando.” E con sguardo malinconico scrutò, per l’ultima volta, la forma candida delle loro preziose uova. Lei aprì lievemente il becco, come se stesse per rispondere, poi tacque. Il fruscio diventava più forte. La lingua con la forma di Y, di un accesso color porpora, spuntò oltre i limiti del davanzale. “Frrr, frrr…” Faceva il colubride marrone arrampicatore. “FRRR!”
Ribadisce il diffuso aforisma, presente in diverse versioni all’interno di molte culture, anche particolarmente distanti tra di loro: “Nell’ultimo dei giorni, i morti torneranno a camminare sulla Terra.” Scendendo dall’alto, grazie a un paracadute. Guam, Pacifico Occidentale, fine dell’anno 2013. Il conflitto che andava avanti ormai da decadi aveva ormai raggiunto l’apice: con 10 specie aviarie portate alla totale estinzione, più almeno altrettante sottoposte ad un rischio critico, come parte di una situazione che nessuno avrebbe più potuto tollerare. Così gli Stati Uniti, tutori dell’isola verde fin dai tempi della guerra ispano-americana (1898) decisero d’investire all’incirca 9 milioni di dollari per un programma che avrebbe dovuto, almeno in teoria, portare alla loro totale eradicazione. Nessuno contò esattamente, a quel punto, quante migliaia di topi ormai defunti furono gettati dagli aerei, poco dopo essere stati avvelenati con una piccola quantità di paracetamolo, sostanza inspiegabilmente letale soltanto per l’indesiderata specie del Boiga irregularis, longilinea creatura in grado di raggiungere fino ai 3 metri di lunghezza. Per lo meno, in condizioni ambientali che potessero a tutti gli effetti definirsi ideali. Così che a seguire del secondo conflitto mondiale, sfruttando il passaggio accidentale ottenuto a bordo delle navi ed aerei che provenivano dalla natìa Australia, qui gli sarebbe capitato di trovare un vero e proprio paradiso. Abitato da prede che, molto semplicemente, non avevano mai avuto a che fare con un rettile strisciante prima di quel fatidico momento. E gli invasori mangiarono, prosperarono e si riprodussero. Fino a una densità, in certe particolari aree, capace di superare i 12.000 esemplari per miglio quadro. Il che avrebbe necessariamente richiesto, prima o poi, un deciso intervento da parte degli umani, pena il totale disboscamento dell’isola di Guam causa totale mancanza di uccelli incaricati dal sistema natura di disperdere pollini e semi, destinati a condividere il triste destino della colomba della frutta delle Marianne (Ptilinopus roseicapilla) ormai qui estinta da diverse generazioni.
Se oggi siamo qui, tuttavia, con la nostra telecamera puntata verso l’oscuro velo di tenebre, qualcosa deve necessariamente aver mancato di funzionare. Come hanno saputo recentemente scoprire, pubblicando un rivoluzionario studio in merito, gli scienziati provenienti dall’Università del Colorado…
Perché mai, prima di oggi, l’occhio umano aveva avuto il modo e la ragione di scrutare l’approccio specifico impiegato da questa serpe in caccia, di fronte al più valido degli ostacoli posti sapientemente sul suo cammino. Come raccontano Thomas F. Seibert e Martin Kastner, biologi, nel breve racconto che è stato abbinato dalla stampa generalista allo studio: “Incredibile. Nel momento in cui l’abbiamo visto, ci è mancato poco che cadessimo entrambi dalla sedia.” Poiché quattro erano stati, fino a questo momento, i metodi di locomozione verticale utilizzati dall’intera collettività serpentina di questo pianeta: rettilineo, ondulatorio, zig-zagante ed a fisarmonica. Ma quanto i due videro all’interno della registrazione catturata dalle telecamere del caso, poste a sorveglianza dell’ennesimo nido fortificato rimasto ancora intonso dall’attenzione del grande divoratore, non rientrava evidentemente in alcuna delle succitate categorie. Con il serpente marrone australiano che architettava in maniera istintiva, senza particolari esitazioni, uno stratagemma straordinariamente efficace. Così avvolto attorno al palo intenzionalmente allargato, posizionava il corpo ad angolo retto. Per formare, essenzialmente, un nodo in corrispondenza della sua stessa coda, strettamente avvolta e posta a contatto con la superficie verticale. La prima impressione che potesse trattarsi del sistema a fisarmonica (comunque destinato a fallire in quel particolare contesto) gli scienziati notarono che la testa e la coda del serpente rimanevano sempre alla stessa altezza. Mentre un centimetro alla volta, in tale configurazione stranamente suggestiva continuava lentamente ad avvicinarsi all’obiettivo. Scalata di tipo “lasso” o lazo che dir si voglia, è stato quindi definito un simile approccio, accompagnato dalla significativa comprensione di quanto si era dimostrato funzionale, nel permettere al B. irregularis di svolgere con enfasi il ruolo che gli era stato attribuito dalla natura… In tutt’altro contesto.
La straordinaria agilità di questo colubride, uno dei pochi (lievemente) velenosi all’interno della sua vasta famiglia, era del resto già nota. Essendosi ampiamente dimostrato capace, nelle più diverse possibili circostanze, di estendere la sua intera lunghezza per passare da un ramo all’altro della volta fogliosa della foresta. Per non parlare delle numerose interruzioni di corrente verificatesi nell’ultimo decennio, dovute ad ancora un altro membro di questa specie che si era arrampicato per sbaglio sulla cima di un trasformatore, andando incontro ad un’improvvida e sfolgorante fine. Con un metodo arrampicatorio simile a quello descritto ed a quanto tende tanto spesso a verificarsi, per quanto ci è dato comprendere, con i carrelli degli aerei che tanto attraggono questo prolifico e problematico animale. La cui attesa ricomparsa viene ormai sistematicamente intercettata nell’intero ventaglio dei principali siti d’atterraggio nell’area del Pacifico, da cui potrebbe ipoteticamente diffondersi ed arrecare ulteriori danni all’interno di spazi ambientali geograficamente distanti. Il che rende ancora più sorprendente la maniera in cui, nonostante tutto, il serpente marrone australiano sia stato sottoposto ad una quantità di studi relativamente poco approfonditi, con significative lacune nella nostra conoscenza del suo metodo ed approccio riproduttivo. Mentre possiamo definire la tipica conformazione fisica del serpente, con livrea tendente tra il rosso e il marrone scuro, come quella di un tipico colubride dotato di zanne retrattili arretrate, fatte principalmente per ghermire ed avvelenare piccole prede, come lucertole e purtroppo, pulcini.
Molti sono così stati, attraverso gli anni, i metodi considerati per procedere alla sua sistematica eradicazione dagli ambienti non-nativi. Tra cui quello più terribile: la potenziale introduzione verso l’inizio degli anni 2000, all’interno dell’isola di Guam, dell’odiato e temuto rospo delle canne (Rhinella marina) già devastatore ambientale di quel continente australiano, presso cui lo stesso serpente colubride vanta gli orgogliosi natali. Benché l’empia idea fosse destinata ad essere ben presto abbandonata, data la natura onnivora di tale creatura, probabilmente destinata ad arrecare un danno ancor maggiore all’ecosistema già in grave situazione di crisi. Finché a qualcuno, per fortuna, non venne l’idea di gettare dall’aereo i topi avvelenati, facendo in modo che il loro piccolo paracadute retasse impigliato tra i rami della foresta, ovvero in altri termini, a perfetta portata del serpente. Mossa costosa ma destinata ad ottenere risultati apprezzabili in tutte le aree coinvolte, con una diminuzione stimata di circa il 70-90% della popolazione totale all’interno di tali spazi definiti. E un conseguente effetto positivo sulla sopravvivenza continuativa di specie a rischio critico, sebbene la strada da compiere risulti ancora particolarmente lunga e tortuosa.
Conoscere approfonditamente, e far mente locale in merito a, l’efficiente ed ignoto metodo di locomozione verticale del serpente marrone australiano (SMA) può quindi costituire una valida risorsa nella scelta degli approcci finalizzati alla protezione delle specie di uccelli a rischio rimaste sull’isola di Guam. Per non parlare dei siti più prossimi nell’area geografica circostante. Subordinando, per la prima volta, la costruzione di barriere fisiche all’installazione di trappole ben distanziate e forse, nei prossimi anni, il rinnovato lancio di un ulteriore esercito di paracadutisti baffuti, deceduti ed imbottiti di letale paracetamolo. Poiché talvolta, la pietà non permette di risolvere i problemi. E chiudere un occhio, pensando che “La natura sia sempre in grado di adattarsi” può avere un costo significativo in termini di biodiversità. A tutti i livelli, ed entro ciascun possibile ordine di grandezza, compreso quello che sembrerebbe coinvolgere l’intera scala di questo azzurro, terribile pianeta.