In fondo ai grandi pozzi monumentali del subcontinente indiano

Quando si pensa all’opera dei potentati, regni ed imperi nella lunga storia del mondo, ben poco sembrerebbe aver avuto lo stesso grado di auspicabile prestigio della costruzione di un alto tempio o altro edificio connesso ad esigenze religiose. Quasi come se l’associazione tra l’utile ed il sacro, in tale classe d’edifici, convergesse nel dar forma alla più chiara e duratura testimonianza del livello d’autorità raggiunto da questo o quel governante; spostando la nostra attenzione ad un lungo periodo nella storia dell’India Nord-Orientale, soprattutto nei due stati confinanti del Rajasthan e Gujarat, è possibile individuare una diversa espressione del prestigio architettonico, che aveva l’insolita propensione a crescere piuttosto verso il basso, scavando fino alle proficue viscere di un suolo reso arido dal clima intensamente tropicale di quel paese. Il loro nome è a seconda della lingua awdi, bawri, baoli, bavadi, bavdi, vav, vaav o più semplicemente “pozzi a gradini”, un’espressione che costituisce anche la chiara descrizione della loro forma e funzionalità: quella di contribuire in larga parte, per l’appunto, alla fornitura di risorse idriche in un luogo dove può smettere di piovere per un’intera stagione, agendo nel contempo come punto di riferimento, luogo di ritrovo e centro di venerazione per il popolo nel suo complesso. Un concetto, questo del pozzo, che raramente in altri luoghi si è mai trovato a ricevere particolari attenzioni estetiche limitandosi a servire ad uno scopo, ma che in questo particolare contesto geografico giunse a superare, in magnificenza e pregio della sua fattura persino la svettante forma di un acquedotto romano. Osservate, a tal proposito, il Chanda Baori (Pozzo di Chanda) del villaggio di Abhaneri in Rajasthan, costruito tra l’VIII e il IX secolo dall’omonimo re della dinastia dei Chamana, benché la leggenda affermi che sia stata l’opera di spiriti e djinn coinvolti nel progetto grazie a un qualche tipo di arcana stregoneria. Ed a guardarlo, sarebbe strano continuarsi a chiedere il perché di una simile storia, vista l’imponente forma di una simile struttura quadrata, tali da farlo inserire tra i più profondi (20 metri) ed ampi (30 metri di lato) tra i suoi simili, essendo comparso anche in varie opere cinematografiche internazionali come “prototipo” della sua classe di strutture. Spesso con un ruolo sottilmente inquietante, come quello del “carcere” in cui venne imprigionato Batman nel film con Christian Bale del 2005. Una visione che non potrebbe essere, a conti fatti, più lontana dalla realtà visto il ruolo d’aggregazione, spesso festiva, che simili elementi urbanistici tendevano ad avere nella comunità dell’India medievale, come luoghi di riposo, centri di venerazione e simboli per l’orgoglio della collettività indivisa. Un pozzo come il Chanda Baori si presenta infatti non come un semplice buco nel terreno bensì una vera e propria “piazza verticale” dotata nel presente caso di ben 2500 scalini, disposti non in senso perpendicolare bensì parallelo all’estendersi dell’apertura, per permettere al maggior numero di persone contemporaneamente di accedere all’acqua, indipendentemente dalla quantità contenuta all’interno. Diversi camminamenti a mezza altezza dotati di portici e persino un haveli (padiglione) reale, aggiunte in buona parte successive all’epoca del primo scavo, impreziosiscono ulteriormente il quadro scenografico, rendendo l’idea di un luogo dove si andava non soltanto per prelevare l’acqua, ma anche riposarsi e rinfrescarsi dalla calura estiva, ma anche pregare agli Dei legati allo scorrere delle acque, tra cui particolari aspetti di Shiva, Ganesh e Vishnu. Non a caso, a poca distanza dal pozzo, sorse successivamente un santuario dedicato ad Harshat Mata, personificazione della felicità, prima di entrare nel quale usanza voleva che ci si purificasse all’interno delle acque del Chanda Baori. Verso l’ottenimento di un ruolo sacrale che avrebbe tuttavia raggiunto il suo massimo livello soltanto successivamente nell’XI secolo e all’interno delle terre confinanti del Gujarat, grazie alla straordinaria costruzione del Rani ki Vav (Pozzo della Regina)…

Il Rani ki Vav, patrimonio dell’UNESCO dal 2014, viene generalmente considerato uno dei più notevoli esempi di architettura indiana pre-moderna. Sebbene alquanto sorprendentemente non tutti, tra i suoi estimatori occasionali, sembrino essere coscienti della sua funzione pratica di partenza.

Perché non unire a tutti gli effetti, dunque, questi due aspetti del tempio ed il pozzo comunitario, creando un complesso monumentale che potesse costituire un rinomato simbolo fino ai più remoti confini del mondo indiano? Questo dev’essersi chiesta Udayamati, figlia di Naravaraha Khengara della dinastia Solanki, e sposa di Bhima I (1022-1064). La quale con l’intenzione di commemorare il suo defunto marito, fece scavare nella città di Shripattana (l’odierna Patan) un imponente buco nel terreno della profondità di 28 metri, largo 20 e lungo 65 che avrebbe dovuto superare idealmente persino la maestosità del famoso Sahastralinga Talav, precedente fonte di buona parte delle acque estive per l’arida capitale del suo regno. Si dice in effetti che il Gujarat abbia saputo proiettare il concetto dei baori fino al grado di raffinatezza più alto possibile ed il celebre Rani ki Vav ne è la più evidente delle prove. Con la sua forma che appare ad un visitatore all’improvviso, essendo privo degli ornati pilastri chiamati toda, posti al di sopra del livello del terreno con il fine d’identificare la collocazione del pozzo. Ma in grado di porre rimedio ad una simile carenza con lo straordinario tripudio di statue, bassorilievi ed ornamenti raffiguranti una straordinaria varietà di figure sacre, dagli Dei più importanti fino a un letterale esercito di apsaras (spiriti benevoli) attorno e sulla forma stessa dei suoi 212 pilastri. Per un totale di oltre 500 sculture, che includono soggetti come Kubera, Lakulisha, Bhairava, Surya, Indra e Hayagriva, vedendo inoltre ricorrere l’aspetto Sheshashayi di Vishnu, in cui il Dio in posizione sdraiata sul serpente a nove teste simboleggia l’oceano cosmico in continua trasformazione. Altri soggetti, nel frattempo, includono figure umane nel corso di vicende della loro vita comune, come la caccia, pesca, scrittura di messaggi o il trasporto di cibo, spesso intenti ad interagire tra di loro o coinvolti dalla presenza di vari animali. Completano il catalogo figure femminili in atteggiamenti vagamente erotici e conturbanti, che alludevano all’uso più frequente da parte delle donne di simili luoghi, mentre verso il fondo della struttura fu nascosto l’ingresso di un lungo tunnel che avrebbe idealmente previsto ai reali di fuggire, in caso di assedio della città.
L’utilizzo del tipico pozzo a gradini, soprattutto se delle dimensioni del Chanda o il Rani ki Vav, prevedeva un’integrazione a più livelli con lo stile di vita della popolazione locale, agendo come punto di ritrovo grazie all’uso dei kuta, pianerottoli intermedi presso cui era previsto il riposo temporaneo ed il rinfresco dei viaggiatori di passaggio, stanchi per l’arsura rinomata quegli specifici territori. A un lato delle scalinate, in genere, era inclusa un’apertura verticale verso il punto più profondo del pozzo, per permettere il prelievo d’acqua senza percorrere necessariamente l’intero camminamento discendente, sebbene ciò non prevenisse una caratteristica piuttosto problematica del concetto stesso di baori, in quanto tale: il fatto che l’acqua da bere fosse anche quella usata, con assoluta tranquillità, per fare il bagno e lavarsi le mani da parte della comunità nel suo intero complesso. Tollerati, benché guardati con diffidenza, durante l’intero primo periodo della dinastia Moghul (1760-1803) i pozzi dell’india medievale vennero gradualmente surclassati dalla costruzione d’impianti idrici moderni dopo l’arrivo degli inglesi, che resero immediatamente i propri centri del potere indipendenti dalla fonte originaria delle acque nei frequenti periodi di siccità. Ed il popolo seguì gradualmente il loro esempio, sebbene sia possibile affermare che la stretta integrazione tra approvvigionamento idrico ed attività di venerazione rappresentasse un valore aggiunto per l’identità culturale di Rajasthan e Gujarat, destinato irrimediabilmente ad andare perduto con l’inarrestabile, non sempre volontario avanzamento dell’ingegneria civile.

Un gruppo di tuffatori si estrinseca a nome della bibita Red Bull presso il “piccolo” pozzo costruito nel XVIII secolo a Jodhpur. Viene da chiedersi quanto spesso in passato, all’epoca in cui questi complessi mantenevano la loro valenza sacrale, sia stato permesso d’inscenare una simile impresa.

Lungamente studiati in patria per la perfezione matematica, la geometria simmetrica e la notevole stabilità strutturale (alcuni hanno anche resistito a terremoti del livello 7,6 della scala Richter) i pozzi a gradini restano tuttavia largamente sconosciuti ad oggi fuori dall’India, come espressione estremamente esclusiva di un particolare modo di vedere l’architettura pubblica e fornire un utile servizio alla comunità. Nel corso degli anni, gli archeologi ne hanno scoperto svariate migliaia, con alcuni dei più antichi precursori collocati presso le città di Dhank (550-625 d.C.) e Bhinmal (850-950 d.C.) lasciando intendere un possibile utilizzo continuativo di questa specifica soluzione per oltre 10 secoli di storia. Così scenograficamente esemplificato dalla visione, particolarmente apprezzata dai turisti, delle versioni più monumentali ed appariscenti di quel concetto.
Benché ad oggi, con i ricorrenti periodi di siccità che tutt’ora coinvolgono i territori d’origine, la gente non rimpianga tanto l’originario ruolo di rappresentanza di una simile tipologia di strutture. Bensì la loro chiara, innegabile ed ormai perduta utilità. Verso la cognizione secondo cui la linea del progresso non punti sempre o necessariamente dritta verso l’obiettivo. Ma come smarrita un labirinto di scale, agisca in occasionale contrapposizione a se stessa, verso l’individuazione di una serie di apprezzabili compromessi funzionali a uno scopo.

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