Complesso è sicuramente complesso. Difficile? Non tanto: basta andare con la giusta velocità, ricordandosi che il tempo può esserci alleato, ogni qualvolta manca di trasformarsi nella personificazione del nostro nemico. Il foglio di carta scorre a scatti lungo il rullo, mentre in corrispondenza di esso una freccia metallica permette di selezionare tra le multiple iscrizioni runiche su lunghe stecche di zinco. Come il becco di un uccello, la testina scatta alla pressione di una leva: TU-CLUNCK! Un po’ alla volta, il testo scritto prende forma sopra il foglio. Soltanto i sinologi e yamatologi tra il pubblico, coglieranno immediatamente l’assenza di un valido significato…
Tanto forte riesce ad essere l’impressione in Occidente, accompagnata dalle presunte prove più volte riconfermate, che l’alfabeto latino di 26 lettere sia il sistema di scrittura superiore al mondo: maggiormente funzionale, e per questo giustamente più diffuso, di quello greco, georgiano, arabo, coreano, delle dozzine di alternative utilizzate in India e certamente, più di ogni altra cosa, dell’improbabile serie d’ideogrammi studiati in diversi paesi dell’Estremo Oriente, come lascito di una tradizione filologica sproporzionatamente complessa rispetto all’esigenza di comunicare concetti o sentimenti attraverso la parola scritta. Laddove un italiano che si approcci per la prima volta allo studio di una lingua straniera, anche relativamente prossima come il Francese o l’Inglese, sarà il primo ad affermare che “non si legge come si scrive” per l’evidente dissonanza creata da un sistema di scrittura concepito per uno specifico idioma, una volta che si fa il possibile per adattarlo alla pronuncia di un altro. Confrontiamo quindi per un attimo, tale questione con il ruolo aggregatore mantenuto, attraverso i secoli, dal sistema logografico degli Han: le migliaia di hanzi (汉字 – ideogrammi) che poi sarebbero i kanji (漢字) secondo la terminologia giapponese (stessa cosa, in sostanza) ciascuno indissolubile da una specifica parola, sillaba e pronuncia. Così che adattarli all’uso per lo stile comunicativo del proprio paese significa, essenzialmente, accettare anche un particolare modo di pensare ed approcciarsi ai concetti. Al punto che la definizione linguistica di “Cina” può essere accostata ai territorio entro cui 人 (rén) è una persona, 日 (rì) il sole e 地 (dì) la terra, indipendentemente da come si scelga di pronunciarli. Uno spirito d’aggregazione che permette, in maniera puntuale, ad un abitante di Pechino di comprendere perfettamente un testo scritto a Guǎngzhōu (Canton) benché i due non riuscirebbero affatto a comprendersi attraverso una conversazione parlata. Altri problemi, del resto, emergono da tale meccanismo nel momento in cui si tenti, necessariamente, d’inserirlo nello schema meccanico della tecnologia ad uso personale. Questione nata per la prima volta attorno all’inizio del XIX secolo, quando i primi arguti sperimentatori, tra cui l’italiano Agostino Fantoni, intrapresero l’esperimento per creare un sofisticato meccanismo in grado di contenere, ed in qualche modo dominare, l’intero magico sistema della stampa in un singolo mobile o dispositivo. La macchina da scrivere in quanto tale presentava in effetti, rispetto al sistema della stampa coi caratteri mobili di cui la Cina fu pioniera, un’implicita serie di problemi da risolvere. Primo fra tutti, la massima dimensione raggiungibile dalla sua tastiera. Così con metodologia diretta, fin da subito per affrontare l’ardua impresa si capì che sarebbe stato necessario farne semplicemente a meno…
Nota: in questa pratica macchina da scrivere della Toshiba degli anni ’50, i caratteri utilizzabili sono stati ridotti a circa 2400, il che permette di selezionarli, molto agevolmente, tramite l’impiego di un rullo. Questo tipo di apparati sarebbe diventato molto popolare anche in Cina, successivamente al termine della seconda guerra mondiale.
Un approccio particolarmente scenografico, benché poco risolutivo, dell’intera questione può essere dunque individuato nel progetto del missionario protestante a Tongzhou Devello Zeletos Sheffield attorno al 1880, per una bizzarra ruota gigante con 4.662 dei “caratteri più comuni” fatta ruotare ed impressa sul foglio manualmente in maniera non dissimile da quella di una macchina da scrivere Simplex statunitense. Sistema non soltanto laborioso da utilizzare, ma che comportava un meccanismo estremamente costoso e ponderoso, tale da impedire totalmente un’effettiva produzione in serie del macchinario. Una soluzione più pratica, in seguito, sarebbe giunta da Zhou Houkun e Shu Zhendong nel 1916. Tale ponderoso marchingegno dal peso superiore ai 14 Kg, dotato di un grosso rullo meccanico su cui disporre il foglio, prevedeva l’impiego di un vasto cassetto sopra cui far scorrere una leva. Premendo la quale, uno alla volta, i caratteri scelti realizzati in lega di zinco sarebbero stati fatti portati fino alla riga bersaglio da una testa mobile chiamata “il piccione volante” provvedendo in maniera progressiva alla creazione del testo scritto su carta. Un tipografo esperto, quindi, avrebbe potuto impiegare tale apparato per riuscire a scrivere una media di 20 parole al minuto, impresa utile più che altro al fine di produrre un documento dall’estrema importanza o prestigio. Nel 1946, dopo il secondo grande conflitto, troviamo quindi notizie sulla figura notevole dell’artista, scrittore ed inventore Lin Yutang, che applicando le nozioni tecniche apprese durante il suo studio all’estero riuscì a concepire il concetto rivoluzionario della macchina da scrivere Ming Kwai (明快 – “chiaro” o “semplice”). Apparecchio non molto più grande di quelli occidentali, in cui una serie di qualche decina di grafemi venivano combinati per la creazione di oltre 90.000 possibili caratteri, aprendo la strada possibile ad un significativo cambiamento nella cognizione stessa della lingua cinese. La sua idea, tuttavia, si rivelò famosamente fallimentare durante un’importante dimostrazione alla compagnia Remington in cui non riuscì ad usarla per scrivere dei testi improvvisati, portando al successivo fallimento commerciale e scomparsa dalle pagine della storia.
Ben poche possibilità d’evoluzione, a quel punto, sembravano possibili o necessarie. Le cose iniziarono a cambiare successivamente alla metà del secolo, con l’inizio dell’epoca maoista e gli sconvolgimenti sociali che avrebbero aperto le porte della Rivoluzione Culturale. Attraverso un moto popolare ed un’aggregazione collettiva dopo l’altra, eventi che tendevano a richiedere, per propria esplicita propensione, l’impiego di altrettanti volantini e pamphlet stampati a stretto giro di corda, senza particolari riguardi ai limiti di quello stesso sistema di scrittura che veniva considerato, con ottime e comprovate ragioni, un importante simbolo della cultura cinese. Nacque, in questo modo, il marchingegno destinato a lasciare un segno indelebile sulla sua epoca, la cosiddetta macchina da scrivere Doppio Piccione (双鸽 – Shuānggē) fabbricata a Shanghai a partire dal 1949. In essa, per la prima volta, il tipografo poteva liberamente spostare i caratteri sulla tavola di selezione, arrangiandoli secondo dei raggruppamenti concettuali che avessero senso nel particolare contesto d’impiego. In tale modo, il cassetto di una macchina impiegata in banca avrebbe avuto un aspetto decisamente diversa da quella di una stamperia del partito dotata di apparecchi di riproduzione seriale in ciclostile, mentre in entrambi i casi sarebbero stati posti particolarmente vicini i caratteri rispettivamente corrispondenti a “presidente”, “Mao” e “Zedong”. La figura del tipografo esperto, capace di aumentare la sua velocità di scrittura fino a quella di 50-60 “parole” al minuto (in realtà si trattava probabilmente di singoli caratteri) divenne quindi un eroe celebrato dal partito, con il caso celebre della giovane donna Shen Yunfen che arrivò ad essere proclamata nel 1953 eroina nazionale di prima classe grazie alle innovazioni che seppe introdurre nella selezione e disposizione dei caratteri per la stampa.
In assenza di una tradizione celebrativa comparabile a quella cinese, nel frattempo, la macchina da scrivere giapponese resta più difficile da inquadrare attraverso la documentazione reperibile online, benché una soluzione preferita dai suoi costruttori sembrerebbe essere stata la riduzione del numero di caratteri disponibili, verso una ragionevole semplificazione testuale e filologica dei testi scritti, almeno finché le limitazioni meccaniche del mondo tecnologico avrebbero continuato ad avere un peso. Un simile approccio, negli anni immediatamente successivi, avrebbe trovato l’applicazione anche in Cina all’interno di contesti meno rigorosi e professionali.
La storia della macchina da scrivere orientale avrebbe quindi subìto un brusco capovolgimento all’inizio degli anni ’70, ancor più veloce e radicale di quello vissuto nei nostri lidi, con l’introduzione di un qualcosa di totalmente nuovo: il mobile elettrico contenente un qualche tipo di word processor computerizzato. Pionieristico, a tal fine, fu il lavoro della Lianxiang di Pechino, una compagnia che oggi continua ad essere celebre nel mondo con il nome di Lenovo. Per la prima volta, il lavoro autorale dell’uomo alla tastiera non era più limitato dallo spazio disponibile all’interno di un singolo marchingegno da tavolo, portando a proficue sperimentazioni con i metodi d’inserimento e selezione adattiva dei caratteri non dissimili da quelli in uso tutt’ora.
Per la soluzione di un problema che, da un certo punto di vista, potremmo valutare sia stato affrontato all’inverso. Perché industriarsi nell’impostazione tecnologica di un sistema logografico che potrebbe apparire, ai nostri occhi, tanto macchinoso ed arretrato? Particolarmente nel caso del Giappone che, con le sue due scritture sillabiche hiragana e katakana, avrebbe potuto facilmente abbandonare i kanji già più volte attraverso il corso della sua storia recente. Ed in effetti furono anche fatti dei tentativi a partire dall’epoca Meiji (1852 – 1912) più volte fortemente criticati e destinati a rivelarsi fallimentari.
Perché in fondo, pensateci soltanto per un attimo: a cosa serve la musica classica, in un’epoca dotata di sintetizzatori? A cosa la pittura, quando esiste la fotografia? E perché mai dovremmo anche soltanto pensare di leggere o scrivere, quando possiamo altrettanto facilmente guardare un video su YouTube? É davvero facile ergersi a paladini della semplificazione, quando si sta parlando di una cultura che non si conosce davvero a fondo e neppure ci appartiene. Mentre non tutti sono pronti ad ammettere l’incomparabile splendore funzionale, di una parola contenuta in un singolo agglomerato di segni, istantaneamente riconoscibile da svariati miliardi di persone.