Singolare sarebbe il rapporto tra uomini e religione, se il suo significato più profondo non riuscisse a trasparire attraverso le solenni rappresentazioni dei fatti divini, all’interno di contesti specifici e ricorrenti. Ma il particolare rapporto dei diversi popoli d’India con il sacro, tanto antico e stratificato, vede l’intervento e la mano degli esseri superiori all’interno di ogni aspetto della vita quotidiana, incluso il puro e semplice intrattenimento. Così nacque, attorno al IV secolo d.C. secondo alcune delle teorie più accreditate, la forma di arte drammatica che dai templi vene trasformata in vero e proprio circo itinerante, capace di affascinare allo stesso modo nelle sale dei potenti ed all’interno di un palcoscenico improvvisato, costruito ai margini dei campi e i pascoli di luoghi rurali. Yakshagana è meditazione, ma anche intrattenimento, rappresentazione storica coniugata con il fantastico, l’analisi di temi profondi intervallata da momenti comici e stravaganti. In essa figura in grande stile lo spettacolare spirito creativo del Karnataka, lungo le coste fino a Uduki, che fu il centro culturale dello specifico stile Badagutittu, particolarmente dedito agli acrobatismi e la recitazione enfatica e veemente. Aspetti presenti, a loro modo, anche nella corrente meridionale dello Badagutittu, basato maggiormente sulle espressioni facciali, i dialoghi e le disquisizioni filosofiche improvvisate. Ciò che unisce, tuttavia, le due correnti è la sontuosa serie di costumi, copricapi, ornamenti e trucchi facciali tutti assieme chiamati vesha (tenuta) usati per dare l’idea della personalità e l’intento di questo o quel personaggio del prasanga (dramma) pensato per durare spesso tutta la notte, prelevati di peso da testi epici come il Ramayana e il Mahabharata, ma anche le storie dei Purana, antichi racconti sulle gesta degli Dei indiani e le loro molteplici incarnazioni. Figura centrale delle rappresentazioni, e spesso anche il protagonista, è il Re che indossa la sua ingombrante corona, con alto ciuffo e motivi di vaga provenienza aviaria. Seguono gli eroi o guerrieri come Karna e Arjuna e gli altri valorosi dei diversi poemi, in abito guerresco e con alti cimieri in legno colorato. A loro si contrappongono i mostruosi Rakshasas o Rakshasi (demoni e demonesse) col volto tinto di rosso, o in alcune tradizioni vere e proprie maschere terrificanti. Saggi, guru e bramini appaiono sul palcoscenico vestiti in modo semplice e ordinario, come potrebbero farlo per le strade dell’India durante i propri viaggi ed infinite peregrinazioni. E nel momento culmine per il trionfo sul finale del bene contro il male, le figure degli Dei personificate, le uniche doverosamente rispettose di specifiche iconografie, come il volto blu per Shiva, motivi leonini per la grande madre Durga o fuoco e fiamme per Chandi, vendicatrice della probità eccessivamente vessata dall’avidità degli uomini sulla Terra. Il tenore del racconto è quindi spesso moralista, o educativo, coi buoni gesti destinati ad essere ricompensati, mentre ogni malefatta tende ad andare incontro, senza requie, alla retribuzione vedica delle imprescindibili leggi del karma.
Ogni tipo di generalizzazione in merito a questa tale d’arte soggetta ad infinite forme ed interpretazioni, tuttavia, è destinata a fallire; poiché poliedrica ed imprevedibile, risulta essere l’espressione drammatica di quel canone, come infinitamente varie sono le culture spesso sincretistiche dell’India meridionale…
Lo Yakshagana nella sua forma classica, intesa come quella codificata idealmente dal discepolo Naraharitirtha del fondatore della scuola Dvaita del Vedanta, Madhvacharya (1238-1317) si è quindi evoluto attraverso gli anni secondo alcune linee guida chiaramente definite. Che prevedono due mela (gruppi) altrettanto centrali nella rappresentazione, quello degli himmela (musicisti) e i mummela (attori) che con le loro danze e dialoghi preferibilmente in lingua Kannada si occupano di dare forma alla vicenda centrale in ciascuno delle svariate centinaia di drammi, che sono giunti a noi in un’infinità di possibili varianti. Fondamentale per l’intera rappresentazione riesce quindi ad essere la figura del bhagavata, che siede al centro del piedistallo rialzato su cui siedono i musicisti, spesso armato di un piccolo tamburo, campanelle o cimbali manuali. Sarà quindi lui, con il suo canto e il ritmo contenuto in esso, a condurre lo svolgimento dell’opera, sapendo interpretare le reazioni ed il comportamento del pubblico dall’altro lato della scena. Altrettanto importante, a suo modo, il membro dell’orchestra incaricato di suonare il maddale, grande tamburo a due mani dal suono acuto, tenuto in senso orizzontale e che si occupa di dare un tempo e amalgamare ogni possibile elemento della scena. Accompagnato da una quantità variabile d’altri strumenti, che possono includere i chande (tamburi con bacchette) il pungi (flauto) e qualche volte un harmonium, piccolo organo trasportabile a canne. Tanto centrale riesce ad essere quindi la musica, usata non soltanto nelle scene di battaglia o estasi, ma anche per intervallare e accompagnare i punti salenti dei dialoghi, che verso la metà del XX secolo il drammaturgo di Udupi, Kota Shivarama Karanth è riuscito a creare una nuova variante simile a un balletto, del tutto priva della componente recitativa ed incentrata unicamente sull’espressione dei significati attraverso i movimenti della danza. Forma di per se soggetta ad opinioni contrastanti, da parte di chi ha scelto di considerarla una versione spuria della ricca e di per se poliedrica tradizione dello Yakshagana.
Il che è del resto indicativo, della percezione estremamente soggettiva e variabile di una forma d’arte che tante fasi alternative sembrerebbe aver attraversato nel corso della sua storia lunga oltre sette secoli, durante cui ha subito l’influenza di altre forme teatrali di diversi territori d’India come il Jathra (Bengala); Chau (Bihar); Prahlada Nata (Orissa) e il Kathakali (Kerala) senza tuttavia mai perdere il suo carattere più profondo e unico, particolarmente rappresentativo di uno specifico rapporto con la mitologia. Altrettanto fluido il ruolo riservato alle attrici femminili, originariamente assenti nel canone ereditario, eppure progressivamente accettate all’interno di troupe di larga fama, aprendo la strada a nuovi testi pensati per dare un degno spazio alla loro partecipazione. Fino all’atipica situazione odierna, in cui i ruoli femminili possono essere ricoperti con pari efficacia da entrambi i sessi, mentre gli uomini che riescono a padroneggiare la gamma emotiva di entrambi vengono considerati tra gli attori maggiormente abili e degni di lode.
Interessante e indicativa, a tal fine, la storia recentemente diventata celebre di Savithri Rao, donna di Mangalore che riuscendo a superare gli stereotipi ha intrapreso la carriera di attrice dello Yakshagana dopo il suo pensionamento dal lavoro di insegnante, all’età di 66 anni. Comparendo in una serie di fotografie in abiti di scena, che la vedono indossare anche i baffi e la tenuta dei protagonisti maschili.
Travagliata e complessa, come nel caso di ogni altra forma d’arte performativa, si è fatta quindi la vicenda del teatro epico del Karnataka nei suoi tempi moderni, con numerose modifiche ai canoni esteriori e i metodi delle sue forme un tempo mantenute in alta considerazione. In particolare è diventato popolare nella sua versione abbreviata, con rappresentazioni di circa un paio d’ore per adattarsi allo stile di vita cittadino, che difficilmente avrebbe potuto gestire la riunione del pubblico di ciascun prasanga per l’intero periodo dal tramonto all’alba. In epoca rigorosamente contemporanea, nel frattempo, lo Yakshagana è stato utilizzato anche per mettere in scena opere provenienti da lontano, come drammi shakespeariani e le più famose trame di film statunitensi. Ed è proprio in questa accezione particolarmente pervasiva che, alla fine, è stata totalmente abbandonata la lingua Kannada passando al più diffuso Hindi, verso una possibile incombente sparizione dei testi teatrali antichi, di fruizione estremamente selettiva e talvolta, eccessivamente difficoltosa.
Ciò detto, l’ultima parola non è stata ancora pronunciata. Poiché finché gli uomini e le donne di questa forma espressiva unica continueranno a calcare il palcoscenico, sia pur con l’accompagnamento ritmico di un singolo tamburo, gli Dei, Eroi e Demoni del mondo antico continueranno a possedere una voce. Combattendo strenuamente le loro battaglie senza fine, mentre faranno seguito ad un repertorio che non può mai veramente scomparire. Poiché parte inscindibile di un tessuto sociale e culturale che è la base dell’India stessa. E attraverso lo spirito di quella vasta nazione, il mondo intero dell’arte teatrale.