Ogni anno nel periodo degli equinozi, il divino serpente piumato Kukulcán fa la sua puntuale comparsa sugli scalini marmorei del suo tempio, nella città più sacra dello stato messicano peninsulare che si affaccia sul golfo più vasto dell’America del Nord. Zigzagando con fare sinuoso, grazie alla proiezione solare della sua ombra, l’essere divino si avvicina a un pubblico in solenne osservazione, armato di macchina fotografica, telecamera e telefono cellulare. Ciò tuttavia che i presenti dotati di un particolare tipo di discernimento dovrebbero, idealmente, arrivare a chiedersi è: fin da quando si è verificato un simile fenomeno che sfiora il sovrannaturale? Stiamo veramente respirando il respiro folkloristico degli antenati?
La questione dell’autenticità dei luoghi archeologici, posta in contrapposizione alla loro presentazione verso un pubblico non necessariamente informato, è uno dei fondamenti stessi del concetto di turismo contemporaneo, inteso come metodo per finanziare il mantenimento di una logica che possa dirsi sufficientemente rispettosa degli stilemi e funzionalità locali. Purtroppo o per fortuna, tuttavia, vi sono luoghi la cui riscoperta da parte del mondo civile risale a un’epoca antecedente, avendo segnalato un sentiero possibile dalle priorità sostanzialmente diverse; quello derivante dal bisogno di adattare l’antico alle preferenze della mentalità moderna, al tempo stesso straordinariamente chiusa ed aperta nei confronti della vera identità e sostanza delle cose. Luoghi come Chichén Itzá, la probabile capitale dell’intero mondo culturale Maya del periodo epiclassico (VI-XI secolo) costruita nel punto di convergenza ideale di un’importante serie di rotte commerciali e la struttura paesaggistica maggiormente propizia, in quanto caratterizzata da una serie di almeno quattro cenotes, caverne collassate e trasformate dall’erosione in profondissimi pozzi di acqua potabile, nonché luoghi adatti alla venerazione del mondo sovrannaturale degli spiriti e divinità ulteriori. La cui esistenza in forma di rovine a seguito dall’inspiegato abbandono sopraggiunto attorno al nostro periodo tardo medievale era stata, naturalmente, sempre nota al mondo intellettuale d’Occidente (dopo tutto, ancora nel 1526 la sua posizione strategica veniva prima conquistata, quindi abbandonata durante il prolungato assedio dei locali dal conqusitador spagnolo Francisco de Montejo.) Ma per cui ancor più di qualsivoglia altro luogo del contesto mesoamericano, avrebbe fatto differenza l’invenzione della comunicazione mediatica moderna. A partire dalla visita verso l’inizio del XIX secolo da parte dell’esploratore John Lloyd Stephens, che vide gli antichi edifici ricoperti di vegetazione stagliarsi sull’ampia pianura erbosa, potendo contare sull’abilità pittorica dell’accompagnatore ed amico Frederick Catherwood, che ne trasse una serie d’illustrazioni destinate a diventare famose nel mondo. Ben presto seguìta da una lunga serie di fotolitografie e dagherrotipi, realizzati per la vendita ad alcune delle prime riviste scientifiche internazionali. Particolarmente rilevanti, a tal fine, sarebbero stati i due articoli del National Geographic, rispettivamente pubblicati nel 1922 e 25, scritti dall’archeologo americano Sylvanus Griswold Morley. Nello stesso periodo in cui, sotto gli occhi degli stessi discendenti di coloro che un tempo avevano costruito tutto questo, l’ancestrale luogo colmo di fama, religione e gloria venne messo in vendita per la prima volta. Da un governo messicano più che mai propenso a permettere lo scavo da parte della Carnegie Institution di Washington per un periodo di 13 anni, grazie alla mediazione del console Edward Herbert Thompson che ne aveva comprato il terreno ed in cambio di un completo programma di ristrutturazione di strutture come il Tempio dei Guerrieri ed il Caracol. Mentre ad un gruppo di archeologi di larga fama nazionale, veniva affidato dai politici il complesso restauro del più grande dei sette campi per il gioco della palla e quello del cosiddetto Castillo, la piramide a gradoni parzialmente inclinati che oggi definiamo come il tempio di Kukulcán. La profonda trasformazione dei princìpi in essere era dunque, iniziata…
Non è insolita, tra le impressioni riportate online dai visitatori contemporanei di quello che potremmo facilmente definire come il sito più celebre dell’intero contesto mesoamericano, nonché destinazione d’infiniti pellegrinaggi spirituali, un certo senso d’insoddisfazione latente. Derivante almeno in parte dalla quantità di venditori di souvenir, sedicenti “guide” non autorizzate e tutta l’altra umanità industriosa delle tipiche trappole per turisti, ma anche dal particolare aspetto dell’antica città, paragonata nelle recensioni più estreme ad una sorta di parco a tema. Visione dallo spettro indubbiamente limitato eppure comprensibile, quando si osserva l’eccezionale condizione di ogni singola famosa struttura facente parte della capitale idealmente “in rovina” con forme geometriche perfettamente definite ed almeno in apparenza, del tutto prive dei segni dell’erosione e del tempo. Certo, verrebbe a questo punto da dire: dopo tutto, nel corso del secolo scorso ciascuna di esse è stata più o meno completamente ricostruita.
Il complesso di templi ed edifici governativi costruiti primariamente in pietra, un tempo collegati dal sistema di strade pavimentate delle sacbeob, fu quindi giudicato semplicemente troppo importante per poter rimanere nello stato non propriamente ideale in cui si era ridotto a seguito dei lunghi secolo d’abbandono. Venendo adattato, e molto spesso reinterpretato, sulla base delle limitate cognizioni giunte fino alla nostra epoca ed in maniera destinata a raccogliere, fin dall’epoca coéva, un certo grado di critiche continuative nel tempo. Particolarmente rilevante, a tal proposito, si sarebbe dimostrato il caso del tempio piramidale di Kukulcán, che con la sua altezza di 24 metri stava già iniziando ad assumere nei repertori il simbolo del sito ed in effetti, l’intero stato messicano di appartenenza. Affidato alle cure, ed il preciso ripristino, del celebre archeologo messicano Miguel Angel Fernández, la struttura a gradoni venne quindi completamente ripulita dalla vegetazione e i detriti a partire dal 1922, aprendo il capitolo più complesso del suo restauro. Per il quale, al fine di riparare il basamento, le scalinate e balconate di ciascun livello disposto secondo il principio architettonico del talud-tablero, le squadre di operai specializzati avrebbero usato una grande quantità di blocchi di pietra candida e marmorea, non tutti prelevati localmente. Motivando, inevitabilmente, una serie di disquisizioni nel mondo accademico in merito alla correttezza delle soluzioni soggette ad implementazione in-sito: chi aveva detto a costoro, ad esempio, che gli scalini per ciascun lato del grande tempio erano davvero 91, giungendo a un numero totale di 364? Molto convenientemente in grado di raggiungere, con l’aggiunta della pietra centrale, la cifra estremamente significativa del numero di giorni secondo l’odierna cognizione dell’anno solare. E siamo davvero sicuri che la celebre ombra del “serpente piumato” in corrispondenza del periodo degli equinozi, in realtà osservabile occasionalmente anche al di fuori di tali date, fosse sempre stata prodotta dalla forma pre-esistente di una simile struttura pregna di un presunto significato, rigorosamente continuativo nel tempo? Particolarmente accesa, a tal proposito, risulta essere la critica dell’intera località condotta dall’autore e saggista Ric Hajovsky, riassunta sul suo sito personale, in cui l’intero adattamento delle rovine di Chichén Itzá al “gusto e preferenze moderne” costituisce uno dei più grandi inganni perpetrati ai danni della percezione realistica di un’antica cultura, giungendo ad impiegare nel suo titolo di un libro l’espressione anglofona “If you build it, they will come“. Benché, sia importante notarlo, si tratti di un’opinione assai caratteristica e pressoché del tutto fuori dal coro. Difficile, tuttavia, non restarne almeno in parte affascinati…
La questione più importante per comprendere l’intera faccenda, in ultima analisi, può essere comunque individuata nella particolare cognizione che i Maya, e con essi le culture limitrofe, avevano delle strutture architettoniche in quanto tali. La cui vita utile veniva prolungata solo fino a un certo punto, prima di passare a una totale purificazione rituale, seguita dalla demolizione e ricostruzione secondo i crismi delle convenzioni sociali e religiose correnti. Verità chiaramente osservabile nella struttura stessa del Castillo, sotto i cui gradoni fin troppo candidi si nasconde ancora una struttura in pietre smussate ed assai meno perfette, probabili resti di un tempio risalente al primo periodo dell’antica capitale. Ciò in quanto, per le convenzioni architettoniche di un tale popolo, ciascun edificio di culto doveva trovarsi in una precisa posizione rispetto all’asse ideale del Mondo, e come tale poteva soltanto essere sostituito, ma mai spostato dalla sua originaria posizione di appartenenza.
E chi può veramente affermare che l’attenzione remunerativa dei turisti, in questo mondo in cui più nulla sembra mantenere il suo significato originario, non sia ormai paragonabile anch’essa ad un principio cosmico generativo in quanto tale, in grado di accompagnare il flusso inarrestabile dei mutamenti… Luoghi, idee, significati secondo i metodi di un Messico rimasto sempre uguali. Che convergono immancabilmente proprio là, nei luoghi resi sacri dall’impiego sapiente di coloro che vennero prima. E i loro successori, fino al vertice della piramide immanente. E i loro successori (chi altri, se no?)