I cinque tormentati fantasmi dell’alto castello di Mussomeli

A est del fiume Platani, 53 Km da Agrigento, 58 da Caltanissetta, l’alta roccia della storia si erge nel territorio pianeggiante della Sicilia. Ma è soltanto ad uno sguardo maggiormente attento, dal versante occidentale, che una simile qualifica diventa evidente; grazie alla struttura eroicamente abbarbicata, che si staglia contro un orizzonte distante. Una fortezza a tutti gli effetti, straordinariamente rimasta identica al suo aspetto di epoca medievale, causa la difficoltà evidente di eventuali propositi di ammodernamento. Forse un sito, antecedente all’anno Mille, che i sovrani musulmani erano soliti impiegare come piazza forte per le loro truppe di occupazione predominio, ma che successivamente alla riunione del Mezzogiorno per opera dell’antipapa Anacleto II, nel 1130, sarebbe stato trasformato in una semplice cappella religiosa. E tale sarebbe rimasto per tutta la durata del predominio degli Altavilla, degli Svevi e degli Angioini, finché successivamente alla cruenta deposizione di Carlo I, e al conseguente passaggio del nuovo regno di Trinacria sotto lo stemma degli Aragona nel 1296, l’ascendente famiglia dei Chiaramonte, che agevolò questa delicata fase di transizione dei poteri, ricevette la contea di Modica nella persona di Manfredi III. Una carica degna di essere celebrata, immancabilmente, con la costruzione di un castello, per la collocazione del quale l’esperto soldato che aveva preso parte attiva al conflitto dei Vespri, combattendo in un assedio a Lentini, scelse di progettare il più inviolabile castello che l’intera Isola avesse mai potuto conoscere; talmente imprendibile da meritarsi il nome di Nido dell’Aquila e scrutandolo dal basso, non è difficile capirne la ragione.
Lo svettante edificio che sovrasta il piccolo paese di Mussomeli (10.000 abitanti) perfettamente integrato nella roccia al punto che soltanto uno dei suoi lati mostra la tipica muraglia merlata, mentre all’altro lato campeggia la semplice parete scoscesa frutto dell’erosione naturale, mostre le migliori caratteristiche possibili in un luogo del potere costruito verso la metà del IV secolo, tra il 1364 e ’67. Elegante, inaccessibile, ragionevolmente remoto. Egualmente funzionali all’accrescimento dell’imprescindibile, particolarmente irrinunciabile corredo di faccende conformi all’apprezzato titolo di “misteri”. Così che da lungo tempo, successivamente all’abbandono temporaneo del castello per tutto il corso del XV e XVI secolo, gli occasionali visitatori cominciarono a parlare di strane voci, figure evanescenti ed altri simili fenomeni, attribuiti di volta in volta ai diversi fatti storici verificatosi tra queste mura, attingendo molto prevedibilmente dai più tristi, violenti e spiacevoli aspetti dell’animo umano. La prima leggenda, in ordine cronologico, è anche quella più difficile da collocare. Attribuita ad un personaggio chiamato dal folklore popolare unicamente come il principe Federico, nome particolarmente comune in quegli anni in Sicilia per la larga fama del sovrano svevo soprannominato stupor mundi, che aveva fatto di queste un polo culturale e politico dell’intera Europa, si basa su vicende abbastanza improbabili da avvicinarsi ragionevolmente a quelle di una fiaba. Secondo cui il probabile membro della famiglia dei Chiaramonti (ve ne furono parecchi con questo nome) dovendo partire per la guerra su richiesta del suo re, fece murare le sue tre sorelle di straordinaria bellezza Clotilde, Margherita e Costanza all’interno di una stanza del castello con copiose provviste, con l’intento di preservarne la purezza fino al suo ritorno. Se non che, a causa della durata superiore alle aspettative del conflitto, al suo ritorno sarebbe andate a liberarle solo per trovarsi innanzi all’orripilante scena: le amate donne morte di fame, con le scarpe strette tra i denti, nel disperato tentativo di sfruttarle come ultima fonte di nutrimento. Una scena quasi dantesca per le sue infernali implicazioni ma comunque meglio di com’era andato al conte Ugolino, tutto considerato…

Lo stile chiaramontano usato nel castello, simile al gotico del settentrione francese, vanta alcuni elementi riconoscibili come le volte acuti degli archi ed i motivi decorativi delle finestre. Benché sia opportuno notare come, almeno nel caso della fortezza di Mussomeli, si tratti di una corrente fortemente influenzata dalle necessità di un vero edificio militare.

Verso la fine del travagliato e complesso regno di Trinacria, durante l’egemonia della regina Maria sposata con Martino I di Sicilia, un Aragona, l’importante costruttore del castello Manfredi III di Chiaramonte commise quindi un fatale errore. Successivamente alle accese critiche ricevute per l’allineamento dinastico che aveva ricercato mediante il matrimonio di sua figlia con un membro della famiglia degli Angiò, organizzò una riunione con altri baroni per costringere la sovrana a ripudiare il marito straniero. Ma scoperti per tempo da altri membri della nobiltà siciliana, i congiurati furono imprigionati e messi a morte, portando alla distruzione del titolo di conte di Messina e conseguente passaggio di mano della fortezza. Dapprima alla famiglia dei Moncada e successivamente, ai Lanza. Fu dunque proprio il più famoso membro di quest’ultima dinastia Cesare Lanza, a causare la venuta in essere del quarto fantasma del castello di Mussomeli, scaturito anch’esso da una triste vicenda familiare. Quella toccata in sorte alla sua amata figlia Laura, baronessa di Carini (1529-1563) che secondo un fatto di cronaca registrato negli archivi ecclesiastici coévi, fu scoperta intrattenere una relazione fuori dal matrimonio con il cavaliere di basso rango Ludovico Vernagallo. Tresca scoperta la quale, senz’alcun tipo di esitazione, il crudele genitore la assassinò cogliendola sul fatto, contando sull’impunità dovuta alla necessità nobiliare di preservare la purezza della propria discendenza futura. Se non che successivamente, trasferitosi a lungo termine nel castello manfredonico, avrebbe conosciuto tra simili mura la punizione divina per le proprie malefatte. Trovandosi ad udire, attraverso il succedersi delle cupe notti d’inverno, i lamenti e le grida tormentate dello spirito della figlia uccisa!
Delitti, crudeltà, sofferenza. Questi ed altri sono i sentimenti normalmente interconnessi, in una rete sottile quanto instabile, alla tipica leggenda di uno spirito mai sopito. Appropriatamente coadiuvati dall’aspetto, surreale e misterioso, di una struttura come quella del castello di Mussomeli. Il cui unico accesso è lo stretto e serpeggiante sentiero, in cima al quale trovano posto le cosiddette pre-scuderie, edificio completo di feritoie e concepito come prima barriera agli invasori. Per poi accedere alla parte centrale della fortezza, con la famosa Sala dei Baroni (o “del trono”) dalle finestre zigzaganti decorate nel famoso stile chiaramontano, probabile scenario della fallimentare congiura di Manfredi III. Per non parlare delle stanze scavate nella nuda roccia sottostante, dove in anni successivi avrebbe trovato posto il carcere feudale, le cui celle, poste a ridosso della cisterna del complesso, avrebbero anche avuto la pratica funzione di uccidere i condannati grazie al metodo dell’annegamento. E presso cui gli allestitori del sito successivamente al restauro portato a termine verso l’inizio degli anni 2000, ebbero l’iniziativa di collocare alcuni inquietanti strumenti di tortura. Potrebbe perciò sorprendere come il quinto fantasma di questi luoghi, in effetti, sia provenuto da una storia personale totalmente esterna all’intera inquietante faccenda…

Molte sono le opere d’ingegno e creative ispirate dalla travagliata storia del castello manfredonico, tra cui questa rassegna poetica prodotta localmente. Consigliato, per un approfondimento, il film del 2007 in due episodi “La baronessa di Carini”, gratuitamente visionabile sulla piattaforma web RaiPlay.

Senz’altro la manifestazione ectomplasmica maggiormente accertata, con tanto di testimonianze di avvistamenti collocabili entro l’ultimo ventennio, la figura del soldato spagnolo Guiscardo de la Portes fece la sua prima comparsa nel 1975, dinnanzi allo sguardo incredulo di un custode di nome Pasquale Messina che si era fermato sotto le alte mura per fumare una sigaretta. Al fine di narrare, con voce appropriatamente stentorea, il triste epilogo della sua vita in terra. Giunto sull’isola di Sicilia con l’esercito personale di re Martino I assieme al resto delle armate che dovevano sedare la ribellione dei Chiaramonte, egli si era infatti innamorato di una splendida fanciulla locale, di nome Esmeralda, che lo ricambiò immediatamente. Pur essendo, per la terribile sfortuna di entrambi, estremamente desiderata anche da un malvagio possidente identificato come Don Martinez, che cercando di riprendersela fece inseguire dai suoi sgherri i due per l’intera regione, in una serie drammatica di eventi destinati a concludersi con la morte di lui, per una caduta da cavallo. Evento prima del quale, malauguratamente, egli fece il grave errore di imprecare maledicendo Dio e la Provvidenza, ragion per cui il suo spirito fu condannato a vagare in eterno; proprio lì, tra le alte mura del castello manfredonico, dove si dice che Martinez l’avesse fatto seppellire in segreto. Nessuna fonte, nel frattempo, narra del destino della povera Esmeralda, che possiamo tuttavia facilmente immaginare, ahimé.
Ma la storia, nonostante tali e tante sofferenze della complessa vicenda umana, non può certo fare in modo di fermarsi. Le possenti fortezze di un tempo, attraverso il trascorrere dei secoli, mutano e diventano chiese, carceri, quindi attrazioni turistiche o in casi particolarmente sfortunati, semplici macerie prive di echi o qualsivoglia ragione per far rumore. E chi può veramente dire di sapere, allora, quale fine facciano i fantasmi contenuti all’interno?

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