Senza pista e senza le ali, avremmo continuato a chiamarlo aeroplano?

Un altro tempo, un altro anno, un altro universo. 1975: la base di risposta tattica dell’ALA “Talpa Nascosta” Nr. 45 reagì con prontezza al suono dell’allarme, per il decollo immediato di una squadra d’intercettazione, contro il rapido avvicinamento dei bombardieri nemici. Era il quarto giorno di guerra e come nell’ipotesi paventata fin dall’epoca di Einstein, una buona parte della superficie terrestre si presentava ormai ricoperta da una coltre nube radioattiva, sollevata dalla prima raffica di missili provenienti dal confine orientale. Intere città nella parte settentrionale della Francia, tuttavia, erano state temporaneamente risparmiate dal vortice di fuoco, richiedendo l’intervento vigile di quella particolare branca dell’aviazione ancora in grado, nonostante l’apocalisse, di portare a compimento dei risultati. Mentre il pilota Barrault prendeva posto nella cabina del C.450 Coléoptère assieme ai suoi 15 colleghi, un rombo cavernoso sovrastò la sirena: era dovuto all’apertura del coperchio superiore, non dissimile da quello di un silos usato per tenere nascosta la tipica arma di distruzione di massa. Il preciso protocollo di lancio, più volte messo in pratica durante le esercitazioni, prevedeva quindi il posizionamento in sequenza di ciascun caccia all’interno dell’angusto passaggio verso la superficie, per un decollo metodico e perfettamente perpendicolare alla stratosfera in paziente attesa. Trattenendo momentaneamente il fiato, Barrault si voltò quindi al di sopra della spalla destra sul suo sedile posto in orizzontale, per vedere il primo aeroplano che completato il breve periodo di riscaldamento e i test di volo, iniziava a sollevarsi con rapidità esponenziale, per sparire quindi dall’angusto spazio del suo campo visivo. Poi, accadde di nuovo. Due turni a seguire, venne finalmente il suo turno. Azionando quindi l’apposita leva, il pilota ruotò la sua posizione di 90 gradi all’indietro, ritrovandosi con lo sguardo rivolto in alto e il corpo adagiato in modo tale da assorbire l’impressionante accelerazione verticale. Stringendo impercettibilmente i suoi occhi come reazione alla luce distante, premette quindi il tasto di accensione; era il momento di far vedere ai russi chi comandava nei cieli d’Europa. Era il momento di spiegare le invisibili ali…
Volendo essere puntuali, d’altra parte, il nome stesso dell’aereo conteneva il suo segreto. Identificato per la prima tra la metà e la fine degli anni ’50 con il termine francofono per riferirsi ai coleotteri, un termine derivante dall’espressione greca koleópteros (ali nascoste) laddove quella dell’insolita proposta volante della SNECMA (Safran Aircraft Engines) era soltanto una, benché sotto mentite spoglie. Ovvero con la forma di un anello, costruito in modo tale da circondare la parte posteriore della fusoliera, le cui ruote direzionabili simili alla configurazione di una sedia d’ufficio, collocate sul retro del congegno, tradivano la rara eppure non sconosciuta posizione di decollo con la coda poggiata a terra ed il muso diretto verso il cielo, definita dagli anglofoni tail sitter. Ponendoci effettivamente di fronte all’ultimo siffatto approccio alla questione di un aeroplano VTOL (a decollo verticale) nell’epoca in cui la conveniente direzionabilità dei motori a reazione, in maniera analoga a quanto avviene in un moderno F-35 o i jet inglesi della serie Harrier, non era semplicemente ancora stata posta su di alcun tavolo da disegno. Lasciando ai progettisti l’unica metodologia possibile di voltare, senza troppe cerimonie, l’intero corpo del velivolo inusitato…

Le lunghe zampe sono del resto, un punto fermo in qualsiasi coleottero che si rispetti. Soltanto successivamente, l’insolito carrello del C.450 sarebbe stato integrato nella struttura delle ali.

Il fatto stesso che una compagnia come la SNECMA, specializzata nella produzione di motori aeronautici, avesse investito risorse tanto copiose nella progettazione di un velivolo fatto e finito dovrebbe lasciar sospettare quindi una particolare fonte d’ispirazione. Che nel caso del C.450 era in effetti giunta dal lavoro di niente meno che Helmut Zborowski, ingegnere austriaco con lunga esperienza in BMW ed a Peenemünde, lo stabilimento sotto il comando di Wernher von Braun presso cui i tedeschi avevano progettato e costruito i primi missili balistici a lunga gittata nella triste storia dell’umanità in guerra. Assieme a un gruppo d’insigni menti il cui destino sarebbe stato, notoriamente, quello d’emigrare oltreoceano con il beneplacito dei servizi segreti statunitensi, tra le accoglienti braccia dell’operazione Paperclip. Ma non tutti e soprattutto, non obbligatoriamente, come esemplificato dall’apertura da parte di Zborowski di un ufficio tecnico in Francia, dedito alla registrazione di una lunga serie di brevetti. Più importante tra i quali, datato attorno al 1950, sarebbe stato il Ringflüger, primo esempio teorico del concetto di un aereo a decollo verticale dotato di ala chiusa, dalla forma rigorosamente circolare valida a ridurre la generazione di vortici ed i conseguenti problemi di vecchia data. Inoltre, almeno nell’idea di partenza, tale apparecchio avrebbe dovuto sfruttare la naturale compressione dell’aria all’interno di tale spazio, per l’effettiva messa in opera di un sistema di propulsione a statoreattore, incrementando esponenzialmente la velocità e l’economia del carburante in volo.
Colpiti dall’intuizione geniale di un tale individuo, i dirigenti della SNECMA ne acquistarono i diritti ed iniziarono quindi una lunga e travagliata fase sperimentale, nel contesto della loro famosa serie di motori a turbogetto Atar, per la creazione del C.400 P1 “Volant”. Un impianto equilibrato, calibrato e dotato della potenza idonea a sviluppare una spinta di decollo totalmente contraria all’attrazione gravitazionale. Ovvero direzionata, in altri termini, in maniera perfettamente verticale. Il modello prototipico risultante, esteriormente non dissimile da un razzo contemporaneo della Space X di Elon Musk, fu quindi perfezionato in una serie di tre modelli successivi finché al termine di una simile progressione, non fu deciso di costruirci attorno un aereo. Ma il C.450, come avremmo potuto prevedere data la sua genesi tanto insolita, aveva ben poco di riconducibile al concetto noto di un simile dispositivo: dotato delle sole superfici di controllo di una serie di quattro pinne triangolari, poste in opposizione lungo la circonferenza dell’ala, esso avrebbe manovrato a velocità ridotte mediante la natura direzionabile del getto di spinta, facendo affidamento sulla precisione e l’attenzione del suo pilota. Quindi raggiunta l’altitudine idonea, avrebbe cambiato il suo senso d’orientamento in posizione orizzontale, per iniziare la marcia secondo le modalità operative di un comune aereo a reazione. Il fatto che i precedenti prototipi di tail sitter costruiti primariamente dalla Luftwaffe durante la seconda guerra mondiale, e successivamente dall’aviazione statunitense, fossero stati dei sostanziali fallimenti, significava quindi che la SNECMA avrebbe dovuto lavorare a stretto giro coi suoi migliori piloti sperimentali, affinché la perfezione ideale del progetto ingegneristico risultasse effettivamente riconducibile a un qualcosa di efficacemente risolutivo. La figura idonea venne rintracciata, dunque, nel personaggio esperto di Auguste Morel, già collaboratore a più riprese del progetto Atar Volant. Completata la costruzione di un primo prototipo grazie alla collaborazione della compagnia francese Nord Aviation, a dicembre del 1958, lo strano oggetto si sollevò per la prima volta presso l’aerodromo di Melun Villaroche. Così che fin da subito, non mancarono le (brutte) sorprese…

Molti sarebbero stati gli impieghi ideali di un tale velivolo, non ultimo quello di tipo navale. Nessun altro aereo, neppure l’Harrier, avrebbe mai potuto vantare uno spazio minore per il decollo, data la presenza di un paio d’ali di tipo convenzionale.

Quello che Zborowski e i suoi insigni colleghi non avevano previsto, infatti, era la naturale rotazione della turbina a far girare su se stesso lentamente l’aereo durante l’intera fase di decollo, ponendo una sfida non indifferente per l’uomo ai comandi. In una serie di voli finalizzati al semplice raggiungimento di quote relativamente elevate in senso verticale (fino agli 800 metri) senza mai “girare” l’aereo, fu inoltre riscontrato da Morel il modo in cui l’aereo tendesse a destabilizzarsi in fase di discesa, per le turbolenze generate dal suo stesso getto verticale, ponendo le basi di una situazione di pericolo pressoché costante. Lo stesso ed imprevisto attrito generato dall’ingombrante struttura alare, inoltre, riduceva sensibilmente le prestazioni. Indifferenti a tutto ciò, come spesso capita, i vertici della compagnia spinsero nonostante tutto a continuare le prove fino al fatidico nono volo, fissato per il 25 luglio del 1959. Occasione durante la quale, finalmente, il Coléoptère avrebbe rivolto il suo affilato muso in avanti, mostrando la massima velocità raggiungibile anche senza alcuna implementazione dell’avveniristico statoreattore voluto inizialmente dal suo inventore austriaco. Senza nessun tipo d’esitazione, con una sicurezza che soltanto l’esperienza può fornire, Morel premette quindi con forza sulla leva di comando, vedendo finalmente l’orizzonte comparire nella stretta cornice della sua postazione di volo. Ma una volta raggiunta la posizione desiderata, ormai perso il controllo, l’aereo continuò a ruotare, iniziando una serie d’oscillazione che avrebbero condotto, di lì a poco, al disastro. Senza esitazioni il pilota si lanciò con il seggiolino eiettabile riuscendo a salvarsi la vita, ma non preservare la sua incolumità. Con il principale sperimentatore ferito, il prototipo in fumo e la fiducia della dirigenza totalmente compromessa, il progetto Volant andò quindi incontro a un’irrisolvibile impasse. Dopo un breve tentativo di raccogliere i fondi per procedere alla costruzione di un secondo prototipo, la SNECMA decise quindi di terminarlo definitivamente, attorno all’inizio della decade successiva.
Mutazioni sul corso di un processo evolutivo soltanto in apparenza ininterrotto e lineare: anche tali passaggi, attraverso i corsi e ricorsi della storia e la costante corsa agli armamenti, è un processo che connota l’invenzione di nuove metodologie ed approcci al volo. Senza i quali oggi non avremmo l’elicottero, il motore a reazione, la turboventola ed innumerevoli altri ausili alla trasformazione dell’uomo in uccello di ferro, pronto a difendersi da eventuali forze ostili… Peccato soltanto che qualche volta, l’ipotesi metaforica finisca per diventare reale. E persino la più cupa speculazione narrativa, sia destinata a rivelarsi una tangibile profezia di condanna.

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