“È giunta da Pechino, / int’ ‘a ‘nu vaso, / ‘na cosa misteriosa.” Cantava nel 1954 il napoletano Renato Carosone, per poi proseguire: “‘Stu fungo cresce, cresce / dinto ‘o vaso / e chianu, chianu / fa ‘nu figlio ‘o mese.” Erano anni di scoperte, senz’altro, come quella della stampa nazionale relativa a un’ammirevole medicina “fatta in casa” immortalata sulla prima pagina di una storica Domenica del Corriere, con l’illustrazione di un estatico mandarino della dinastia Qing che offriva al pubblico una grande ampolla, all’interno della quale galleggiava un disco gelatinoso sospeso in uno strano liquido marrone. Scena esotica dall’illuminazione un po’ inquietante, mirata ad accrescere, se ancora fosse stato possibile, il fascino tra il pubblico italiano di una moda importata assai probabilmente dagli Stati Uniti, per la produzione di un qualcosa la cui origine nessuno, realmente, poteva dire di conoscere a tutti gli effetti. Una versione alternativa, sostanzialmente, della bevanda fermentata che i russi chiamavano kvas, senza tuttavia l’impiego di pane di segale bensì una copiosa quantità di zucchero, mescolato ad un liquido aromatico nel quale il produttore aveva introdotto, precedentemente, una coltura microbica formata da batteri e lieviti, che a causa della forma circolare del barattolo, tendeva ad assumere per l’appunto la forma del cappello di un fungo. Ovvero in altri termini, quello che le controculture americani degli anni ’50 avevano recentemente preso a definire il kombucha (昆布茶) usando una specifica terminologia non più cinese bensì giapponese (dopo tutto, non molti sembravano interessati alla differenza) comunemente usata per un fluido giudicato piacevole al palato e dalle presupposte capacità medicinali. Particolarmente diffuso nell’isola settentrionale di Hokkaido e preparato, come esemplificato dall’inclusione del termine del carattere Cha – 茶 (té) mediante un’infusione di kombu 昆布 (alga verde) ingrediente di primaria importanza nell’intero ambito culinario di tale paese. Nonché molto prevedibilmente, assai difficile da ritrovare in ambito mediterraneo, ponendo le basi di un monumentale fraintendimento che continua tutt’ora.
Risulta particolarmente interessante notare come la prima menzione di una bevanda riconducibile al kombucha originario possa essere messa in relazione con l’episodio semi-storico narrato nelle cronache letterarie del Kojiki e Nihon Shoki (VII secolo) in cui si parla della miracolosa guarigione da una grave malattia del 19° Imperatore Ingyō (允恭天皇) vissuto tra il 376 e il 453, ad opera di un medico venuto dalla Corea, il cui nome sarebbe stato, per un’incredibile coincidenza, esattamente identico a quello dell’alga. Il che non ci permette, in effetti, di comprendere che cosa fosse realmente la medicina, né se quest’ultima fosse realmente conforme alla cognizione tradizionale, oppure quella occidentalizzata del kombucha. Il misterioso fluido ricompare dunque durante il regno dell’Imperatore Murakami (村上天皇, 926-967) che si diceva ne fosse un’entusiastico consumatore, sebbene sia facile individuare, in quell’epoca maggiormente documentata, l’importante distinzione tra kombucha e il cosiddetto kōcha kinoko – 紅茶キノコ ovvero per l’appunto, il “fungo del té” propriamente detto, mostrato e descritto all’inizio della nostra trattazione. Una strana e memorabile visione, destinata ad assumere in tempi moderni la definizione di un acronimo ancor più descrittivo e caratteristico di quello utilizzato nei suoi possibili paesi di provenienza…
Nota: Mostrato in apertura, il video del canale Food Insider girato presso uno stabilimento di produzione del kombucha a Portland, capitale hipster dell’Oregon e gli interi Stati Uniti. La preparazione in contesti industriali della bevanda, oltre ad essere biologicamente controllata e più sicura, tende a far crescere il fungo fino dimensioni decisamente impressionanti.
Marrone/giallognolo, gelatinoso e flessibile, compatto ma variabilmente diseguale: SCOBY è l’abbreviazione ben più maneggevole dell’espressione anglofona symbiotic culture of bacteria and yeast (coltura simbiotica di batteri e lievito) fatta crescere sopra il terreno fertile di un tappeto zoogleale, niente affatto dissimile da quella che i produttori di aceto sono soliti chiamare la Madre. E quindi nutrita, nel presente caso, con generose quantità di zucchero per un periodo di almeno 4 giorni, fino alla crescita entro l’intero spazio disponibile e l’inevitabile creazione, nella parte superiore del barattolo, di una figlia dall’aspetto analogo, benché più piccola e per questo incline al galleggiamento. Commistione rigorosamente antropogenica di microrganismi osmofili, ovvero adattati a sopravvivere in condizioni di pressione osmotica elevata, lo SCOBY contiene quindi una notevole varietà di creature tra cui l’irrinunciabile lievito Saccharomyces cerevisiae, usato anche nella produzione del vino, e il Gluconacetobacter xylinus, incline alla processazione degli acidi acetici, verso la creazione collaterale di una certa quantità di alcol, comunque largamente inferiore a quello contenuto in qualsiasi birra. Tale specifica preparazione, perfettamente realizzabile in un ambiente domestico, ebbe quindi verso la metà del secolo scorso un successo apprezzabile in determinati ambienti culturali sempre alla ricerca del nuovo d’Oriente, venendo esportata in Europa assieme alla leggenda delle sue presunte capacità medicinali meravigliose. Che ne farebbero secondo le opinioni diffuse tra i suoi estimatori, un rimedio per l’artrite, l’arteriosclerosi, la costipazione, l’anoressia, il diabete, l’AIDS ed il cancro, sebbene nessuna prova clinica sia stata in grado di dimostrare, in tutti questi anni, alcun tipo di effetto benevolo derivante dalla sua consumazione. Mentre molto più probabile, nel caso delle fermentazioni effettuate in ambiente casalingo, risulta l’introduzione accidentale di batteri potenzialmente nocivi, indotti ad un’estrema proliferazione grazie alla colonia simbiotica e l’abbondanza di zuccheri nutritivi.
Che lo SCOBY o fungo cinese possa definirsi simile nell’aspetto alla foglia di alga kombu galleggiante nel tradizionale tè giapponese risulta essere largamente soggettivo ed opinabile, ulteriore ragione valida ad accreditare la teoria secondo cui l’origine del fraintendimento possa essere collocato all’inizio del Novecento in Manciuria, nel teatro del breve ma sanguinoso conflitto destinato a passare alla storia come guerra russo-giapponese (1904-1905) durante cui le due culture si trovarono per la prima volta in contatto, ponendo le basi di un futuro e longevo sincretismo. Che all’origine il kombucha di tipo fermentato potesse aspirare ad assomigliare allo kvas, possibilmente con l’aromatizzazione dell’alga importata dell’Hokkaido resta dunque certamente possibile, come del resto una convergenza pienamente accidentale, seguìta da un fraintendimento linguistico, di bevande dalla storia e preparazione tanto radicalmente diversa. Fatto sta che un tale gusto aromatico e caratteristico sarebbe piaciuto ai suoi primi consumatori, al punto da giustificarne la diffusione verso il vasto territorio dello Zar e da lì, nell’intero Occidente.
La storia del cosiddetto fungo cinese in Italia, prima ancora che si diffondesse la definizione in lingua giapponese re-importata dagli Stati Uniti, è fatta di corsi e ricorsi, come una sorta di moda e collezionismo transiente particolarmente diffuso tra i giovani. Inclini ad offrirsi vicendevolmente le “figlie” delle proprie culture batteriche o “funghi della fortuna” con presunti effetti medicamentosi o ancor più di frequente, l’effetto altrettanto inspiegabile di agevolare il superamento di esami o compiti in classe. Fino all’inevitabile proliferazione eccessiva del blob vivente, con conseguente difficoltà nello smaltimento causa la presunta sventura causata dall’interruzione intempestiva della catena. Un’idea che certamente avrebbe lasciato stupìta, e perplessa, una personalità proto-scientifica come quella del leggendario medico coreano con lo stesso nome dell’alga.
Alga, fungo, medicina, portafortuna. Poche sono le bevande in grado di vedere una simile commistione di concetti alla propria origine, misteriosa quanto le astruse elucubrazioni di un’eredità che si perde largamente nel flusso semi-storico della più assoluta leggenda. Tanto che si è soliti affermare che l’origine del kombucha possa essere collocato tra i 100 e i 3000 anni prima dell’epoca corrente, nonché in un’ampia serie di possibili circostanze.
Tra cui quella forse maggiormente esemplificativa, resta la cosiddetta storia del cosiddetto fungo di mare (海蘑菇 – hai mogu) creato accidentalmente quando l’aiutante di un mercante cinese del Mar di Bohai lasciò cadere, mentre stava riordinando il negozio del suo padrone, un’intero vaso di miele all’interno di un recipiente di ceramica normalmente usato per la fermentazione del vino. Omettendo quindi di pulire il piccolo disastro, per distrazione o disinteresse, finché alcuni giorni dopo gli avventori del luogo non restarono colpiti dall’odore insolito e interessante che sembrava aleggiare tra le accoglienti mura. Evento a seguito del quale, anche complice il clima di una soffocante estate, l’aiutante scelse di assaggiare per primo la curiosa bevanda, subito seguìto dai presenti incuriositi, ponendo le basi di quello che sarebbe diventato in seguito il kombucha. Un punto di partenza particolarmente significativo, per qualcosa di tanto apparentemente bizzarro, eppure conforme alla più classica strategia dell’uomo: se non è ancora abbastanza buono, lascialo crescere. La natura si occuperà del resto…