Lungo la Strada della Morte nell’antica contea del Devon l’agricoltore ubriaco camminava nella nebbia dopo la sua lunga serata di svago presso il pub di Princetown. Il suo nome? Oliver, Jacob, George? L’anno, il 1400, 1500, 1600… Attraversando un’aria tanto umida che solamente chi viveva presso l’altopiano di Dartmoor, penisola della Cornovaglia, poteva anche soltanto remotamente pensare di trovarsi a suo agio, come ogni sera e ogni mattina in quella brughiera dannata. A un tratto l’ululato distante tagliò l’aria come la testa di una zappa, giusto mentre una figura dai contorni scuri, appena visibile nella sua giacca di tweed e il cappello da cacciatore, sembrò stagliarsi contro un qualche tipo di luce inesistente. Un gelo improvviso s’impossessò delle sue membra, quando facendosi coraggio, pensò che fosse necessario apostrofare lo sconosciuto: “Buonasera a lei, signore! Ha fatto buona caccia, stasera?” Un ringhio soffuso s’impossessò dell’agognato silenzio, mentre movimenti appena udibili tra l’erba tradivano l’avvicinamento del branco: “Oh, oh, oh, ECCOME!” La voce orribilmente cavernosa, rispose: “Guarda qui, mio caro!” Fece lui, assumendo dei contorni lievemente più distinti, quasi come se una fiamma misteriose ardesse in mezzo alle querce contro cui si stagliava l’individuo inquietante. Quindi sollevò tra le sue mani un grosso sacco e senza troppe cerimonie, lo lanciò all’indirizzo del contadino. Oliver, Jacob o George, riuscito miracolosamente ad afferrarlo, venne preso come da una frenesia indistinta. Tremando e battendo i denti, iniziò a frugare tra le pieghe della stoffa, nel tentativo di trovare coi suoi occhi il contenuto del regalo maledetto. E fu così che con lo sguardo fisso, si ritrovò scrutato di rimando da una piccola testa morta e mozzata di un qualcuno, che primo acchito, gli sembrava stranamente familiare. Dopo qualche attimo di panico, comprese la tremenda verità: c’era null’altro che il suo neonato e unico FIGLIO, là dentro!
Casistiche impreviste dalle implicazioni mai narrate, sebbene tutti, in quel contesto, riuscissero a conoscerne la semplice ragione. Poiché non vi sono luoghi del potere, o convergenze delle ostili linee della Terra, maggiormente chiari che la contorta foresta di Wistman, ultimo residuo di un’epoca in cui il mondo era più selvaggio, crudele e incomprensibile di adesso. Prima che i greggi di pecore percorressero i prati; che i turisti con il cellulare alla mano scattassero fotografie ai pony; che i lampioni, a gas o d’altro tipo, illuminassero il sentiero dei viventi. Un luogo noto in senso etimologico alternativamente come Wiseman’s Wood, ovvero il bosco dell’uomo saggio, oppure Whisht Wood, la selva stregata, a sempiterna testimonianza della sua duplice funzione, in qualità di luogo di raduno dei druidi celti, che qui avrebbero avuto l’abitudine di compiere sacri rituali e in seguito confine abbandonato tra lo scibile ed il sogno della ragione, patria di mostri sempre pronti a ricordare all’uomo la sua posizione nello schema naturale dell’esistenza. Tanto che proprio tra queste fronde umide, le rocce muschiose e i tronchi ripiegati su loro stessi di alberi impossibilmente deformi, si diceva che avesse inizio e fine la Grande Caccia, svago demoniaco che era solito finire in modo tragico ed inevitabile, oltre il calar di sere senza una data specifica sul calendario (altrimenti, troppo facile sarebbe stato trovare rifugio dinnanzi al rassicurante focolare domestico!) E la valida assistenza, per i loro conduttori, di una razza di cani reincarnazione dei bambini morti prima del loro tempo, chiamata talvolta Yeht per il grido (yell) del loro abbaio, dal colore delle tenebre e gli occhi di brace, le grosse fauci spesso spalancate e la capacità di correre alla velocità di un treno a vapore. I cui ululati, ben presto, diventarono un richiamo noto per coloro i quali necessariamente, dovevano convivere con tali ostinate leggende.
Tra cui quella, particolarmente pregna, secondo cui una simile foresta isolata, dall’estensione di appena 3,5 ettari, esistesse grazie all’opera intenzionale di Isabella de Fortibus (1237-1293) figlia del sesto conte di Devon, che dopo aver perso tutti e sei figli venne costretta a firmare, sul letto di morte, un documento in cui cedeva tutti i suoi titoli al Re Edoardo I d’Inghilterra. Ma non prima che il suo rancore, trasformato in legno nodoso e impossibile da bruciare, mettesse solide radici nella terra vulnerabile dell’isola di Britannia…
Nota: lo slideshow di apertura costituisce una selezione delle immagini scattate dal fotografo locale Neil Burnell per il suo nuovo libro Mystical, dedicato a documentare quattro anni di mutamenti nell’inconfondibile foresta di Wistman.
Benché a conti fatti, l’analisi scientifica non dia nessuna prova di una simile teoria, inducendo piuttosto a pensare come la foresta di Wistman sia esistita da un periodo continuativo di almeno 7.000 anni, sopravvivendo al disboscamento sistematico dell’Era Neolitica ed il Mondo Antico in forza della sua sostanziale ed innegabile inutilità. Chiunque visiti quei luoghi ancora oggi, infatti, potrà facilmente riscontrare la natura quasi impercorribile del suo umido suolo, costituito dall’assembramento di rocce granitiche chiamato in questi luoghi clitter, o clatter, tra le quali risulta fin troppo facile cadere causa l’occultamento delle fessure per la vegetazione e le foglie morte, causando l’immediata slogatura di uno o più arti. Frutto in essere, sostanzialmente, di un affioramento di roccia preistorica denominato tor, emerso a seguito dell’ultima glaciazione e successivamente disgregato per l’effetto degli elementi, creando le basi di un luogo tanto distintivo ed inospitale. Il che non ebbe alcun modo di prevenire, d’altronde, la crescita smodata di una macchia di ostinate quercie peduncolate (Quercus robur) ricoperte da fino a 15 varietà di muschio accompagnate dall’occasionale sorbo, biancospino, nocciolo e salice cespuglioso. Tutti alberi, d’altronde, posti sotto sforzo causa i pochi nutrienti del suolo inaccessibile, e le rocce capaci di costringere le loro radici, nonché il vento ostinato che sembrava battere senza posa l’intera penisola di Cornovaglia. E per questo non soltanto alti al massimo 3 o 4 metri, ma letteralmente insalubri e zigzaganti, come il Fato di coloro che fossero tanto coraggiosi, o sciocchi, da inoltrarsi tra le tenebre di un siffatto ambiente.
E per quanto riguarda l’aspetto faunistico… Basti sottolineare come, molto prevedibilmente, nessun tipo di bestia benevola abiti tra questi tronchi, bensì soltanto una gremita popolazione di marassi (Vipera berus) rettili variabilmente velenosi, in grado di costituire un particolare pericolo per gli animali domestici. Tanto che anche in epoca più recente, con il diavolo ormai diventato ben più subdolo e difficile da rintracciare nella sua costante caccia, l’unico ululato che percorre il bosco di Wistman sia quello del cane Jumbo, tristemente morto in tempi più o meno recenti causa il morso della strisciante controparte boschiva. Ricerche scientifiche dei nostri giorni, portate avanti successivamente all’iscrizione di questo luogo tra l’elenco dei siti d’interesse scientifico inglesi nel 1964, hanno quindi permesso di dimostrare come un tempo la temperatura più fredda avesse reso i suoi alberi ancor più bassi confermando le fonti tardo-medievali secondo cui fosse “possibile raggiungerne la sommità con la mano”. Mentre la datazione delle querce più antiche della selva è bastata a porle attorno a un’epoca di circa 400-500 anni fa, quando il progressivo rigoglio della vegetazione portò il bosco a crescere di dimensioni, mentre il timore reverenziale degli abitanti locali diminuiva esponenzialmente a ogni piè sospinto. Interessante, a tal proposito, la pietra monumentale eretta ai margini del bosco e datata 1866, in cui il ricercatore naturale Wentworth Buller, con permesso del Duca, commemora l’abbattimento di una vecchia quercia al fine di procedere al conteggio degli anelli, tale da giungere alla stima approssimativa di 168 anni di età.
Ricorrente come ispirazione per un certo tipo d’arte, letteraria e pittorica, il bosco di Wistman viene spesso citato nella letteratura inglese come pietra di paragone di una natura selvaggia e inconoscibile, ancora avvolta nel mantello che un tempo aveva separato gli uomini dalle loro cognizioni apparenti. Notevole, a tal proposito, la poesia dell’autore Nicholas Toms Carrington 1777–1830 culminante con la famosa terzina che alludeva alla disgregazione di ogni essere vivente: “By Nature kindly aid – dishonoured – old – / Dreary in aspect – silently decays / The lonely Wood of Wistman.” E di contro, i versi di Sophie Dixon, che nel 1829 scriveva con un messaggio di rinascita e speranza: “Yet still young foliage, fresh and fair, / Springs forth each mossy bough to dress, / And bid e’en Dartmoor’s Valleys share / a Forest-wilderness“. O ancora il saggio The Tree sul ruolo dell’albero nella mitologia umana delle epoche trascorse, scritto dal 1978 ad opera dell’autore di romanzi John Fowles, entro cui il bosco di Wistman diviene l’archetipo della foresta primordiale, dove le regole di un mondo chiaro ed estremamente noto incontrano il velo sottile della non-esistenza.
Che il diavolo vivesse a Dartmoor resta dunque una credenza diffusa, al punto da offrire terreno fertile all’insistente seme del dubbio. Pochi teatri naturali, dopo tutto, sembrerebbero possedere le stesse qualità esteriori valide ad incrementare l’effetto scenografico della sua occasionale ricomparsa.
Perché come si dice, non c’è più grande inganno perpetrato ai danni dell’umanità che riuscire a convincerla della sua lunga trasferta verso mondi e pianeti inusitati. Fatta eccezione per quei brevi e fugaci incontri sulla Terra, in cui egli si dimostra tanto chiaramente intenzionato a lasciare la sua firma. Ed è proprio quello l’attimo, secondo quanto dice la sapienza popolare, di gettarsi a terra, coprirsi occhi, orecchie e pregare. Mentre si aspetta che l’occhio del maligno, annoiato, torni a volgersi Altrove. Sperando intensamente che Fido il cupo massacratore, almeno per quel giorno, avesse già ricevuto almeno il pasto di metà giornata!