Chi ha mai detto che le anime gemelle debbano necessariamente assomigliarsi? Qualche volta, ciò che rende compatibili creature assai differenti è proprio il fatto di essere complementari, o ancora le ragioni d’interesse specifiche finalizzate a un qualche tipo di risoluzione. Vedi il caso di chi ama l’Oceano e tutti i suoi sereni nuotatori. Ma anche i cercatori, per una ragione diametralmente contrapposta, degli stessi zampettanti abitatori delle sabbie senza tempo…
Il complicato sistema di correlazioni che costituisce un bioma terrestre trae generalmente grande beneficio dall’incontro ed i rapporti tra multiple specie animali. Poiché come si dice, l’unione fa la forza ed ogni forma di vita è parte di un ecosistema inerentemente complesso, conforme al funzionamento artificiale delle lancette di un orologio: i microrganismi prosperano, gli spazzini controllano, i carnivori eliminano. Ma nel momento in cui c’è una corrispondenza d’interessi, nelle forma di vita che diventano del tutto inscindibili, occorre porre un distinguo relativo all’opportunità. Ed occorre chiedersi, caso per caso, se si tratta di simbiosi o parassitismo. Ovvero se i reciproci interessi marciano nella stessa direzione oppure la sopravvivenza di uno costa, inevitabilmente, il benessere alla controparte, con conseguenze spesso assai difficili da prevedere. Vedi il caso dell’oniscide bopiride Orthione griffenis, casualmente finito dentro i serbatoi di zavorra delle navi di ritorno dal Pacifico Orientale, e che per caso ha individuato la sua perfetta “casa via da casa” proprio qui, presso gli estuari costieri dei fiumi americani. Ma forse individuare il punto d’arrivo di una tale migrazione antropogenica in un luogo, piuttosto che un’esistenza biologica pronta ad accoglierli, sarebbe inerentemente un errore. Poiché in un certo senso fosti proprio tu, Upogebia pugettensis o gambero blu del fango (fino a 11 cm di lunghezza, non commestibile) ad attirare con la tua appetibile essenza tale dannazione finale.
Un incontro forgiato tra le fiamme del Monte Fato, piuttosto che la migrazione elfica continentale dal Paradiso Terrestre di Valinor, visto quello che comporta normalmente per i poveri bersagli predestinati dalle grandi chele, eppure nondimeno totalmente inermi di fronte al vampirismo crudele degli invertebrati. Che non possedendo alcuna metodologia di termoregolazione interno, hanno appreso dalle lunghe trame dell’evoluzione il metodo per riscaldarsi, e al tempo stesso nutrirsi, acquisendo i benefici degli altrui sanguigni fluidi. La storia biologica dell’O. griffensis prevede infatti, già poche ore dopo la nascita, che la sua larva microscopica aggredisca un gamberetto cobepode di passaggio, per poi cavalcarlo il tempo necessario a crescere e mutare più volte; finché diventata troppo grande per quest’ultimo, non l’abbandona in cerca di un organismo ospite più grande. Trovate le branchie del quale, ivi si stabilirà il piccolo essere destinato a diventare femmina, moltiplicando le sue dimensioni fino a 24 impressionanti millimetri e mutando colore verso una tonalità marrone rossastra, in attesa dell’ospite successivo pronto ad accoppiarsi con lui/lei. Affinché l’orribile ciclo possa ricominciare, ancora e ancora e a meno che… Qualcuno di abbastanza esperto, e benevolo, passasse da quelle parti, con l’evidente intenzione di spezzare la ruota implicita della condanna…
Quello che vediamo fare il naturalista ed oceanografo oregoniano Jacob Colvin, mentre tira fuori i gamberi dalle loro buche profonde fino a un metro con la pompa di carotaggio in alcuni dei suoi video più guardati del canale da quasi un milione d’iscritti, è in effetti un gesto non soltanto empatico ma per una volta fortemente giustificato dal punto di vista dell’influenza umana sull’ambiente, vista in primo luogo la non appartenenza degli oniscidi a quel particolare contesto geografico, ma anche l’effetto deleterio che questi ultimi sono stati dimostrati avere sulla futura sopravvivenza del gambero del fango, specie endemica dall’importante valore ecologico continuativo nel tempo. I quali, una volta acquisito l’ospite indesiderato che è in grado d’insinuarsi agilmente al di sotto della loro armatura di crostacei, inizieranno ad essere privati delle forze fino a diventare essenzialmente degli zombie incapaci di riprodursi, privando il pool genetico del loro fondamentale contributo generazionale. La questione del parassita asiatico e del gambero oregoniano è stato in effetti all’origine di una situazione vieppiù propensa a peggiorare, come dimostrato nell’ultimo studio scientifico pubblicato nell’estate di quest’anno sulla rivista Bioinvasive Record, frutto di un blitz esplorativo di studiosi dell’istituto Hakai e guidato dal ricercatore dell’Università della Columbia Inglese (Canada) Matthew A. Whalen. Nel quale si riscontrava la presenza particolarmente significativa del bopiride presso l’isola a nord di Vancouver di Calvert, situata ad una distanza considerevole da qualsiasi centro abitato e relativa banchina portuale. Il che dimostrava, purtroppo, la capacità del distruttivo parassita di migrare anche senza l’aiuto delle imbarcazioni umane, diffondendosi come una malattia ben oltre gli arbitrari confini disegnati sulle mappe degli atlanti ed altre risorse di riferimento prodotte dagli esseri umani.
Con una preferenza documentata per gamberi di sesso femminile, e un conseguente effetto misurabilmente nefasto sulla popolazione dei crostacei a distanza di pochissime generazioni, il parassita O. griffenis è stato già fatto oggetto di svariati tentativi sistematici d’eradicazione, benché si sia rivelato particolarmente difficile trovare metodi capaci di ucciderlo con sostanze chimiche o altri approcci che non nuocciano anche all’ospite sfortunato, per non parlare del prezioso e delicato ambiente degli estuari americani. Così che, ad oggi, l’unico approccio ragionevolmente valido alla riduzione del malefico intruso diventa la rimozione manuale e sistematica messa in atto da Colvin e altri volontari sull’intero territorio interessato, un lavoro tanto certosino e complesso quanto potenzialmente affine all’impresa del macigno di Sisifo, data la probabile e immediata tendenza dei gamberi e venire infettati nuovamente una volta rimessi sulla spiaggia. Il che, del resto, non dovrebbe togliere valore o meriti a chi tenta, per quanto possibile, di offrire una secondo tentativo per riuscire a sopravvivere ai suoi amati beniamini entro il vasto mare delle possibilità.
Fortemente sconsigliato, dall’esperto praticante, resta ad ogni modo il tentativo d’imitarlo, vista la necessità di un periodo di studio in contesti universitari o similari prima di procedere all’operazione, che portata a termine in maniera inadeguata potrebbe causare problemi al gambero nonostante la sua provata incapacità di soffrire. Il che in un certo senso, rende ancor più irraggiungibile l’implicito obiettivo finale, visto il numero ridotto di coloro che potranno mettere in pratica una così rara e insolita opportunità di fare del bene.
Benché resti possibile affermare, in ultima analisi, come il semplice sollevare simili questioni innanzi all’opinione pubblica possa portare effetti contributivi alla futura (possibile?) risoluzione del problema; mentre il semplice disporre di una maggior quantità di parassiti da sottoporre a studi scientifici e ricerche d’approfondimento, oltre che la composta del giardino di Jacob, possa fornire un giorno lo strumento, chimico, procedurale o tecnologico, per rimuoverne le implicazioni maggiormente problematiche dall’attuale progressione naturale degli eventi. Dopo tutto abbiamo solamente il tempo della vita per influenzare la direzione cosmica in cui l’universo instraderà le nostre eventuali esperienze future nel mondo materiale. Per cui aiutare gli altri può arrecarci un immediato ed invidiabile beneficio. Sia che siamo umani, gamberi e parassiti e quindi, indipendentemente dalle implicazioni di somiglianza, o implicita distanza, tra i differenti ordini di creature.