Centinaia di migliaia di tonnellate in ferro, vetro e cemento, impilate con la logica ingegneristica pensata per portare a coronamento la pubblica risposta ad un bisogno: abitativo, lavorativo, produttivo o una combinazione delle tre finalità quasi indistinte, nella vasta tempesta quotidiana del rapido mondo moderno. E noi che lo guardiamo, dal livello della strada, sempre pronti ad affermare: “Magnifico. Non ci sono dubbi che un simile grattacielo cambierà il mondo.” Strano, se ci pensi: perché di edifici quasi esattamente identici, ve ne sono letteralmente milioni. E non si capisce esattamente come aggiungerne l’ennesimo, possa cambiare in alcun modo le regole del gioco. É dal 21 ottobre scorso, nel frattempo, successivamente all’inaugurazione, che la gente di Rudrapur nel nord del Bangladesh osserva un qualche cosa non potendo fare a meno di chiedersi, esattamente, quale sia la funzione. Sto parlando della lunga rampa, con inclinazione controllata, che danzando gira tutto attorno a un’edificio curvilineo di 250 metri quadri fatto di bambù e uno strano materiale color marrone, per il resto indistinguibile dal cemento usato normalmente per i luoghi architettonici d’uso comune. Il suo nome è Anandaloy (“Luogo della Grande Gioia” in lingua Bangla) come scelto dall’autrice tedesca e vincitrice con esso dell’annuale premio Obel, Anna Heringer, mentre le pareti sono fatte di un qualcosa di economico, resistente, totalmente funzionale allo scopo: terra mista ad acqua che poi sarebbe in altri termini, fango compattato a mano. Lo scopo della rampa è presto detto: permettere ai disabili in sedia a rotelle, ogni qualvolta ne sentissero il bisogno, di raggiungere agevolmente il secondo piano. Una finalità a tal punto dirompente, nella cultura indigena di questi luoghi, da aprire la strada ad un’intera nuova classe di questioni sociali, precedentemente delegate al reame indegno di essere discusso di “punizioni del karma” dovute a comportamenti impropri attraverso il ciclo delle reincarnazioni passate. Ma pensare che il dialogo del nuovo centro di riabilitazione, ed opificio autogestito a conduzione femminile nei locali del secondo piano, abbia qualcosa da insegnare soltanto ai suoi utilizzatori quotidiani, sarebbe tanto riduttivo e controproducente quanto scegliere di chiudere gli occhi di fronte alla ciclopica magnificenza del grattacielo. Poiché Anandaloy costituisce soprattutto la dimostrazione del modo in cui, oggi più che mai, l’impiego di soluzioni tradizionali ai problemi dei nostri tempi possa condurre a un tipo di risoluzione non meno efficiente, pur restando prossimi all’auspicabile, spesso ineffabile misura d’uomo. Ed ogni aspetto, in questo essenziale coronamento dei trascorsi progetti condotti dall’autrice in Bangladesh, sembrerebbe parlare il linguaggio di un quel dialogo, a partire dalla scelta di far costruire l’edificio questa volta esclusivamente a maestranze locali, tra cui l’impresa Montu Ram Shaw e persone reclutate appositamente allo scopo, alcune delle quali affette dalle stesse disabilità che oggi vengono curate tra queste notevoli mura. Fino alla dimostrazione che non c’è niente d’irraggiungibile o irrealizzabile, nell’affrontare il problema degli spazi abitativi mediante soluzioni che appaiono del tutto nuove. Soprattutto quando esse derivano, nei fatti, dalla tradizione ancestrale dei nostri popoli predecessori…
Dal punto di vista tecnico, l’edificio multifunzionale Anandaloy è una sostanziale applicazione del materiale e metodo di costruzione chiamato in lingua anglosassone cob, riconducibile per certi versi alla tecnica abruzzese e marchigiana del cosiddetto massone. Che parte dalla creazione, mediante mescolatura ad arte di una certa quantità di fango, argilla e un sostrato fibroso di provenienza vegetale (tipicamente fieno) di un compatto amalgama destinato ad indurirsi alla semplice temperatura ambiente, senza l’impiego di alcun tipo di cottura. Il che giustifica l’impiego di una pratica e spontanea “betoniera”, generalmente costituita da un buco circolare nel terreno, sopra cui vengono fatti marciare costantemente una coppia di buoi, in alternativa al battere ritmico dei piedi di una serie di operai addetti destinati a darsi ben presto il cambio, dato il dispendio energetico innegabilmente significativo. Così che il materiale sollevato e trasportato in corrispondenza delle fondamenta, che in questo caso prevedono materiali convenzionali al fine di massimizzare la stabilità dell’edificio, possa essere plasmato direttamente nella forma desiderata senza l’impiego di alcuna opera temporanea o cassaforma. Il che elimina ogni tipo d’ostacolo, essenzialmente, nella creazione di forme complesse o curvilinee, rendendo altrettanto facile (o difficile) la messa in opera di pareti come quelle di Anandaloy, che la stessa autrice ama definire “danzanti”. Con finalità essenziali al consolidamento della struttura, Anna Heringer prevede quindi sui due livelli del suo palazzo l’impiego di tettoie sporgenti sostenute grazie a legno di bambù, con finalità non soltanto decorativa ma di primaria importanza nella logica d’impiego del massone, al fine di evitare l’erosione progressiva dovuta allo scivolamento della pioggia sui muri di fango pressato. All’interno e sotto la rampa, un grande spazio comune centrale si apre sulla scala che conduce al piano di sopra, dove è stato deciso di collocare il laboratorio tessile Dipdii, gestito localmente dalle sarte del villaggio che idealmente potranno in questo modo evitare di trasferirsi in città per guadagnarsi da vivere, trovandosi costrette ad abbandonare la loro famiglia. Gli spazi sotto la rampa che gira tutto attorno all’Anandaloy, dal canto loro, trovano sotto i sostegni strutturali una serie di gallerie curvilinee simili a caverne illuminate dalla luce naturale, pensate la fine di costituire il “rifugio ideale” e luogo di ritrovo e divertimento per i bambini che frequentano la zona, che potranno usarlo secondo la loro preferenza al fine di giocare, leggere o rilassarsi.
Il che vorrebbe poi costituire la realizzazione pratica, e particolarmente tangibile, della domanda d’apertura nelle sessioni d’insegnamento dei princìpi basilari dell’architettura inventate dalla Heringer, messe in pratica indifferentemente nelle scuole primarie e in alcune delle università più famose al mondo: “Pensate all’ambiente che avreste considerato ideale all’età di 5 anni” poco prima di mettersi collettivamente al lavoro, in quella che viene da lei chiamata una sessione di clay storming (tempesta d’argilla) in cui costruire, distruggere e ricostruire più volte la manifestazione dell’idea di ciascun partecipante. La stessa metodologia applicata nell’interessante scultura ed opera temporanea simile a una rampa per lo skateboard pseudo-piramidale, costruita dal celebre architetto assieme agli studenti di Harvard di fronte alla facoltà di design (MudWorks- 2012) e diventata in breve tempo la protagonista di uno strano rapporto “tattile” da parte di chiunque si trovasse a passare da quelle parti, entusiasticamente portato ad accarezzarne la superficie lievemente ineguale.
Perché il fango, ci tiene a specificare l’autrice, non è una soluzione imperfetta o transitoria, più di quanto possa essere definito tale alcun altro tipo di materiale usato correntemente in architettura. Bensì un’alternativa straordinariamente valida, ed altrettanto funzionale, alle sostanze preferite dal sedicente Progresso.
Cambiare il mondo, in ultima analisi, non è un processo facile né in alcun modo automatico. Perché deve scaturire, in ogni ambito specifico d’interesse, dal profondo. Ed integrare volta per volta le risorse disponibili in un particolare luogo, valorizzandone le qualità inerenti.
Ecco, dunque, il valore del fango: che è gratuito e versatile, facile da porre in opera. Ed altrettanto facile da abbandonare permettendone il ritorno alla natura, nel momento in cui dovesse cessarne l’utilità. Un valore aggiunto forse tra i più ingiustamente trascurati, in un’universo in cui la continua trasformazione dei presupposti e dei bisogni viene considerato un pilastro irrinunciabile dell’esistenza. Indipendentemente dalle sfide che dovessimo trovarci quotidianamente ad affrontare. Che siano di derivazione karmica, o terrena.
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