La NASA e l’oggetto più improbabile mai caricato su un jet di linea

Collocati sul suolo lunare a partire dal 1962, dagli equipaggi dell’Apollo 11, 14 e 15, gli specchi retroreflettori hanno lo scopo di assolvere a un’importante mansione: permettere di misurare, attraverso la restituzione al mittente di potenti fasci di luce laser provenienti dalla Terra, l’esatta distanza tra quest’ultima e il suo satellite, importante al fine di prevedere i futuri cambiamenti dell’asse orbitale e il conseguente ciclo non del tutto imperturbabile delle stagioni. Nel corso dell’ottobre del 2020, tuttavia, un diverso tipo di riflesso partito dalla parte luminosa del satellite ha finito per raggiungerci attraverso i soli strati superiori dell’atmosfera, quello che la scienza ha dimostrato essere prodotto da un particolare tipo di molecole piuttosto complesse, normalmente associate all’esistenza della vita. Idrati e i loro simili tutt’altro che potabili, gli stessi idrossili contenuti all’interno dei prodotti per lo spurgo degli scarichi e dei lavandini (uhm, rinfrescante!) Trattandosi tuttavia di quantità pari a una bottiglia da un terzo di litro per metro cubico, probabilmente intrappolata in particolari concrezioni semi-trasparente, sorge spontanea la domanda di QUALE strumento, esattamente, possa essersi dimostrato abbastanza potente da riuscire, infine, a rilevarlo. Il che conduce senza falla presso l’ambito dei telescopi operanti nello spazio dell’infrarosso, sensibili a un tipo d’immagini impossibili per l’occhio umano, sebbene la questione più interessante risulti coinvolgere piuttosto il DOVE una simile scoperta possa aver trovato le uniche basi basi possibili per la sua realizzazione. Ovvero tra le remote nubi della stratosfera, a bordo del singolo jet di linea 747 più costoso ad essere mai stato pilotato da mano umana.
Il SOFIA (Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy) ovvero un prodotto cooperativo nato dalla collaborazione tra la NASA statunitense e il Centro Aerospaziale Tedesco (DLR) per la continuazione di un discorso che aveva avuto inizio nel remoto 1974, con l’inaugurazione dell’Osservatorio Kuiper, un trasporto militare Lockheed C-141A pensato per sostituire, a sua volta, l’esperimento incidentato del Galileo/Convair 990. Tutti aerei sufficientemente potenti, ed ingombranti, da riuscire a contenere dentro la carlinga un dispositivo per l’osservazione e lo studio dei corpi celesti, dalla portata e potenza progressivamente più impressionanti. Fino allo specchio di 2,7 metri di diametro fatto fuoriuscire e stabilizzato, mediante avanzati sistemi giroscopici e motori rotativi, all’interno di questo velivolo da 56 di lunghezza e 59 di apertura alare. Proprio per questo appartenente alla serie SP (Special Performance) che fu accorciata di 75 metri al fine di competere, per prestazioni ed economia di volo, con i principali rivali della Boeing, DC-10 ed L-1011. Per una comunione d’intenti destinata a rivelarsi, come potrete facilmente immaginare, tutt’altro che facile e accessibile da implementare, tanto da far trascorrere un periodo di ben 12 anni tra l’acquisto dell’aereo ed il suo volo d’inaugurazione con la nuova finalità operativa, compiutosi soltanto nel 2009 col pretesto di osservare da vicino il calore proveniente dagli strati superiori di Giove. Missione destinata a rivelarsi un totale successo, dimostrando al mondo accademico e al congresso come le ingenti spese di ricerca & sviluppo non fossero state totalmente prive di uno scopo. Bensì utili ad aprire, prepotentemente, una nuova finestra utile ad ampliare le nostre conoscenze su alcune delle questioni maggiormente misteriose dell’universo…

La stabilizzazione in volo del telescopio SOFIA è uno dei maggiori successi in campo degli automatismi in volo, basato largamente sui sistemi in uso per le armi direzionabili delle cannoniere militari. Ma con margini di errore molto, molto inferiori…

Il vantaggio di un telescopio ad infrarosso, capace di rivelare le emissioni radioattive di corpi ultra-distanti attraverso le variazioni di calore, è la sua capacità di farlo anche attraverso nubi di polvere o altri elementi di schermatura, tanto comuni sia nell’atmosfera dei pianeti che al di fuori di essi. Un proposito che diventa progressivamente tanto più complesso, quanti sono gli strati della nostra stessa atmosfera che dovranno essere filtrati da ciascuna delle immagini catturate dal dispositivo. I vantaggi relativi all’installazione di un simile apparato a bordo di un jet di linea, tuttavia, non si fermano soltanto a questo: uno dei principali problemi relativi a una simile tipologia di telescopi, infatti, è dissipare il calore generato dalle radiazioni concentrate all’interno del collimatore a specchio. Problema essenzialmente fatto passare in secondo piano, quando l’apparato in questione viene esposto all’altitudine di 13.700 metri e quasi 9/10 della velocità del suono, pari a 914 Km/h. Benché gli ostacoli tecnologici da superare, a tal fine, siano tutt’altro che insignificanti. A partire dall’apertura a comando di un rettangolo alto circa i due terzi della carlinga in prossimità della sezione di coda, senza compromettere le prestazioni aerodinamiche dell’imponente mezzo di trasporto. E l’utilizzo, comunque necessario in fase di decollo ed atterraggio, di copiose quantità di gas azoto onde assicurare il raggiungimento graduale di una temperatura coerente a quella usata dal telescopio durante la sua fase di osservazione. Obiettivo perseguito, quest’ultimo, mediante l’impiego di uno specchio primario realizzato in Germania con particolari accorgimenti di assottigliamento ed alleggerimento, il cui numero F di appena 1,3 ridireziona l’immagine attraverso una seconda superficie riflettente parabolica ed infine presso l’obiettivo di tipo Nasmyth–Cassegrain, dove potrà essere analizzata da una serie di strumenti particolarmente funzionali allo scopo. Tra cui la videocamera a infrarossi FLITECAM, capace di coprire questa intera parte dello spettro luminoso, ma anche fotometri, spettrometri e misuratori della polarizzazione, idealmente utili a rivelare quel tipo di strutture atomiche spesso ricercate nell’ambito largamente speculativo della xenobiologia. Con un costo operativo che supera abbondantemente gli 82 milioni di dollari annuali, notevolmente superiore a quello di qualsiasi piattaforma d’osservazione di tipo convenzionale, il SOFIA è stato quindi sfruttato ininterrottamente dal momento della sua inaugurazione per una media di 100 voli l’anno fatta eccezione per il 2020, causa inizio del periodo della pandemia Covid. Con uno sforzo per il budget spaziale, nonostante i molti successi conseguiti, talmente significativo da rischiare più volte la terminazione, salvandosi durante le ultime due amministrazioni presidenziali soltanto per il desiderio di ammortizzare le spese di oltre un miliardo di dollari già affrontate al fine di porre in essere la sua complicata realizzazione. Osservazioni destinate ad includere, nei suoi quasi vent’anni di lavoro, la nascita e la morte delle stelle, nebulose distanti, la formazione di sistemi solari distanti e molecole complesse all’interno di essi, campi magnetici e buchi neri. Ragion per cui risulta tanto più eccezionale ed inaspettata, l’occasione di scoprire un qualcosa di tanto rilevante alla distanza relativamente trascurabile del nostro stesso satellite, trasformando così sostanzialmente la complessità futura di garantire il sostentamento di un’ipotetica base umana permanente, senza dover ricorrere alle ben più irraggiungibili fonti d’acqua intrappolate nella profondità dei crateri gelidi all’altro lato della Luna, mai raggiunti dalla luce del Sole. Un proposito destinato a richiedere, comunque, significativi progressi tecnologici e future semplificazioni, destinati a drenare ulteriormente i già copiosi fondi necessari a perseguire un qualsivoglia margine nel campo dell’esplorazione spaziale. Il che è in definitiva solamente un altro modo per dire che ci vorranno anni, se non addirittura, generazioni.

Nonostante la quantità di tecnologia presente all’interno della fusoliera del SOFIA, la stile anziano dell’avionica di bordo emerge non appena si fa ingresso nella cabina di pilotaggio, appartenente essenzialmente ad un modello d’aereo che risale ad oltre un trentennio a questa parte. Ogni proposito di rinnovamento, tuttavia, avrebbe dei costi assolutamente proibitivi.

L’ulteriore vantaggio di un osservatorio volante, inoltre, è inerente nella sua capacità imprescindibile di spostarsi. Raggiungendo in poche ore, di volta in volta, l’emisfero meridionale o settentrionale, a seconda dell’osservazione che sia ritenuta utile dalla missione di turno. Significativo, in tal senso, il viaggio raccontato in un esauriente reportage della ABC, in cui il Dr. Jonathan Webb testimoniava l’inseguimento nel 2019 di un’occasione irripetibile per osservare l’ombra del satellite Titano sul suo pianeta madre Saturno, visibile soltanto da una zona in mezzo al Pacifico per un periodo di poche ore. Il che permise, in maniera più unica che rara, di osservare l’atmosfera del primo che si stagliava contro la luce riflessa del secondo, permettendo di osservare i cambiamenti recenti nella sua composizione. Un progetto importante per comprendere l’origine remota, e precedentemente inconoscibile, dell’aria che noi stessi respiriamo.
Così non è sempre semplice, di volta in volta, giustificare la spesa considerevole necessaria per raggiungere una conoscenza maggiormente approfondita della galassia in cui viviamo e i suoi molti segreti. Sarebbe possibile affermare, tuttavia, che si tratti del più importante tra i propositi della nostra vita terrena. E forse l’unico capace di giustificarla in senso cosmico, anche senza lo strumento spesso utile di un credo religioso. Perché “dove andiamo” non deve per forza essere una domanda filosofica sull’indomani; quando la risposta è pronta ad essere configurata come “il gate dell’aeroporto”. E stelle tutt’altro che fisse, nel cielo distante, segnano la direzione da seguire verso le ultime regioni della conoscenza.

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