Il gigantesco felino scrutò in trepidante attesa oltre il parapetto del ponte di pietra del monte Seryo, sola ed unica via d’accesso verso il paradiso buddista delle Terre Pure. In mezzo alla nebbia del mattino, scorse quindi una distante frezza rossa, facente parte della criniera del suo stesso sangue che lui severamente, ma non senza rammarico, aveva spinto al di là del baratro senza fondo. “Sali figlio mio, dimostra la mondo la tua forza!” Pensò quindi l’animale, mentre allargava le possenti zampe per recare un saluto al sole. “Il tuo fallimento, da solo, porterebbe al fallimento della nostra intera razza di fronte al più impareggiabile dei Signori!”
É importante notare come nessuno avrebbe mai pensato, nel remoto 1603, che le danze improvvisate dalla fanciulla del tempio (miko) Izumo no Okuni potessero arrivare a simili eccessi. La giovane ribelle, inviata a Kyoto dai suoi genitori per raccogliere le offerte dedicate al culto shintoista, che iniziò piuttosto a radunare attorno a se altre donne senza fissa dimora, vagabonde e prostitute, insegnandogli le tecniche drammatiche e le danze tipiche della sua antica professione. Dando vita a quella serie d’intriganti metodi espressivi, o mutazioni che dir si voglia sulla base del teatro giapponese, giudicate degne di dare l’origine a un canone estetico del tutto nuovo. Kabuki (歌舞伎) era il suo nome, ovvero letteralmente “abilità del canto” ma in un doppio senso carico di sottintesi, anche kabuki (傾き) inteso come inclinarsi o deviare dalle convenzioni e la morale pubblica, creando qualche cosa d’inusitato. Buffo, misterioso, senza freni: l’intera troupe di Okuni, che era solita esibirsi nel letto prosciugato del fiume Kamo, iniziò quindi ad attirare folle sempre più numerose, attraverso drammi che erano spesso delle parodie d’eventi storici, fatti di cronaca o dialoghi filosofici e religiosi. Ma la parte principale dello spettacolo, furono fin da subito le danze shosagoto (所作事) o furigoto (振事) in cui le attrici si esprimevano attraverso straordinarie evoluzioni a tempo di musica, spesso indossando costumi straordinariamente variopinti ed elaborati.
Con il trascorrere degli anni attraverso gli oltre due secoli a venire, inevitabilmente, il governo centrale del recentemente consolidato shogunato dai centri di potere del bakufu (幕府) presso il nuovo centro politico della nazione, la città di Edo, proclamò una serie di editti atti a regolamentare e limitare la presa sul pubblico del fin troppo influente kabuki. Primo tra tutti, quello che vietava alle donne di prendervi parte, causa la tendenza delle sue partecipanti a mantenere anche l’originaria professione, inducendo la debole carne maschile in tentazione. Il che viene generalmente riconosciuto come poco più che un pretesto al fine di smorzare l’indole ribelle, polemica e sanguigna dei sempre più numerosi palcoscenici dedicati alla nuova forma d’arte. Nonché inefficace, vista l’altrettanto immediata popolarità della versione esclusivamente maschile di quel canone, in cui particolarmente importante diventò il ruolo dell’attore onnagata (女形) specializzato nell’interpretazione dei ruoli femminili. Nessun personaggio viene tuttavia considerato più arduo da soddisfare, ed agognato nel corso della carriera di un praticante, che il “cane” leone guardiano komainu (狛犬) del monte Seryo, fedele servitore del bodhisattva (santo buddista) della saggezza Mañjuśrī, intento ad educare il proprio giovane figlio alla durezza e la severità della vita montana. Secondo le precise modalità e le sfide elencate nel ben più antico dramma del teatro noh, Shakkyō (石橋 – Il Ponte di Pietra) risalente al XIV secolo, reinterpretate a partire dal 1872 da una coppia di attori che si riteneva auspicabile fossero padre e figlio anche nella vita reale…
Il komainu del teatro kabuki dunque, reinterpretazione a misura umana dell’originale cane guardiano di Foo posto a guardia dei luoghi di culto nell’intera Asia dell’Estremo Oriente, si presentava all’inizio della rappresentazione del dramma noto come Renjishi (連獅子) con un grandiosità e piglio espressivo niente meno che straordinari. Dopo l’introduzione dell’opera, in cui due figure umane animate spesso dagli stessi attori descrivono i meravigliosi paesaggi montani mostrando le maschere in effige dei leoni che vi abitano, emergevano quindi i notevoli kimono broccati e le ingombranti parrucche, bianca per il padre e rossa per il figlio, poco prima di dare inizio alle magnifiche e travolgenti danze della loro selvaggia genìa. Lo scenario della rappresentazione, nella maggior parte dei casi, è totalmente neutro e include unicamente il dipinto di alcuni alberi di pino, secondo la prassi di tutti i drammi kabuki del genere matsubame-mono (松羽目物) ovvero ispirati direttamente ad opere pre-esistenti del teatro Noh. Proprio per questo, l’abilità recitativa dei due praticanti diventa niente meno che essenziale, mentre mimano la presenza di alcuni fiori ed altre piante, con cui gli animali giocano in maniera spensierata, prima che il padre diventi improvvisamente serio e compia lo spartano gesto di far cadere l’amato figlio dalla rupe. A quel punto, con ferocia e compassione al tempo stesso, il leone “adulto” deve riuscire a dare al pubblico l’idea di tali e tanti sentimenti contrastanti, mentre il “cucciolo” cade, si rialza, tenta di aggrapparsi alle rocce e trova rifugio all’interno di un’angusta caverna. In quel momento c’è uno stacco, e la rappresentazione passa la secondo atto, dal tono e l’argomento totalmente distinti. Qui due monaci in pellegrinaggio lungo gli angusti sentieri della montagna si trovano improvvisamente a discutere delle proprie sette buddiste di appartenenza, tentando di convincersi l’un l’altro della superiorità delle rispettive credenze. Si tratta di un dialogo enfatico e spesso farsesco, quasi umoristico, che degenera nel finale con i due protagonisti che intonano, per sbaglio, le preghiere della controparte. É un diretto riferimento all’intermezzo comico di una tipica rassegna del teatro Noh ispiratore del dramma Renjishi, appartenente al genere del kyōgen (狂言 – parole della follia) spesso recitato senza uno specifico copione e improvvisato direttamente sul palcoscenico dagli attori. Nel terzo ed ultimo atto, quindi, i due leoni finalmente riuniti e ritornati al centro dell’azione ritrovano la gioia mentre ricominciano a danzare tra le peonie, poco prima d’inscenare il momento più atteso dell’intera rappresentazione. Gli attori, a questo punto, salgono su un piedistallo, piegano ed irrigidiscono le ginocchia, chinando in avanti la testa con la splendida parrucca. Quindi, all’improvviso, iniziano a farla girare vorticosamente: è il keburi, la “rotazione” della lunga criniera leonina, uno dei gesti più faticosi e segretamente complessi nell’intero repertorio espressivo del kabuki. In cui il ritmo e la cadenza perfezionati attraverso ore ed ore di pratica devono dar vita a un movimento perfettamente regolare e coincidente nelle tempistiche, tra padre e figlio, ripetuto anche centinaia di volte in una singola tournée teatrale.
Niente macchine sceniche, quindi, né inattesi effetti speciali, fondali girevoli e neppure il passaggio degli attori tra il pubblico mediante l’apposito hanamichi (花道) il “ponte” che collega il proscenio agli scomparti preparatori posti dietro gli spettatori. Ma soltanto l’abilità recitativa e nella danza dei due protagonisti, che interpretando animali privi della parola devono riuscire a esprimersi unicamente mediante l’impiego della gestualità. Fino all’apoteosi della conclusione finale, in cui la leggendaria bestia, di cui i giapponesi avevano avuto soltanto notizie di seconda mano attraverso i viaggiatori della Via della Seta, mostra tutta la forza espressiva contenuta nella sua leggiadra fisicità felina.
Come personaggio, il leone guardiano dell’Estremo Oriente è una figura in grado di attraversare senza particolari variazioni i confini culturali e nazionali dei diversi paesi. Forse a causa del suo intento e stile di vita immediatamente comprensibile, sebbene l’effettivo animale a cui era direttamente ispirato restasse in larga parte misteriosi nella maggior parte del territorio in cui veniva messa in pratica la sua ammirazione. In tal senso, i drammi kabuki che lo vedono come protagonista sono generalmente consigliati a chi si avvicina per la prima volta a questa forma d’arte, data l’immediatezza espressiva e la facilità di comprensione, anche senza conoscenze pregresse di specifici eventi storici o folkloristici del vecchio Giappone.
Ciononostante, l’ammirazione di colui che interpreta con stile un tale personaggio non viene mai superata neanche dai più esperti conoscitori di quel teatro, data l’abilità necessaria a “vendersi” al pubblico nel ruolo di una creatura tanto mistica e leggendaria. Al punto che la stessa Okuni, nel dedalo di strade e spiazzi religiosi di Kyoto, avrebbe apprezzato l’occasione di poter esprimere un simile punto di contatto con l’arcaico senso primordiale della natura. Poiché non è forse proprio questo, il più significativo e universale gesto di ribellione?