Piattaforme in legno e fronde oltre la curvatura dell’orizzonte, fin dove l’occhio riesce a spingersi lungo l’irto declivio. Alberi sul lato della strada, sopra cui crescono ulteriori Alberi. Geneticamente uguali; ma esteriormente, diversi. Cos’ha creato il surreale paesaggio che caratterizza la regione giapponese dei villaggi di Takagamine, Takao, Kumogahata e Kitayama? Di certo, in una simile stranezza, dev’essere coinvolta la possente ed instancabile mano dell’uomo!
La moda è quell’influsso, simile a una carica elettrostatica, che ogni cosa percorre modificandone profondamente le caratteristiche fisiche immanenti; non sottovalutate mai, se potete, l’effetto che la moda può avere sull’aspetto dei luoghi e le persone, le preferenze operative di quest’ultime, la stessa forma e l’aspetto del paesaggio in cui abitiamo. Ci fu un tempo, nel Giappone dell’epoca pre-moderna, in cui colline intere attorno alla città di Kyoto vennero dedicate alla coltivazione di uno specifica tipologia di materiale. Ciò era legno e poco più di quello, ma anche molto un quantum straordinariamente significativo, oltre a quello. Era il tempo dei guerrieri in armatura, pronti a cavalcare dentro il turbine della battaglia. Che al ritorno dal caos e gli spargimenti di sangue del Sengoku Jidai (Paese in Guerra) pretendevano di riposarsi in uno spazio sereno e quasi mistico, la più perfetta applicazione della filosofia al concetto di spazio creato da, in base agli specifici bisogni e per l’uomo. Zen: se c’era stato qualcuno responsabile, in prima persona, di averlo trasformato in una linea guida dei processi architettonici vigenti, quel qualcuno fu senz’altro il monaco, filosofo e “maestro del tè” Sen no Rikyu (千利休, 1522 -1591) consigliere del signore della guerra Toyotomi Hideyoshi il quale, come molti altri nella sua non troppo comoda posizione, fu infine messo a morte per un disaccordo mai realmente chiarito dalla storia. Non prima di creare e regolamentare una specifica eredità culturale, tuttavia, che sarebbe diventata il fondamento stesso di un particolare approccio alla bevanda tanto utile per affrontare le vicissitudini e le ansie dell’esistenza. Chi creda che agitare il frustino di bambù nella preziosa ciotola, mentre ci si libera i pensieri prima di servire l’ospite d’onore, sia l’essenza e il fondamento ultimo di questa Cerimonia, sta rischiando di mancare essenzialmente il punto. Che consiste nel creare uno specifico momento, a cui si accompagna un contegno, una ragione, un sentimento. L’esperienza in cui lo stesso ambiente, la fondamentale Chashitsu (茶室 – Stanza del Tè) diviene un’interfaccia con il regno della mente sgombra da pensieri che riescano a offuscare la percezione del Tutto (禅 – Zen).
Con la pacificazione del paese, e l’istituzione della somma pax dei Tokugawa successivamente alla battaglia di Sekigahara (1600) l’approccio sobrio ed elegante alla concezione di simili ambienti venne quindi trasformato in un’intera corrente architettonica, dal nome specifico di sukiya-zukuri (数寄屋造り – Stile Raffinato) per distinguersi da quello pre-esistente di shoin-zukuri (書院造 – Stile della sala del tempio) in cui tutto era attentamente definito fino al benché minimo dettaglio, intrappolando la mente nelle regole del mondo terreno. Tale novità portava, tuttavia, anche un problema significativo e del tutto nuovo: poiché le più sontuose residenze realizzate dai signori di un simile società feudale, essendo assai più vaste ed imponenti di qualsiasi sala da tè, richiedevano una quantità proporzionale di pilastri, travi ed altri materiali simili. Che secondo la concezione nata sotto l’egida del mai abbastanza compianto Sen no Rikyu, dovevano essere naturalmente lisci, splendidi e perfetti tronchi, prelevati direttamente da una specifica tipologia di foresta collinare. Doveva necessariamente trattarsi nella maggior parte, in altri termini, del fusto centrale appartenente a un cedro rosso giapponese (Cryptomeria japonica) l’unico albero giudicato degno di costituire i pilastri della fondamentale nicchia del tokonoma (床の間) sancta-sanctorum dell’abitazione rispettabile, innanzi cui far sedere l’ospite, ovvero la tradizionale controparte nell’ormai diluita ed esteriorizzata cerimonia del tè. Il che richiese un’approccio funzionale alla foresteria che si sarebbe rivelato, nei secoli, davvero assai particolare…
Si dice che la tecnica per la coltura intensiva del cedro di Kitayama, come viene chiamato per antonomasia questo eccezionale approccio alla foresteria nonché l’albero rilevante, fosse stato un dono del karma nei confronti degli abitanti di questo villaggio tradizionalmente dedito alla produzione di legname, situato al confine tra le prefetture di Mie e Nara. Per il tramite di un misterioso monaco rimasto senza nome che, colpito da una malattia improvvisa, venne accolto e curato dalla gente del villaggio, soltanto per svegliarsi all’improvviso e pronunciare, in cambio, quanto segue: “Andate a lucidare i vostri tronchi con la sabbia che si trova sotto la cascata di Bodai. Ciò basterà, per renderli meravigliosi…” E fu quello il primo passo, se vogliamo, di un percorso destinato a dare forma ad uno dei più notevoli materiali architettonici che il mondo abbia mai conosciuto. Il cedro rosso giapponese è infatti caratterizzato già in natura da un tronco elegantemente sottile e privo di nodi, che la gente dei dintorni scoprì crescere ancor più in alto quando attentamente potato dei rami intermedi per un periodo approssimativo di 30-40 anni, in una maniera che ricorda la pratica in scala delle tecniche per i bonsai. Con cura estrema e frutto di svariati secoli di esperienza, i boscaioli impararono quindi a far cadere tali tronchi a terra in modo graduale accompagnandone la traiettoria con braccia e corde, affinché fossero l’espressione letteralmente più perfetta del concetto di un pilastro, privo di alcuna macchia o imperfezione inerente. Fino al diffondersi del detto secondo cui la vendita di uno di essi diventava, per il produttore, come separarsi da “Una figlia che andava in sposa” benché la dote risultante fosse, nella maggior parte dei casi, assolutamente valida a consolare ogni residuo senso del rimorso. Importante era anche il processo di eliminazione della corteccia e successiva lucidatura, capace di occupare un tempo fino a 5 o 6 volte superiore a quello di qualsiasi altra produzione di legname, non importa quanto pregiato.
La crescente richiesta di questi pilastri come dicevamo, all’inizio del XVII secolo, portò ai proprietari dei terreni un significativo e importante dilemma. Poiché la zona a nord di Kyoto, che includeva i villaggi di Takagamine, Takao, Kumogahata e Kitayama era tutt’altro che pianeggiante ma piuttosto caratterizzata da un terreno per lo più scosceso e collinare, lo spazio a disposizione per far fronte ad una simile esigenza era drammaticamente limitato. E tale sarebbe rimasto, almeno fino all’invenzione dell’innovativo approccio alla coltivazione noto come daisugi (台杉 – cedro piattaforma) consistente nell’applicazione ancor più estrema della già citata tecnica di potatura reiterata attraverso la vita dell’albero. Concettualmente non dissimile dalla prassi, spesso criticata in Occidente, della capitozzatura o pollarding, già in uso nell’antica Roma almeno a partire dal I secolo a.C. (ce ne parla il poeta Sesto Properzio) ma che in questa versione giapponese si curava, in aggiunta al risultato, di preservare la grazia e l’eleganza dell’albero prima di essere trasformato in materiale da costruzione. Oppure, se vogliamo, il merito va attribuito soprattutto all’inerente resistenza dell’albero Cryptomeria japonica: fatto sta che eliminando, in modo sistematico, tutti rami al di sopra di una certa altezza, il cedro venne dimostrato in grado di sviluppare una parte del suo tronco in modo naturale, mentre le diramazioni superiori diventavano conformi alla produzione dei pilastri perfettamente diritti e regolari tanto amati dalla classe guerriera dei samurai. L’albero così trattato, inoltre, poteva essere tagliato solamente in parte nel momento della raccolta, lasciando la parte basse del tronco in grado di sopravvivere e germinare ancora. Il che riduceva, di molto, il tempo necessario a piantarne uno del tutto nuovo. I cedri piattaforma a questo punto, perfetta rappresentazione fisica dell’umana tendenza ad elevarsi e raggiungere il satori nella ricerca quotidiana della perfezione, diventarono degli arredi particolarmente apprezzati per i giardini dei templi Zen e residenze annesse, che a loro volta e in modo molto pratico, venivano costruiti con le parti dello stesso sacro albero, pronto a produrre ancora.
Un’altra caratteristica, spesso data per scontata in merito alla moda, è la sua tendenza ad essere progressivamente sovrascritta, da nuove tendenze e irrinunciabili bisogni, mutualmente esclusivi per il tempo e l’attenzione che richiedono alle genti del consorzio umano. Così la passione samurai per lo stile sukiya-zukuri, assieme alla pratica ad ogni livello della Cerimonia, sarebbero passati in secondo piano innanzi allo strapotere dei motori, degli aeroplani, delle macchine da scrivere, i fax e i telefoni cellulari. Benché un modo di trattare gli alberi non possa, essenzialmente, mai essere dimenticato. Finché sopravvivono coloro i quali, lavorando duramente per una parte significativa della loro transitoria esistenza, hanno insegnato ai propri figli ed ai figli dei figli come ereditare tale metodo ancestrale.
Poiché ci sarà sempre un posto d’onore, nell’architettura giapponese religiosa e non solo, per una colonna fatta crescere perfettamente diritta, come la Via indicata da coloro che erano venuti prima. Quel tipo di filosofi che, lavorando con le mani, sono giunti a possedere la più intrinseca e profonda conoscenza dell’esistenza delle cose. Ovvero, in altri termini, lo Zen.
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